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Il Codice di autodisciplina delle società quotate come strumento di corporate governance

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

Consulenza Professionale alle Aziende

IL

C

ODICE DI AUTODISCIPLINA DELLE SOCIETÀ QUOTATE COME STRUMENTO DI CORPORATE GOVERNANCE

CANDIDATO: RELATORE:

Camilla Ranieri Dott. Alessandro Benocci

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I

NDICE

I

NTRODUZIONE ... 7

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APITOLO

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RIMO

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OCIETÀ QUOTATE E CORPORATE GOVERNANCE ... 9

1.1. Mercato finanziario, società quotata e ragioni della specialità della disciplina ... 9

1.2. Definizioni di corporate governance. ... 17

1.3. Separazione tra proprietà e controllo. ... 23

1.4. Agency theory e costi d’agenzia. ... 27

1.5. Dall’eteroregolamentazione all’autoregolamentazione. ... 34

C

APITOLO

S

ECONDO

A

UTOREGOLAMENTAZIONE E CODICI DI COMPORTAMENTO 2.1. Origine e sviluppo dei codici di comportamento ... 41

2.2. Evoluzione del Codice di autodisciplina italiano. ... 46

2.3. Complementarietà tra leggi e codici di autodisciplina. ... 56

2.4. Sanzioni e profili di responsabilità. ... 59

2.5. Il ruolo dell’enforcement. ... 66

C

APITOLO

T

ERZO

I

L

C

ODICE DI

A

UTODISCIPLINA DELLE SOCIETÀ QUOTATE

... 77

3.1. Il consiglio di amministrazione. ... 77

3.2. Sistema di controllo interno e di gestione dei rischi. ... 88

3.3. Sindaci. ... 92

3.4. Rapporti con gli azionisti. ... 96

3.5. Sistemi di amministrazione e controllo dualistico e monistico. ... 98

C

ONCLUSIONI ... 103

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7

I

NTRODUZIONE

Il fenomeno dell’autoregolamentazione in tema di corporate

governance è stato sin dalla sua nascita molto dibattuto. Indubbiamente,

il succedersi di scandali finanziari e la conseguente perdita di fiducia da parte degli investitori ha influenzato il mercato finanziario, che ha “reagito” mostrando un crescente interesse alle tematiche volte ad ottenere un buon governo societario. I codici di corporate governance sono nati in questo contesto come raccolte di best practices internazionali che, prendendo a modello gli standard delle migliori società quotate, hanno tentato – e tentano tutt’ora – quasi, come si può intuire dalle tematiche comuni a prescindere dal paese in cui vengono redatti, di creare uno standard unico di buona governance.

Il primo capitolo di questo lavoro, dopo una breve introduzione riguardante il significato di mercato finanziario, corporate governance e società quotata, è dedicato alla contestualizzazione dello strumento dei codici di corporate governance e, nello specifico, delle tematiche ad essi sottostanti che trovano la loro ragione proprio nella specialità della disciplina dedicata a questi particolari soggetti giuridici. La

corporate governance, nella definizione che verrà qui considerata, ha

da sempre come “nodo” cruciale il conflitto di interessi che intercorre tra azionisti e manager, ben individuato come un problema di agenzia. Non risulta difficile capire che una società quotata coinvolge una vasta platea di soggetti che in essa investono, alcuni dei quali richiedono una tutela maggiore dovuta alla loro, per così dire, fisiologica

disinformazione . Si vedrà come la letteratura si sia inserita in questo

contesto, cercando di sviluppare soluzioni volte anche alla salvaguardia degli interessi dei soggetti più deboli, che dipendono e cambiano a seconda del contesto geografico, economico e culturale in cui vengono inseriti . Il secondo capitolo è dedicato nello specifico al Codice di autodisciplina delle società quotate italiano. Si dirà brevemente della sua nascita, che “prende le mosse” dal codice di corporate governance inglese (Cadbury Code) e dell’evoluzione del Codice italiano,

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pubblicato per la prima volta nel 1999 da Borsa Italiana sino alla sua – quasi – totale revisione del 2011, di cui ancora si condivide gran parte dell’impostazione. In seguito, si analizzeranno le implicazioni successive del Codice che prevedono la sua influenza sull’ordinamento italiano e viceversa e si discuteranno le principali sanzioni e i profili di responsabilità che possono scaturire da un suo mancato rispetto. La parte finale del capitolo è dedicata al tema dell’enforcement dei codici di comportamento in generale, con specifico riguardo al codice di autodisciplina. Sebbene la questione resti aperta e non presenti soluzioni ancora definitive, si forniranno le principali proposte che sono state avanzate in merito ai temi di public e private enforcement, al fine di garantire l’effettiva implementazione delle disposizioni contenute nei codici di corporate governance a cui gli emittenti decidono volontariamente di aderire, cercando di evitare dunque che l’adesione sia meramente formale e che, quindi, quanto dichiarato in merito al governo societario non corrisponda alla realtà, fino a considerare le possibili configurazioni di false informazioni al mercato.

Il terzo ed ultimo capitolo analizza, dopo una breve premessa, il Codice di Autodisciplina delle società quotate italiano redatto dal Comitato per la Corporate Governance nella sua attuale versione. Si passeranno in rassegna i vari articoli mettendo in luce le tematiche più controverse in essi contenute.

Il lavoro si propone di verificare la bontà di questo strumento, fornendo dati sulla sua adozione nel tempo e sull’effettività di applicazione delle disposizioni contenute nel Codice. Nelle conclusioni si giungerà a formulare un parere su quanto questo strumento influenzi il governo societario di una società, quanto questo sia percepito dagli investitori e quanto gli strumenti di enforcement siano efficaci ed effettivamente applicabili in caso di mancato rispetto delle raccomandazioni adottate.

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APITOLO

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RIMO

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OCIETÀ QUOTATE E CORPORATE GOVERNANCE 1.1. Mercato finanziario, società quotata e ragioni della specialità della disciplina.

Lo studio della società per azioni quotata, a causa dell’assenza di un corpus organico di regole, dell’elevato tecnicismo della disciplina e dello scarso sviluppo del mercato finanziario italiano, ha sempre avuto, nel contesto nazionale, una rilevanza marginale (1). A partire dai primi anni novanta, le privatizzazioni, la sempre crescente globalizzazione e il progressivo sviluppo del mercato finanziario hanno creato la necessità di una disciplina dedicata allo studio della società quotata e, più in generale, del mercato finanziario (2). Prima di analizzare la nozione di mercato finanziario e nello specifico del comparto mobiliare, è necessario soffermarsi su alcuni concetti che risultano fondamentali per la comprensione dell’argomento in esame. I mercati finanziario sono, seguendo la definizione della Consob, piattaforme informatiche dove si incrociano le proposte di acquisto e di vendita di strumenti finanziari immesse nel sistema telematicamente. Poiché i beni oggetto di scambio sono gli strumenti finanziari risulta necessario fornirne una definizione. Ancora, prima di definire gli strumenti finanziari si deve menzionare la più ampia categoria in cui essi sono ricompresi, cioè quella dei prodotti finanziari.

I prodotti finanziari sono definiti all’articolo 1, comma 1, lettera u) del Testo Unico numero 58 del 1998, meglio noto come Testo Unico della Finanza (da qui in avanti t.u.f.) come «gli strumenti finanziari e

(1) Sulla società quotata e il mercato mobiliare, in generale, cfr. P.MONTALENTI, La

società quotata, in Trattato di Diritto commerciale, diretto da G. Cottino, IV, 2, 2004, Padova; P.MONTALENTI e S.BALZOLA, La società per azioni quotata, 2010, Bologna; R.COSTI, Il mercato mobiliare, 2016, Torino; F.ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare, 2003, Torino; P.MONTALENTI, Società per azioni, corporate governance e mercati finanziari, 2011.

