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Sistemi di amministrazione e controllo dualistico e monistico

Prima di esaminare l’ultimo articolo del Codice di autodisciplina dedicato ai sistemi alternativi di amministrazione e controllo (155), è bene fare una premessa che riguarda il rapporto che intercorre tra i modelli legali di amministrazione e il Codice di autodisciplina. Il Codice, come noto, risale al 1999 quando ancora non era stata attuata la riforma del diritto societario e, pertanto, le società per azioni non avevano ancora la facoltà di optare per sistemi di amministrazione alternativi a quello “tradizionale”. Tale possibilità viene introdotta solo nel 2003 con la riforma del diritto societario ed il Codice si adegua, nella versione del 2006, inserendo l’(allora) articolo 12 dedicato ai sistemi alternativi. Lo spazio che viene dedicato ai modelli alternativi risulta,

(153) Come sottolinea L.ENRIQUES, Il ruolo del consiglio di amministrazione delle

società quotate nell’era della disruptive innovation, in Banca impresa e società, 2017, pp. 15 ss., ancora molta strada può essere fatta in tema di corporate governance relativa alle informazioni e ai relativi rapporti con gli azionisti e gli investitori istituzionali. Su questo tema si sottolinea come il Codice di autodisciplina potrebbe essere modificato al fine di assicurare una maggiore leggibilità finalizzata a colmare il gap con le prassi internazionali e domestiche. (154) L. ENRIQUES, La direttiva azionisti e l’informazione preassembleare, in

Giurisprudenza commerciale, 2011, pp. 685 ss.

(155) Con sistemi di amministrazione e controllo alternativi ci si riferisce al sistema

dualistico e al sistema monistico. Il primo è caratterizzato dalla presenza di due organi collegiali distinti: il consiglio di sorveglianza, eletto dall’assemblea dei soci, e il consiglio di gestione, eletto dal consiglio di sorveglianza. Il sistema monistico è caratterizzato invece dalla sola presenza del consiglio di amministrazione, unico organo collegiale, eletto dall’assemblea.

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comparandolo con altri Stati europei (156), ampio e flessibile nel codice di autodisciplina, stando che un intero articolo è riservato a questo.

Venendo al punto, il Codice di autodisciplina si occupa dei sistemi di amministrazione e controllo alternativi all’articolo 10. L’articolo si apre con il principio 10.P.1. che rinvia agli articoli precedenti del Codice anche per quelle società che optino per i modelli di amministrazione e controllo dualistico e monistico rispetto a quello tradizionale. Viene precisato che le disposizioni devono essere «adattate al particolare sistema adottato, in coerenza con gli obiettivi di buon governo societario, trasparenza informativa e tutela degli investitori e del mercato» (157). I due principi che seguono trattano delle

informazioni che devono essere rese dall’emittente ai soci e al mercato nel caso in cui si proponga l’adozione di un nuovo modello di amministrazione e controllo. Il principio 10.P.2. suggerisce agli amministratori di «informare soci e mercato in merito alle ragioni di tale proposta, nonché al modo nel quale si prevede che il Codice sarà applicato al nuovo sistema di amministrazione e controllo», mentre il 10.P.3. raccomanda l’inclusione nella prima relazione sul governo societario successiva alla modifica del sistema di amministrazione e controllo una descrizione dettagliata delle «modalità con cui il Codice è stato applicato a tale sistema».

I criteri applicativi sono dedicati separatamente al sistema dualistico e al quello monistico. Il sistema dualistico viene trattato nel criterio applicativo 10.C.1, ulteriormente suddiviso in tre lettere: la lettera a) rafforza l’idea che il consiglio di sorveglianza venga assimilato al collegio sindacale da un lato e che consiglio di gestione venga assimilato al consiglio di amministrazione. Se ne deduce pertanto

(156) Infatti, anche nei paesi in cui è possibile seguire diverse opzioni statutarie – come

in Francia e (seppure solo ricorrendo al modello della Società Europea) in Germania – non altrettanta attenzione è dedicata dalla self regualtion a ipotesi alternative. Per un approfondimento S.LOVISATTI, Codici di autodisciplina e sistema dualistico, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2007, II, pp. 465 ss.

(157) Come evidenziato E. RULLI, Sistema monistico e codici di autodisciplina:

indipendenza, ma non solo, in Analisi giuridica dell’economia, 2016, I, pp. 123 ss., questo passaggio risulta essere una significativa testimonianza del fatto che non esista un solo modello monistico o dualistico, ma che entrambi possono essere attuati con previsioni statutarie che si discostano dal modello consolidato.

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che, in linea generale, gli articoli che si riferiscono al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale si applicano rispettivamente al consiglio di gestione e al consiglio di sorveglianza. La lettera b) sembra invece contraddire quanto appena detto, stabilendo che in ragione di specifiche scelte statutarie o di altri aspetti dimensionali, strutturali o di fatto, si possono applicare al consiglio di sorveglianza e ai suoi componenti le disposizioni relative al consiglio di amministrazione e ai singoli amministratori. La lettera c) che conclude il criterio dedicato al sistema dualistico, abbandonando la filosofia del rinvio, raccomanda l’applicazione dell’articolo 5 del Codice – riguardante la nomina degli amministratori per la nomina dei membri del consiglio di sorveglianza e/o di quelli del consiglio di gestione. La scelta è stata quella di valorizzare la specificità del dualistico italiano, individuata nell’estrema “duttilità” (158) del sistema. Inoltre, si è voluto evitare ogni

rischio di trapianto, di importazione da altri sistemai, che in tema di autodisciplina sarebbe risultato superfluo. Considerando che le disposizioni sul sistema dualistico sono state introdotte ex novo nel Codice di autodisciplina nel 2006 e considerando la allora carente sperimentazione del fenomeno, non deve sorprendere che siano state fatte alcune osservazioni in merito.