(2) La disciplina che riguarda lo studio della società quotata ha progressivamente

raggiunto un’organicità e un’autonomia individuabili nei seguenti interventi legislativi: d.lgs. 24 febbraio 1998, n.58 conosciuto come Testo unico della finanza (in seguito t.u.f.); riforma del diritto societario del 2003 (d.lgs. 6/2003); l. 262/2005 anche nota come legge sulla tutela del risparmio.

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ogni altra forma di investimento di natura finanziaria; non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari».

Il rapporto quindi tra prodotti finanziari e strumenti finanziari è un rapporto di genus a species in quanto gli strumenti finanziari costituiscono una categoria del più ampio genere dei prodotti finanziari. Il comma 2 dello stesso articolo definisce poi cosa si intende per strumenti finanziari attraverso un elenco tassativo (3), che comprende, tra gli altri, i valori mobiliari definiti come «categorie di valori che possono essere negoziate nel mercato dei capitali quali ad esempio: a) azioni di società e altri titoli equivalenti ad azioni di società, di

partnership o di altri soggetti certificati di deposito azionario; b)

obbligazioni e altri titoli di debito, compresi i certificati di deposito relativi a tali titoli; c) qualsiasi altro titolo normalmente negoziato che permette di acquisire o di vendere i valori mobiliari indicati nelle

(3) Art. 1, comma 2, t.u. n. 58 del 1998 definisce gli strumenti finanziari come segue:

Per strumenti finanziari si intendono: a) valori mobiliari; b) strumenti del mercato monetario; c) quote di un organismo di investimento collettivo; d) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap», accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, quote di emissione o altri strumenti finanziari derivati, indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti; e) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap», contratti a termine («forward»), e altri contratti su strumenti derivati connessi a merci quando l’esecuzione deve avvenire attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in contanti a discrezione di una delle parti, con esclusione dei casi in cui tale facoltà consegue a inadempimento o ad altro evento che determina la risoluzione del contratto; e) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap» ed altri contratti su strumenti derivati connessi a merci che possono essere regolati con consegna fisica purché negoziati su un mercato regolamentato, un sistema multilaterale di negoziazione o un sistema organizzato di negoziazione, eccettuati i prodotti energetici all’ingrosso negoziati in un sistema organizzato di negoziazione che devono essere regolati con consegna fisica; f) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap», contratti a termine («forward») e altri contratti su strumenti derivati connessi a merci che non possono essere eseguiti in modi diversi da quelli indicati alla lett. f), che non hanno scopi commerciali, e aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati; g) strumenti finanziari derivati per il trasferimento del rischio di credito; h) contratti finanziari differenziali; i) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap», contratti a termine sui tassi d’interesse e altri contratti su strumenti derivati connessi a variabili climatiche, tariffe di trasporto, tassi di inflazione o altre statistiche economiche ufficiali, quando l’esecuzione avviene attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti, con esclusione dei casi in cui tale facoltà consegue a inadempimento o ad altro evento che determina la risoluzione del contratto, nonché altri contratti su strumenti derivati connessi a beni, diritti, obblighi, indici e misure, non altrimenti indicati nella presente sezione, aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati, considerando, tra l’altro, se sono negoziati su un mercato regolamentato, un sistema multilaterale di negoziazione o un sistema organizzato di negoziazione; j) quote di emissioni che consistono di qualsiasi unità riconosciuta conforme ai requisiti della direttiva 2003/87/CE (sistema per lo scambio di emissioni).

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precedenti lettere; d) qualsiasi altro titolo che comporta un regolamento in contanti determinato con riferimento ai valori mobiliari indicati nelle precedenti lettere, a valute, a tassi di interesse, a rendimenti, a merci, a indici o misure».

I valori mobiliari sono dunque strumenti finanziari che possono essere negoziati nei mercati regolamentati, la cui caratteristica è l’attitudine alla circolazione.

Per ciò che concerne la natura del prodotto finanziario, la norma offre due elementi di giudizio: il prodotto finanziario è a) «una forma di investimento» b) «di natura finanziaria» da cui si evince che anche gli strumenti finanziari appartengono alla categoria degli investimenti e nello specifico gli investimenti finanziari che quindi hanno necessariamente ed obbligatoriamente ad oggetto il denaro. Poiché il fine di questo paragrafo introduttivo è quello di comprendere la necessità di una specialità di disciplina per le società quotate, il punto di partenza è da identificare nella natura degli strumenti finanziari e quindi degli investimenti stessi: perché lo strumento finanziario incide dunque sull’esistenza di una disciplina speciale?

Una prima ragione è rintracciabile nella difficoltà che si incontra quando si vuole conoscere il contenuto dello strumento finanziario come, ad esempio, il contenuto di un valore mobiliare, la cui emissione, negoziazione e gestione e la conseguente attività degli intermediari sono sottoposte a norme speciali che, talvolta, derogano anche profondamente le norme di diritto comune. Innanzi tutto, lo strumento finanziario nient’altro è che un contratto di scambio in cui l’investitore trasferisce all’emittente (inteso come la società che ha collocato sul mercato lo strumento, per esempio le azioni) una somma di denaro certa ed attuale ed ha ricevuto in cambio un’aspettativa di ottenere una somma di denaro futura, auspicabilmente più alta. Il contratto di investimento si basa quindi su uno scambio di valore certo contro un valore incerto, una somma futura che si realizzerà soltanto a determinate condizioni. È ben chiaro che la realizzazione dell’aspettativa è strettamente dipendente dalla condotta dell’emittente

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che deve comportarsi in modo che l’aspettativa dell’investitore si realizzi. A questo punto vengono alla luce due rischi principali: a) asimmetrie informative: tra l’investitore e l’emittente è possibile che si venga a creare un’incomprensione dovuta alla complessità dell’oggetto del contratto. Gli strumenti finanziari risultano spesso complessi e portano ad una generale incomprensione del loro contenuto da parte del soggetto investitore-risparmiatore tanto che lo stesso sarà portato per natura a fidarsi dell’intermediario. Nasce dunque l’esigenza di assicurare al risparmiatore un più intenso grado di informazione rispetto alle norme di diritto comune. Il rischio di asimmetrie informative produce la necessità di maggiore trasparenza. Un prodotto finanziario ha bisogno quindi di fiducia ma anche e soprattutto di conoscibilità; b) opportunismo dell’emittente: come detto la natura complessa del prodotto scambiato può indurre comportamenti opportunistici nei confronti dei soggetti risparmiatori, “parte debole” del contratto di investimento.

Poiché parliamo di società quotata è opportuno specificare che le azioni emesse vengono quotate nei mercati regolamentati (4). Definito nel t.u.f. all’art. 1, comma 1, lettera w-ter «per mercato

(4) Al fine di comprendere meglio che cosa sia il mercato regolamentato si deve

analizzare la nozione più ampia di mercato finanziario. Bisogna tenere presente che il mercato finanziario è dal punto di vista merceologico il mercato in cui vengono scambiate le attività e passività finanziarie ed è, quindi, dal punto di vista funzionale il mercato in cui il risparmio viene trasferito dai settori in surplus (i settori nei quali viene prodotto, quindi le famiglie) ai settori in deficit nei quali il risparmio viene utilizzato che sono tipicamente Stato e imprese. Il risparmio può essere trasferito tramite il circuito diretto o il circuito indiretto. Il circuito indiretto è caratterizzato dalla presenza di un terzo attore identificato nella figura dell’intermediario che diventa quindi il destinatario del risparmio dei soggetti in surplus. All’interno del circuito indiretto troviamo due ulteriori segmenti che sono il segmento bancario e assicurativo. Nel mercato assicurativo le famiglie trasferiscono risparmio alle imprese assicurative attraverso la stipula di polizze e il pagamento di premi periodici e le imprese assicurative si impegnano a restituire il risparmio attraverso il pagamento di indennizzi al verificarsi di eventi incerti e futuri e le assicurazioni trasferiscono d’altro canto le risorse allo Stato e alle imprese mediante investimenti in attività reali e finanziarie che gli verranno poi restituite (da Stato e imprese) mediante smobilizzo dell’investimento o remunerazione.Nel settore bancario il risparmio viene trasferito mediante deposito: le banche si impegnano da un lato a restituire alle famiglie il risparmio trasferito (a breve termine e maggiorato di interessi passivi) e dall’altro trasferiscono il risparmio alle imprese a titolo di finanziamento che, quindi, le imprese devono restituire. Questo rappresenta il punto cruciale del ragionamento: considerando che il sistema italiano è un sistema prevalentemente bancocentrico, il risparmio viene trasferito dalle famiglie alle banche e dalle banche alle imprese e ciò causa, nell’eventualità tutt’altro che rara di mismatching delle scadenze (obbligazioni assunte a breve termine contro finanziamenti a medio-lungo termine), un possibile collasso dell’intero sistema economico che si regge, prevalentemente, sui finanziamenti bancari. Ecco perché, nel prosieguo, si evidenzierà l’importanza di un mercato mobiliare affidabile, solido e trasparente che generi fiducia negli investitori.

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regolamentato si intende un sistema multilaterale che favorisce l’incontro di strumenti finanziari in modo da dare luogo a contratti, e che è gestito da una società di gestione, è autorizzato e funziona regolarmente». Si tratta, in breve, di un’organizzazione che ha il fine di consentire o facilitare l’incontro di interessi multipli di acquisto e vendita di strumenti finanziari in modo che al suo interno risulti più facile acquistare o vendere gli stessi. Dunque, è di agevole comprensione che il mercato regolamentato crea per sua natura problemi di regolamentazione. L’importante distinzione che deve essere fatta è quindi, all’interno del mercato mobiliare, quella tra mercato non regolamentato e regolamentato. Se nel primo sono vigenti le disposizioni generalmente applicabili alle negoziazioni di strumenti finanziari, nel secondo è necessaria una disciplina speciale. I valori mobiliari appartengono al mercato dei capitali inteso come il mercato nel quale si negoziano strumenti finanziari destinati al finanziamento degli emittenti in particolare delle imprese contrapposto al mercato monetario. Da qui deriva quindi l’esigenza di assicurare al risparmiatore un grado di informazione più approfondito di quello normalmente previsto dalle norme comuni e quest’esigenza acquista ancora più significato se teniamo conto del fatto che, nel mercato mobiliare, gran parte delle negoziazioni sono svolte in modo impersonale e pertanto le disposizioni di diritto comune come buona fede e correttezza non trovano spazio (5). L’intervento pubblico diretto

(5) Le imprese, ed in particolar modo le società quotate, hanno un incentivo ad

informare se vogliono ottenere fiducia da parte degli investitori. A questo proposito, l’interrogativo che ci si pone è se l’informazione da parte delle imprese debba essere volontaria o obbligatoria. In generale, sono stati individuati punti critici riguardanti l’informazione volontaria che presuppone il verificarsi di tre condizioni: gli investitori devono essere a conoscenza del fatto che le imprese abbiano un certo grado di informazione; le imprese non devono poter dare informazioni false; l’informazione non deve avere costi. In presenza di costi, l’informazione sarà prodotta in quantità inferiore a quella socialmente desiderabile. Dunque, il mancato verificarsi di uno dei presupposti porterebbe l’informazione volontaria a non essere ottimale. Diversamente, se fosse obbligatoria l’informazione potrebbe essere più omogenea, agevolando analisti ed investitori nell’esame della stessa. Sul punto cfr. G. FERRARINI, Informazione societaria: quale riforma dopo gli scandali?, in Banca impresa e società, 2004, III, pp. 411 ss.; R.KRAAKMAN, Disclosure and Corporate governance: An Overview Essay, in Reforming Company and Takeover Law in Europe, a cura di G. Ferrarini, K.J. Kopt, J. Winter e E. Wymeersch, 2004, pp. 97 ss.; S.GROSSMAN, The Information Role of Warranties and Private Disclosure About Product Quality, in Journal of Law and Economics, 1981, pp. 461 ss.; L.ZINGALES, The Costs and Benefits of Financial Market Regulation, 2004; H.FLEISCHER,

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a garantire al mercato un grado adeguato di trasparenza trova la propria ragione d’essere nella necessità di assicurare che il mercato mobiliare sia efficiente e che consenta la migliore allocazione delle risorse che in esso affluiscono. È la tutela dell’interesse pubblico che impone al legislatore di affrontare i problemi di asimmetrie informative e di imporre la trasparenza che altrimenti il mercato non garantirebbe.

La trasparenza non è però da sola sufficiente per assicurare un funzionamento efficiente del mercato mobiliare. Per contrastare il rischio di “comportamento scorretto” è necessario anche che vengano imposte a coloro che operano su tale mercato le regole di comportamento indispensabili da un lato per il funzionamento del mercato stesso e dall’altro per attrarre la quantità di risparmio necessaria per garantire l’equilibrio delle imprese. Inoltre, per il mercato mobiliare ma più in generale per l’intero mercato finanziario saranno necessarie norme destinate ad esercitare un controllo sull’ingresso nel mercato di intermediari e a garantire la stabilità degli stessi in quanto non è escluso che funzioni fondamentali come quelle di investitore istituzionale o impresa di investimento vengano esercitate da soggetti che non sono dotati dei requisiti necessari dal punto di vista professionale e patrimoniale.

Si spiega così abbastanza facilmente che l’ordinamento speciale del mercato mobiliare è finalizzato a garantirne trasparenza, correttezza e stabilità ed è per questo che la sua regolamentazione è uno strumento fondamentale per l’esistenza ed il corretto funzionamento dello stesso. A chiusura del cerchio, il fenomeno della quotazione di uno strumento finanziario nei mercati regolamentati produce due tipologie di effetti per gli emittenti: effetti di mercato ed effetti societari. I primi sono, sostanzialmente, due: collegamento con il pubblico degli investitori tramite il mercato regolamentato in quanto un settore in deficit che decide di quotarsi decide di immettersi nel circuito e di

The responsibility of the Management and its Enforcement, in Reforming company and takeover law in Europe, a cura di G. Ferrarini, K.J. Hopt, J. Winter e E. Wymeersch, pp. 373 ss. e, su posizioni differenti, R.ROMANO, Empowering investors: A Market Approach to Securities Regulation, in Yale Law Journal, 1998, pp. 2359 ss.

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aprirsi ai settori in surplus, e modifica della modalità di circolazione dei diritti proprietari sugli strumenti finanziari in quanto, nel momento in cui l’emittente si apre al mercato si verifica una modifica delle modalità con cui si trasferisce la proprietà degli strumenti stessi. Gli effetti di mercato portano ancora una volta all’esigenza di maggior efficienza e competitività poiché in questo caso il problema che si pone è quello di garantire che la circolazione dei diritti proprietari avvenga in modo che la relativa titolarità sia trasferita al soggetto in grado di esercitarli nel migliore dei modi. Per perseguire queste esigenze è necessario un

corpus normativo speciale che agevoli la contendibilità dei diritti

proprietari ed in particolare del controllo societario. Gli effetti societari coinvolgono la compagine sociale, la governance e come questa si modifica in seguito all’apertura al mercato. Anche in questo caso sono due: diffusione dell’azionariato e assenteismo dei soci in assemblea, in quanto l’apertura verso il pubblico degli investitori provoca all’interno della compagine sociale l’ingresso di un numero potenzialmente infinito di azionisti e di conseguenza è probabile che si verifichi apatia dei soci minoritari. L’altro effetto, ben più rilevante al fine di questo lavoro, è la contrapposizione tra i soci imprenditori e i soci risparmiatori: i primi acquistano soltanto al fine di ottenere un rendimento e sono, probabilmente, disinteressati alla gestione. Il vuoto nella gestione della società lasciato dai soci risparmiatori rischia di essere colmato dagli azionisti di comando, quelli che cioè detengono un numero di azioni sufficiente per poter governare, di fatto, l’impresa creando una contrapposizione di interessi. A tal riguardo, il problema che si pone è, ancora, un problema di tutela degli azionisti di minoranza e per questo sorge la necessità di creare norme speciali di governance che disciplinino l’esercizio dei diritti proprietari e tengano conto della contrapposizione tra i soci risparmiatori, del rischio di abusi, dell’assenteismo e dell’apatia (6).

(6) Come si è visto l’interesse alla partecipazione azionaria di questo tipo di soggetti,

azionisti che non partecipano all’attività dell’impresa, si esaurisce nel valore dell’investimento e quindi nel valore di mercato della partecipazione stessa. Ciò porta ad avere da un lato specifici

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Per concludere, oggetto della quotazione sono strumenti finanziari che vengono immessi nei mercati regolamentati, prodotti che si prestano per loro natura ad opacità e scorrettezze (7). Ne conseguono esigenze di trasparenza e correttezza in quanto dal lato societario e dal lato del mercato è necessaria una percezione di gestione efficiente per far sì che la credibilità dell’emittente aumenti in modo che si generi fiducia nei risparmiatori che, conseguentemente, affideranno i propri risparmi al circuito mobiliare piuttosto che ai circuiti bancari e assicurativi.

Ci si trova di fronte ad una situazione in cui l’interesse che deve essere tutelato è un interesse generale. L’informazione e la trasparenza diventano quindi interessi pubblici che devono essere perseguiti attraverso l’imposizione di particolari doveri e la predisposizione di strutture necessarie alla loro attuazione. A fronte quindi di un interesse generale, l’ordinamento giuridico persegue un obiettivo di policy che è quello della tutela del risparmiatore, un soggetto che compra lo strumento finanziario e sperando di ottenerne un beneficio in futuro. Infine, la quotazione di strumenti finanziari in mercati regolamentati giustifica l’esistenza di una disciplina speciale perché genera non solo l’esigenza di tutela di interessi privati ordinari tipici di ogni società (8)

ma anche interessi speciali e pubblici che hanno necessità di essere tutelati (9) appunto per la loro specialità sia quantitativa che qualitativa che giustifica l’esistenza di una disciplina dedicata alle società quotate che deroga, talvolta anche in maniera piuttosto ampia, alle comuni norme di diritto civile.

obblighi di trasparenza per gli emittenti, dall’altro l’interesse individuale dell’investitore alla corretta formazione del prezzo e al mantenimento delle condizioni alle quali l’investimento è avvenuto, al fine di evitare un pregiudizio alla redditività e al valore della partecipazione sociale. Cfr. A.CHILOIRO, L’informazione societaria e le varietà di tipologie di azionisti, in Analisi giuridica dell’economia, 2013, pp. 181 ss. e C.ANGELICI, Su mercato finanziario, amministratori e responsabilità, in Rivista del diritto commerciale, 2010, pp. 1 ss. e G.F. CAMPOBASSO, L’informazione societaria e gli azionisti, in AA.VV., L’informazione societaria – atti del convegno internazionale di studi, 1981, Venezia.

(7) M.ONADO, Smoke gets in your eyes. L’innovazione finanziaria e l’informazione:

storie di fallimenti del mercato e dei regolatori, in Analisi giuridica dell’economia, p. 35 ss. (8) Per ricordarne alcuni, si considerano gli interessi degli azionisti, dei creditori, dei

terzi che intrattengono rapporti con la società.

(9) In questo particolare tipo di interessi sono compresi, ad esempio, trasparenza,

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1.2. Definizioni di corporate governance.

Negli ultimi anni si è assistito ad un interesse totalmente nuovo e vivo per la corporate governance delle società quotate, intesa in senso letterale come governo dell’impresa societaria. Le ragioni di tale attenzione sono profondamente connesse alla cronaca finanziaria dell’ultimo decennio che ha visto da un lato lo sviluppo dei mercati finanziari, la loro internazionalizzazione e, nel contesto italiano, il fenomeno della privatizzazione e dall’altro il susseguirsi di scandali finanziari dagli Stati Uniti ai più recenti casi anche italiani hanno portato ad una progressiva sfiducia da parte degli investitori nei mercati che hanno perso valore in termini di affidabilità e trasparenza. Questa serie di eventi ha portato progressivamente ad uno spiccato interesse per la struttura di esercizio dell’impresa con particolare riferimento alla domanda di corretta, efficace ed efficiente governance per le società quotate, specialmente per quelle fortemente capitalizzate in borsa. Da questo tumulto generale sono scaturiti inoltre dibatti che hanno coinvolto non solo il legislatore ma istituzioni, organismi nazionali ed internazionali finalizzati a promuovere condizioni di trasparenza ed efficacia nell’azione di governo delle imprese (10).

All’espressione corporate governance vengono generalmente attribuiti almeno due significati: un primo e più ristretto pone la

corporate governance come l’insieme delle regole relative alla

direzione della società azionaria, ponendo particolare attenzione ai

(10) Per quanto riguarda gli interventi legislativi: Sarbanes-Oxley Act del 30 luglio

2002 e Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act del 21 luglio 2010 negli Stati Uniti, la legge 28 dicembre 2005 in Italia, concernente la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari. Inoltre: OCSE (2004) «il governo societario definisce la struttura attraverso cui vengono fissati gli obiettivi della società, vengono determinati i mezzi per raggiungere tali obiettivi e vengono controllati i risultati. Un buon governo societario dovrebbe assicurare al consiglio di amministrazione e ai dirigenti incentivi adeguati alla realizzazione di obiettivi in linea con gli interessi della società e i suoi azionisti e dovrebbe facilitare un efficace controllo.» La Commissione Europea (2010) nel Libro Verde in materia di corporate governance «Il governo societario fa riferimento ai rapporti fra la direzione di un’impresa, il suo consiglio di amministrazione, i suoi azionisti e le altre parti in causa, come i dipendenti e i loro rappresentanti. Esso inoltre determina la struttura che definisce gli obiettivi di un’impresa, come pure i mezzi per raggiungerli e garantire il controllo dei risultati ottenuti».

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rapporti tra amministrazione e controlli. Un secondo e più vasto significato intende la corporate governance come l’insieme delle regole dirette ad allocare con efficienza il controllo delle imprese e a garantire la protezione degli investitori e più in generale degli stakeholder, assicurare una gestione trasparente, corretta ed efficace dell’impresa azionaria. Sebbene il dibattito internazionale sulla corporate

governance si sia concentrato, influenzato dalla letteratura

nord-americana, sul rapporto tra managers e shareholders e sulla risoluzione dei problemi di agency, merita comunque una menzione, se pure meno funzionale ai temi di cui in seguito, la concezione allargata di corporate

governance. In quest’ottica vengono identificati gli stakeholder (11)

come i soggetti in grado di influenzare il governo economico dell’impresa. Inoltre, questa concezione considera gli elementi esterni e gli organi societari come fattori coinvolti nel processo di governo economico, poiché sono in grado di condizionare e/o vincolare le

(11) L’origine della teoria degli stakeholder è individuata a partire dal contributo di

Freeman, il quale definisce “stakeholder” un qualsiasi gruppo o individuo che può avere un interesse in una determinata impresa. Già nella prima metà del secolo scorso, con la nascita della teoria della creazione di valore per gli azionisti, alcuni studiosi avevano contestato la concezione dominante secondo cui l’unico interesse meritevole di tutela, e verso cui doveva tendere l’operato dei manager, era quello degli azionisti. Tale concetto è stato successivamente approfondito fino a fondare un’etica normativa dove l’interesse degli stakeholders è il fine dell’attività d’impresa, e dove i comportamenti legati ad una visione della responsabilità sociale d’impresa non si limitano al mero perseguimento del profitto, ma sono considerati una fonte di vantaggio competitivo. Il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa, infatti, nasce proprio dal confronto sull’identificazione del ruolo dell’impresa stessa. La teoria neoclassica identificava il ruolo dell’impresa nel perseguimento del profitto, ma dagli anni ’80 si è sviluppata l’idea che l’impresa abbia “doveri” nei confronti di una pluralità di soggetti, non riconducibili solamente agli azionisti. La stakeholder theory dunque considera un più ampio numero di soggetti in relazione con l’impresa, non focalizzandosi sui soli azionisti. Quando si tiene conto di un più ampio numero di stakeholders, la massimizzazione dell’utilità degli azionisti diventa una conseguenza della massimizzazione del valore dell’impresa per tutti gli stakeholders. Una delle motivazioni assunte da coloro che sostengono la predominanza degli azionisti rispetto agli altri stakeholders è quella che i primi sono i percettori dei flussi di reddito residuali, poiché l’eventuale profitto d’impresa rappresenta la grandezza che residua dopo il pagamento di tutti gli altri stakeholders. Ciò significa che gli azionisti stessi saranno interessati a che le risorse dell’impresa siano utilizzate per assicurare all’impresa nel suo complesso il più alto rendimento. Pur considerando l’impresa come un insieme di relazioni contrattuali la stakeholder theory sostiene che l’impresa debba coniugare la creazione di valore economico per gli azionisti con l’assunzione di una maggiore responsabilità sociale verso tutti i portatori di interessi. La tendenza per l’una o l’altra impostazione può favorire l’adozione di diverse strutture di corporate governance ed in particolare dei meccanismi di controllo. Ad esempio, il modello d’impresa anglo-americano enfatizza la predominanza degli azionisti, i quali sono i soli che hanno il diritto di eleggere il management. Nel modello d’impresa tedesco, invece, alcuni gruppi di stakeholder, come ad esempio i dipendenti, hanno il diritto di eleggere i propri rappresentanti nel consiglio di sorveglianza. La preferenza per un approccio piuttosto che l’altro deve essere perciò letta congiuntamente al sistema legale ed allo sviluppo del mercato dei capitali di ciascun Paese, così come il modello di assetto proprietario predominante.

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decisioni dell’organo direttivo. In questo contesto quindi, la corporate

governance tende ad evolvere da una sostanzialmente attenzione agli shareholder verso una valorizzazione di tutti gli stakeholder e delle

responsabilità amministrative, economiche, sociali dell’impresa. Da questa prospettiva si possono trarre alcune conclusioni, brevemente riassunte: l’azienda non è volta a perseguire solo la creazione di valore per l’azionista; le società con azionariato diffuso non sono una regola, bensì un’eccezione; vi è la necessità di un più incisivo sistema di controllo.

È evidente che risulta impossibile definire in modo univoco la

corporate governance in quanto le variabili che incidono sulla possibile

definizione sono numerose. Ad ogni modo in questo contesto, si intende

corporate governance l’insieme di valori, regole, procedure e prassi

operative che formano «il tessuto connettivo della struttura organizzativa societaria», al fine di consentire ed assicurare: una sana e corretta gestione dell’impresa, pertanto, è necessario un sistema di monitoraggio e gestione dei rischi connessi alle attività proprie dell’impresa efficiente (c.d. sistema di controllo interno); la trasparenza delle scelte gestionali, sia per quanto riguarda l’interno della società che verso il mercato (transparency); una chiara individuazione delle sfere di potere, delle responsabilità degli organi sociali, del management e di ogni soggetto operante nell’organizzazione, nonché un adeguato bilanciamento dei diversi poteri (checks and balances)(12).

Non esiste un modello di corporate governance adatto a tutte le società in termini di correttezza, trasparenza ed efficacia. Ogni società dovrà elaborare il proprio tenendo conto delle sue caratteristiche come ad esempio il contesto economico in cui si opera, le esigenze organizzative e il tipo di compagine sociale. È pertanto chiaro che l’assetto di corporate governance non è mai definitivo: una buona

corporate governance è un continuo processo in fieri da un lato perché

(12) Cfr. F.CHIAPPETTA, Diritto del governo societario, 2017, Milanofiori Assago, p.

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la realtà sottostante muta continuamente, dall’altro perché è possibile individuare sempre margini di miglioramento. Un buon governo societario è diventato col tempo, per il mercato degli investitori, rappresentativo di qualità dell’amministrazione. Essa infatti non è garanzia di un risultato economico e finanziario positivo dell’impresa o dei titoli sul mercato, ma è chiaro che può influire sullo stesso, costituendo un presupposto per la efficiente ed efficace gestione dell’impresa.

Si è già detto che temi e problematiche di corporate governance variano a seconda del contesto di riferimento in cui la società si trova a operare: i problemi di governance sono fortemente influenzati dalle caratteristiche del sistema economico e giuridico e, più in generale, del sistema dei valori – etici, culturali, sociali- presente in un dato paese in un determinato momento storico. È opportuno esaminare alcuni di questi elementi per comprendere l’esistenza di un nesso causale o, più frequentemente, complementare dei sistemi di governance con tali fattori. Le determinanti dunque, volendo tentare di fare un riassunto, possono essere identificate nei seguenti elementi che, brevemente, si analizzeranno: a) modelli di capitalismo; b) sistema degli assetti proprietari; c) i caratteri della società per azioni.

a) Come già detto precedentemente e come verrà approfondito in seguito, è quantomeno necessario considerare il modello di capitalismo che tende a incidere sulla natura e sui contenuti dei sistemi di governance e, ancor più, sull’approccio stesso alla corporate

governance. Sintetizzando e semplificando temi ben più ampi e

complessi, è possibile ricondurre i modelli di capitalismo a due principali tipologie: quella anglo-americana e quella renano-nipponica. Il modello anglo-americano ha i caratteri tipici di un c.d. outsider

system ossia una presenza di grandi imprese a proprietà frazionata, un

mercato per il controllo delle imprese fondato su borse di notevoli dimensioni, la forte presenza di intermediari finanziari. In detti sistemi il finanziamento delle imprese è ampiamente rappresentato dal mercato borsistico e pertanto si richiede alla corporate governance di tenere

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conto dei possibili rischi che sono connessi alla frammentazione della proprietà azionaria e all’affidamento della ricchezza investita ad amministratori che detengono il controllo della società, problema che può dirsi tipico della c.d. separazione tra proprietà e controllo, di cui si tratterà nel paragrafo seguente (13). Il modello anglosassone si configura dunque come un modello market oriented. Il modello renano-nipponico rappresenta un modello di capitalismo che può definirsi opposto rispetto a quello sopradescritto, fornendo un tipico esempio di c.d.

insider system caratterizzato dalla concentrazione di pochi azionisti

predominanti ed una ridotta dimensione dei mercati finanziari, un sistema di finanziamento orientato al ricorso al capitale di debito e ad una marcata partecipazione delle banche al capitale di rischio. Le risorse finanziarie quindi derivano principalmente dagli azionisti stessi o dal capitale di debito prevalentemente bancario, la compagine sociale è composta da azionisti stabili, di riferimento spesso da identificare anche nelle banche o assicurazioni dei quali il management è espressione. È ovvio che, in un contesto simile, la corporate

governance dovrà tenere conto di altri aspetti, riconducibili

essenzialmente alla concentrazione della proprietaria azionaria e all’esistenza di un conflitto potenziale tra azionisti di controllo e di minoranza.

b) Sistema degli assetti proprietari: come per la definizione dei sistemi di capitalismo, anche in questo caso esistono due tipi di sistemi di assetti proprietari, intesi come la misura e le modalità in cui si realizza il fenomeno di separazione tra proprietà e controllo della società che è presente in ogni tematica di corporate governance. I problemi relativi alla struttura organizzativa della società per azioni assumono diverse configurazioni a seconda dell’assetto proprietario della società. A tal proposito si ricorda l’esistenza di sistemi ad azionariato diffuso (public companies), nei quali la separazione tra chi

(13) In questo contesto, «proprietà» è da intendersi come titolarità del capitale

azionario, «controllo» come gestione dell’impresa. Questi i significati che vengono attribuiti dalla letteratura economica anglosassone, il cui punto di partenza può essere individuato nel lavoro di A.A. BERLE e G.C.MEANS, The Modern Corporation and Private Property, 1932, New York.

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detiene capitale azionario della società e chi gestisce l’impresa (di solito

managers professionisti che non detengono alcuna quota di capitale o

detengono quote minime) è netta, e sistemi ad azionariato concentrato in cui detta separazione risulta meno definita in quanto esistono azionisti che detengono quote rilevanti di capitale sociale (che sono appunto dette «di controllo») e pertanto, si trovano nella condizione di poter incidere sulla nomina dei managers e tramite gli stessi sulle scelte strategiche adottate dalla società. Ciascun sistema ha caratteristiche e costi propri che si sostanziano in quanto segue: nei sistemi di public

companies la conseguenza sarà una quasi totale autonomia dei managers con il rischio connesso che gli stessi massimizzeranno la loro

utilità perseguendo interessi propri e che renderà necessari meccanismi adatti per controllare ed incentivare i managers nel perseguire la massimizzazione degli azionisti. In questo tipo di sistema si ritiene che possano operare un mercato del lavoro manageriale efficiente e il rischio per il manager di essere sostituito in seguito a takeover ostili (market for corporate control). I sistemi con un’alta concentrazione dell’azionariato permettono, al contrario, di allineare gli incentivi tra chi gestisce l’impresa e chi la finanzia poiché spesso le due categorie di soggetti quasi coincidono, ma rendono di fatto quasi impossibili le operazioni di takeover ostili, rendendo blanda la tutela offerta dal

market for corporate control (che dovrebbe “affidare” il controllo

all’imprenditore più capace come accennato nel paragrafo 1).

c) I caratteri della società per azioni: parlando di corporate

governance e di società quotate, non è possibile non considerare nelle

determinanti della stessa i caratteri della società per azioni, che per sua natura si presta all’apertura e al ricorso al mercato del capitale di rischio. Infatti, caratteristiche peculiari della S.p.A. sono individuabili in una responsabilità dei soci limitata al conferimento in denaro effettuato, nell’organizzazione interna, che si articola in organi sociali dei quali la legge e lo statuto (in certi casi) definiscono competenze e responsabilità e nel fatto che le quote siano rappresentate da azioni, che grazie alla loro capacità di circolazione permettono il cambio della

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titolarità delle stesse senza che ne risulti intaccato il patrimonio della società. Questo porta ad una separazione tra il finanziamento dell’impresa sociale e la sua gestione in quanto, appunto, gli azionisti possono cambiare e la guida della società è affidata a soggetti che svolgono tale compito professionalmente, ossia gli amministratori che possono anche non essere azionisti. È facile comprendere dunque che la società per azioni rappresenti il paradigma della società aperta o pronta ad aprirsi al mercato.

L’apertura al mercato è un avvenimento che segna la realtà delle società per azioni e porta con sé fenomeni di cui non sempre il legislatore riesce a tenere conto tempestivamente ed efficacemente. In seguito all’apertura al mercato infatti, si verificano fenomeni che mutano profondamente la compagine sociale con tutto ciò che ne consegue come l’assenteismo assembleare, la contrapposizione di almeno due categorie di soci (azionisti imprenditori e azionisti risparmiatori), il dominio sociale nelle mani di gruppi minoritari di controllo. Nel tempo si è assistito ad una crisi delle società quotate che ha impedito la creazione delle condizioni finalizzate a raggiungere gli obiettivi di efficienza, efficacia e affidabilità della gestione, già ampiamente esaminati e fondamentali alla creazione di valore per il mercato finanziario. Quanto detto, unitamente alla trasversale problematica di separazione tra proprietà e controllo, lascia agevolmente comprendere l’importanza di una buona corporate

governance.

1.3. Separazione tra proprietà e controllo.

Il dibattito sul governo societario (14) si accende, come già detto, in seguito alla nascita della public company di stampo anglosassone. In

(14) In letteratura si è diffusa l’idea che la corporate governance abbia l’arduo

compito di trovare un efficiente contemperamento tra i diversi interessi che fanno capo alla società e alle sue diverse componenti, in particolare relativi ai conflitti di interessi tra i vari attori coinvolti. Come si approfondirà in seguito, i conflitti di interessi e relativi costi sono stati suddivisi in diverse categorie, anche in relazione al tipo di sistema di assetti proprietari

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particolare, si inizia a prestare attenzione ai temi di governance con particolare riferimento alla separazione tra proprietà e controllo che ha portato la disciplina della corporate governance allo stato attuale. Prima della nascita del modello di società di capitali, intorno al XIX secolo, negli Stati Uniti, l’attività aziendale era svolta con l’utilizzo di forme giuridiche che non prevedevano responsabilità limitata per le obbligazioni della società. Questo causava un allontanamento dei potenziali portatori di capitale di rischio verso la partecipazione in aziende, dove il ruolo di amministratore, imprenditore e proprietario si concentravano in un solo soggetto.

Con l’avvento della forma giuridica della società di capitali, intorno alla seconda metà dello stesso secolo, nasce la possibilità di creare enti dotati di personalità giuridica, questo diede vita alle prime società di capitali, cambiando profondamente la situazione del mercato. Inizia la diffusione di tali entità in grado di possedere la titolarità di diritti e di responsabilità che fino a quel momento erano state riservate alle persone fisiche. Tratto quindi peculiare delle nascenti società di capitali è la separazione tra il personale patrimonio dei soci e il patrimonio conferito nella società: in caso di insolvenza quindi i creditori sociali possono far valere i propri diritti solo sul capitale conferito e questo rende dunque le società più appetibili per gli investitori e favorisce una maggiore reperibilità di risorse finanziarie, questione che aveva fino ad allora fortemente intralciato la crescita e lo sviluppo aziendale. Se con la nascita della società di capitali il fenomeno della separazione tra proprietà e controllo è solo agli albori, è con la quotazione che esso trova la sua più ampia diffusione, come

coinvolto. La prima categoria riguarda i conflitti di interessi che possono configurarsi tra i “proprietari” della società e i suoi managers, strettamente legata al tema della separazione tra proprietà e controllo. La seconda concerne i conflitti di interesse tra azionisti di maggioranza e di minoranza, tipica dei sistemi c.d. insider system. La terza ed ultima categoria è relativa ai conflitti di interessi tra l’impresa sociale e le altre possibili parti con cui questa entra in contatto ( ad esempio dipendenti, fornitori, creditori), inserendosi nel più ampio filone della corporate social responsibility. È ben evidente che, anche se il dibattito sulla corporate governance nasce introno agli anni ’80 del secolo scorso, i temi che vengono trattati possono essere ritenuti temi “classici” dell’interesse sociale e della relazione tra potere e responsabilità, evidenziando il fatto che il dibattito nasce molto prima, anche se i temi trattati sono sempre attuali. Sul punto cfr. M. STELLA RICHTER JR, Considerazioni preliminari in tema di corporate governance e risparmio gestito, in La corporate governance e il risparmio gestito, Quaderno della Assogestioni, 2006, pp.7 ss.

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più generale conseguenza dell’aprirsi delle società al mercato dei capitali. L’apertura della società al mercato aumenta inevitabilmente il numero di fornitori di capitale di rischio, la proprietà azionaria non risulta più concentrata nelle mani di pochi ma risiede in una più vasta platea di azionisti e ciò porta ad avere la massima separazione tra il soggetto che si occupa di gestire l’impresa e il soggetto che fornisce le risorse che vengono, a loro volta, gestite da soggetti che spesso non ne sono proprietari. Il concetto di public company rappresenta la società con azionariato diffuso per eccellenza in cui, per l’appunto, si nota la più bassa identificazione tra azionista e impresa. In questo contesto, il tema di separazione tra proprietà e controllo inizia ad essere rilevante sino a diventare centrale nello studio finalizzato a produrre conoscenza su questo nuovo modo di concepire il governo d’impresa.

L’origine di questo filone di letteratura dedicato alla conoscenza dei nuovi assetti della proprietà può essere individuata nello studio condotto da Adolf Berle e Gardinier Means “The modern corporation

and the private property” (15) che rileva come, nelle principali

(15) L’indagine condotta da BERLE eMEANS dimostra statisticamente la dispersione

della compagine azionaria e individua il modello della public company come nuovo modello di assetto proprietario all’interno del mercato azionario. La ricerca compie un’indagine sul grado di dispersione della proprietà azionaria per 104 società statunitensi quotate in borsa, dimostrando come di queste 71 possedevano più di 20.000 azionisti, a riprova del fatto che il modello di public company risultava ampiamente diffuso negli Stati Uniti. Le implicazioni derivanti dalla separazione tra proprietà e controllo non sono di poco conto: un soggetto che gestisce le risorse finanziarie altrui potrebbe utilizzare tali risorse in modo improprio, differente dallo scopo aziendale. La situazione analizzata, caratterizzata da una forte separazione tra chi possiede e chi governa l’impresa, si inserisce in un contesto più ampio che studia l’assetto istituzionale volto ad individuare tutti i soggetti che interagiscono con l’impresa, i loro fini, i loro interessi, chi ha il diritto e il dovere di governare l’impresa stessa. Lo studio della configurazione dell’assetto istituzionale e delle sue variabili diventa quindi fondamentale per garantire il corretto funzionamento dell’impresa e soprattutto il continuo flusso di capitali dai risparmiatori al mercato finanziario e alle imprese. La corporate governance diventa quindi lo strumento che garantisce l’adeguata remunerazione agli investitori e la valorizzazione del capitale investito, vista la prevalenza di imprese a proprietà diffusa in cui a guidare l’azienda è la figura del manager. In relazione al sistema economico-finanziario di riferimento, cambia la struttura proprietaria e di finanziamento dell’impresa: il capitalismo di stampo anglosassone si nota un azionariato diffuso ed una conseguente importanza del mercato finanziario; nel modello renano nipponico, come si è detto in precedenza, il ruolo determinante è tradizionalmente svolto da un sistema legato a banche, imprese e manager. Si nota, come già specificato in precedenza, che il caso italiano è singolare: le imprese sono in prevalenza di piccole dimensioni ed il controllo è a base familiare, non esiste un mercato borsistico particolarmente evoluto e il controllo azionario, concentrato nelle mani di poche famiglie, è accompagnato da un controllo diretto sui manager. Il rapporto tra proprietà e gestione dell’impresa, con il conseguente conflitto di interessi che ne potrebbe conseguire tra manager e proprietari viene affrontato in modo diverso, il sistema giuridico può spostarsi a favorire e tutelare maggiormente investitori o creditori, in relazione al livello di protezione legale di chi opera nell’impresa cambia l’approccio di analisi riguardante la governance. Si ribadisce che anche il contesto sociale e le politiche di governo si riflettono sull’impresa e sul suo sistema organizzativo.

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corporation statunitensi il maggiore degli azionisti possedeva l’1%

delle azioni emesse e i primi venti azionisti, considerati insieme, non più del 5,1%. I restanti azionisti possedevano quote sensibilmente inferiori, ciò dimostra l’elevata dispersione azionaria e individua il modello di public company all’interno del mercato azionario come un nuovo modello di assetto proprietario ampiamente diffuso e non solo come tratto peculiare delle società quotate in borsa.

Le tematiche che saranno poi cruciali per gli studi di corporate

governance, nate all’inizio del XX secolo vanno sempre più a

consolidarsi. Negli anni 60’ infatti, il dibattito sul governo societario prende di nuovo campo a causa di importanti modifiche avvenute nel mercato statunitense e, successivamente, europeo. Negli Stati Uniti infatti si assiste al fallimento di grandi società quotate di tale portata da destabilizzare il mercato intero. In particolare, è il funzionamento del consiglio di amministrazione ad essere al centro dell’attenzione, poiché viene dimostrato come la selezione dei consiglieri di amministrazione viene effettuata con criteri non pienamente razionali, spesso più per autoreferenzialità che non come incarico di cui assumere pieno dovere e responsabilità. Si insinua quindi negli investitori un sentimento di malcontento verso i consiglieri di amministrazione e il pensiero che gli stessi dovrebbero essere maggiormente responsabilizzati.

La nascita del fenomeno della quotazione, la possibilità che le risorse apportate dagli investitori (che quindi ne sopportano il rischio) siano gestite da soggetti diversi e vengano utilizzate in modo improprio, finalizzato al perseguimento di un interesse personale, la conseguente e progressiva sfiducia negli amministratori da parte degli investitori hanno creato le premesse per lo studio di possibili soluzioni per monitorare e correggere i rischi legati alla separazione tra proprietà e controllo. Il modello della public company massimizza tali rischi e per questo è stato centrale nello sviluppo di diverse teorie volte alla risoluzione dei problemi connessi. Tra tutte merita sicuramente un approfondimento la teoria dell’agenzia, che ben identifica nella maggior parte dei casi problemi di diritto societario.

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1.4. Agency theory e costi d’agenzia.

Il tentativo di arginare le debolezze che possono manifestarsi in un sistema di corporate governance in cui si intrecciano interessi diversi e confliggenti tra azionisti e manager ha portato alla nascita e allo sviluppo di teorie per il governo dell’impresa. Nel contesto descritto, in cui si assiste alla separazione tra proprietà e controllo, si supera la logica classica dell’imprenditore, proprietario e gestore (16). Il

manager delle nuove grandi società assume il ruolo di guida

dell’impresa pur non essendone il proprietario e questo porta ad un progressivo e generale malcontento degli investitori nei confronti degli amministratori. La nascita del ruolo del manager porta con sé il problema descritto nella teoria dell’agenzia (17).

Il problema dell’agenzia, e quindi di corporate governance, sorge proprio per il fatto che il principale (azionista) non riesce a controllare compiutamente l’agente (manager), né si riesce a prevedere un contratto “perfetto”, che disciplini tutte le possibili circostanze che possono verificarsi nella gestione di un’impresa.

In tema di contratti viene ripreso da Micheal Jensen e William H. Meckling lo studio di Ronald Coase riguardante la visione

(16) Il modello di impresa caratterizzato dalla separazione tra proprietà e controllo

risulta quindi altrettanto valido rispetto al modello tradizionale che identifica azionista e manager nella stessa persona. Inoltre, in presenza di assetti proprietari diffusi tra un ampio numero di investitori, l’operato dei manager risulta sottoposto al controllo del mercato secondo la teoria del market for corporate control. Tale teoria prevede che il mercato funzioni come un meccanismo di tutela degli interessi degli azionisti poiché tende ad allocare il controllo dell’impresa ai soggetti che attribuiscono maggior valore alla stessa. Come si è già detto precedentemente, questo meccanismo è reso più efficiente in relazione a determinate condizioni del mercato finanziario e della sua efficienza. Più il mercato risulta efficiente, più il prezzo delle azioni di un’azienda rifletterà le scelte gestionali dell’impresa. Questo dovrebbe consentire a scelte efficienti di ricadere sul prezzo delle azioni, alzandone il valore e rendendo quindi la società meno appetibile ad eventuali scalate ostili. Non essendo questa la sede adatta a trattare questo tema adeguatamente per approfondimenti si veda A.BENOCCI, La regolamentazione del mercato del controllo societario tra ragioni di efficienza ed esigenze di garanzia, in Diritto della Banca e del mercato finanziario, 2018, pp. 1 ss.

(17) In relazione alla struttura proprietaria dell’impresa, oltre alla teoria dell’agenzia,

la letteratura sulla corporate governance è solita individuare altri due principali filoni di analisi riconducibili alla Stewardship theory (L.DONALDSON e J.H. DAVIS, Stewardship theory or agency theory: CEO governance and shareholder returns, 1991) e alla Stakeholder theory (R. E. FREEMAN e D. REED, Stockholders and stakeholders: A New Perspective on Corporate Governance, in California Management Review, 1993).

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contrattualistica dell’impresa, che viene definita dai due autori come un «agglomerato di finzioni giuridiche che fungono da nesso per un insieme di relazioni tra individui, in cui i contratti di lavoro, oltre che a soddisfare gli interessi individuali degli agenti aiutano anche a massimizzare il valore dell’impresa». Lo studio di Coase pone particolare attenzione sui cd. property rights (diritti di proprietà) che costituiscono la base del sistema impresa, all’interno del quale, attraverso i contratti che regolano il comportamento dei soggetti che compongono l’organizzazione, si ritiene che siano gli azionisti ad imporre il comportamento dei manager in ogni circostanza. Questa visione risulta nella realtà dei fatti irraggiungibile (18). Non è possibile

infatti ipotizzare un sistema di contratti tale da definire e regolare ogni singola situazione e questo lascia spazio alle decisioni dei manager che, in un contesto come quello descritto, hanno la libertà di prendere decisioni che non risultano espressamente definite dai contratti. Questa situazione viene definita come «incompletezza contrattuale» e identifica le decisioni che i manager assumono autonomamente per colmare il gap tra quanto stabilito nel contratto la situazione reale.

È evidente che la discrezionalità lasciata ai manager nell’assumere decisioni per l’impresa comporta una serie di rischi che sono coerenti con il problema tipico delle società con azionariato diffuso (quindi una netta separazione tra proprietà e controllo) e pertanto, si palesa l’esigenza di introdurre sistemi di monitoraggio e incentivazione del management. Su tali presupposti si sviluppa la teoria dell’agenzia, indicata da molti come la più adatta per studiare quella che è la problematica di corporate governance per eccellenza.

(18) Come sottolineato da S.GROSSMAN e O.HART, The costs and the Benefits of

Ownership; A theory of vertical and lateral integration, in Journal of Political Economy, 1986, pp. 691 ss., i contratti risulteranno sempre incompleti a causa dei limiti della razionalità umana, l’imprevedibilità, la complessità e i continui cambiamenti dell’ambiente in cui la stessa impresa opera. I contratti quindi non possono essere ritenuti gli unici strumenti in grado di consentire all’azionista di controllare l’operato del manager al fine di allineare il perseguimento degli obiettivi.

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L’importante contributo di Adolf Berle e Gardinier Means (19), viene ripreso e sviluppato da Micheal Jensen e Eugene Fama (20) che ritengono che la struttura dell’assetto proprietario della società implichi divergenze dovute all’esistenza di interessi differenti tra azionisti e direzione. Il motivo di questi conflitti sarebbe il diverso interesse che muove le due categorie di soggetti: l’azionista è mosso dall’interesse della massimizzazione del profitto e della crescita del valore dell’impresa, mentre il manager è spinto dall’interesse di un potere personale espresso ad esempio in termini di dimensioni dell’impresa e di maggior retribuzione. L’opera di Berle e Means evidenzia come l’impresa moderna sia caratterizzata da una forte dispersione dell’azionariato, tanto da portare la direzione aziendale ad avere nelle proprie mani un grande potere gestionale, concentrandosi dunque sulla separazione dei poteri di azionisti e manager, e il lavoro di Fama e Jensen permette di analizzare, oltre al problema dovuto alla separazione tra la proprietà e il controllo, il problema della sopportazione del rischio. I soggetti che sono parte dell’organizzazione societaria e che in essa agiscono sono qualificati come residual claimants ossia come portatori del rischio residuo. Su questi soggetti grava il rischio connesso all’investimento.

Gli autori evidenziano come la separazione tra proprietà e controllo comporti una separazione tra rischio e direzione. Il rischio resta strettamente connesso alla proprietà e ciò implica che i riflessi delle scelte del management ricadano sul patrimonio di chi la detiene (ossia gli azionisti) e non sul personale patrimonio dei manager.

Il problema dell’agenzia è quindi chiaramente un problema di

corporate governance e sorge poiché all’interno dell’organizzazione

della società sono presenti due tipi di soggetti: un primo detto principale (principal), rappresentato dall’azionista, e un secondo detto agente (agent) rappresentato dal manager. Il principale delega l’attività all’agente il quale può decidere le modalità con cui questa deve essere

(19) Cfr. A. BERLE e G. MEANS, The modern corporation and private property, 1937.

(20) Cfr. E. F. FAMA e M.C. JENSEN, Separation of Ownership and Control, in Journal

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svolta. È tanto evidente quanto scontato che gli interessi di questi due tipi di soggetti non sono (quasi) mai allineati e che entrambi cercheranno di massimizzare la propria utilità. Inoltre, è ben chiaro che l’azionista non riesce completamente a controllare l’operato del manager e neppure riesce a prevedere un contratto che disciplini tutte le possibili circostanze che possono verificarsi nella gestione dell’impresa (21). Non è quindi possibile utilizzare unicamente il

contratto come strumento di controllo dei manager. Oltre all’incompletezza contrattuale di cui si è parlato, i problemi di controllo derivano anche dal fatto che i singoli azionisti hanno spesso quote di partecipazioni minime che comportano un costo per condurre azioni di monitoraggio troppo elevato rispetto al beneficio che si potrebbe trarre. Tale beneficio, infatti, ricadrebbe su tutta la compagine sociale, della quale fanno parte anche quei soggetti che non hanno contribuito ai costi del controllo causando una sorta di free riding, rendendo la scelta del monitoraggio “del singolo” economicamente sconveniente (22).

La relazione di agenzia è definita da Jensen e Meckling (23) come un contratto in forza del quale il principale delega all’agente l’esecuzione di alcuni servizi. Il soggetto definito principale delega l’attività di gestione all’agente tramite un contratto che stabilisce le condizioni che regolano la relazione. L’agente svolgendo l’attività delegata, dovrebbe agire nell’interesse del principale. Questo ragionamento ci porta a considerare che da un lato entrambe le parti hanno funzioni di utilità che tenderanno a massimizzare e, dall’altro, che gli interessi dei soggetti coinvolti molto raramente saranno allineati. Proseguendo nell’analisi, dalle relazioni che intercorrono tra principale e agente possono nascere conflitti nel caso in cui si verifichino, in particolare, due condizioni: la prima, rappresentata dall’asimmetria informativa, cioè la condizione in cui il soggetto principale non può

(21) Cfr. S.J. GROSSMAN e O.D.HART, The Costs and Benefits of Ownership: A theory

of Vertical and Lateral Integration, cit., pp. 691-719.

(22) Per un approfondimento si veda R. EPSTEIN, Agency Costs, Employment

Contracts and Labour Unions, 1985 e S.GROSSMAN e O.HART, An Analysis of the Principal-Agent Problem, in Econometrica, 1983, pp. 7 ss.

(23) Cfr. JENSEN M.C. e MECKLING W.H., Theory of the Firm: Managerial Behaviour,

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