Passando ad analizzare il sistema monistico, il criterio 10.C.2. stabilisce che gli articoli del Codice riferiti al consiglio di amministrazione ed al collegio sindacale trovino applicazione “in linea di principio” con riguardo al consiglio di amministrazione e al comitato per il controllo sulla gestione o ai loro componenti. L’autodisciplina non aggiunge in questo caso molto rispetto a quanto previsto dal legislatore ordinario nel testo unico (159). Tale disposizione ha posto una serie di questioni interpretative, tra cui la più evidente risulta essere quella che riguarda la nozione di indipendenza dei componenti dell’organo amministrativo. Inoltre, ci si è interrogati sulla possibilità

(158) Così S.LOVISATTI, Codici di autodisciplina e sistema dualistico, cit., pp. 465 ss.

(159) Nel t.u.f. è previsto all’art. 1, comma 6 quater, che le disposizioni del testo unico

che fanno riferimento a collegio sindacale, sindaci e all’organo che svolge la funzione di controllo si applichino anche al comitato per il controllo sulla gestione e ai suoi componenti.

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di applicare l’articolo 1 del Codice all’organo amministrativo del monistico. La lettera b) del criterio applicativo prevede che le funzioni attribuite al comitato controllo e rischi dall’art. 7 del Codice possano essere attribuite al comitato per il controllo sulla gestione. Il Codice pone a tal riguardo un’unica condizione riguardante la composizione del comitato per il controllo sulla gestione, e cioè che si applichino i criteri di composizione previsti dall’articolo 7 del Codice di autodisciplina (160).

Il commento all’articolo 10 dopo qualche affermazione generale viene nuovamente suddiviso tra il modello dualistico e monistico, chiarendo le posizioni del Comitato in materia di applicabilità dei sistemi alternativi, prevedendo ampi margini di libertà adattabili alle diverse fattispecie sempre nella piena trasparenza delle scelte effettuate; in materia di applicazione delle raccomandazioni in tema di amministratori e sindaci ai diversi organi previsti per i sistemi alternativi e conclude con pareri specifici riguardanti la composizione degli organi dei due rispettivi modelli.

(160) Il riferimento è all’articolo 7, principio 7.P.4. che prevede che il comitato

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C

ONCLUSIONI

Con questo lavoro si è cercato di inquadrare il Codice di autodisciplina come strumento di corporate governance e ci si è chiesti se tale strumento possa effettivamente intervenire nel perseguimento degli obiettivi di un buon governo societario, esaminati in relazione al particolare tipo di soggetto preso in considerazione, ossia la società quotata. Argomenti che risultano di una certa attualità, potendo essere inseriti nel contesto di Corporate Social Responsibility che, riferita alle scienze sociali e inserita in un’analisi di carattere giuridico, si lega al problema del perseguimento di interessi diversi. La Corporate Social

Responsibility si è ritagliata uno spazio all’interno dell’odierno modo

di intendere l’impresa, sia per “opportunismo commerciale”, sia perché alcune imprese credono realmente nel valore di una tale forma di esercizio della loro attività economica. Prescindendo da quale sia lo scopo che anima tali principi le strategie di marketing e comunicazione sono fortemente informate da un principio di responsabilità sociale e strumenti di social reporting, social auditing, standard internazionali e da codici etici, che sono ormai diffusi nel mondo dell’attività d’impresa. In linea generale, è possibile dire che la CSR (161) sia uno strumento per perseguire interessi tradizionalmente esclusi dall’autonomia privata e di competenza specifica dell’intervento pubblico nell’economia.

(161) Risulta evidente che la rilevanza -sia aziendalistica che societaria e finanziaria

– del fenomeno CSR sia apprezzabile soprattutto sul piano dell’informazione al mercato. Lo strumento migliore, a tal fine, pare essere quello del bilancio d’esercizio e non un bilancio etico o di sostenibilità. Se, infatti, le società fossero in grado di monetizzare le operazioni di CSR, si può assumere che esse, pur senza essere costrette da vincoli esterni imposti dal legislatore, sarebbero maggiormente propense a mettere in atto comportamenti virtuosi e non viceversa. Ciò non stravolgerebbe la nozione di responsabilità sociale dell’impresa così come definita dalla Commissione Europea. Si tratta, cioè, di fornire alle società strumenti tecnico-giuridici utili a rilevare da un punto di vista contabile ed organizzativo scelte volontariamente improntate alla CSR al fine di evidenziarne il valore organizzativo e contabile. Sul punto ad esempio cfr. D. MALTESE., Corporate Sociale Responsibility e informazione contabile nelle società per azioni, in Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2016, pp. 223 ss.; E.D’ORAZIO, Codici etici e responsabilità d’impresa, in Notizie di Politeia, 2003; G.RUSCONI, Il bilancio sociale delle imprese. Economia, etica e responsabilità dell’impresa, 2013, Roma; L.CONDOSTA, Il bilancio sociale di impresa, 2008, Milano; C.ANGELICI, Responsabilità sociale dell’impresa, codici etici e autodisciplina, in Giurisprudenza commerciale, 2011, pp. 159 ss.; R.COSTI, La responsabilità sociale dell’impresa e il diritto azionario italiano, in AA.VV., La responsabilità dell’impresa. Convegno per i trent’anni di Giurisprudenza Commerciale, 2006, Milano.

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All’interno del dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa si possono riconoscere infatti due tendenze che vedono da un lato l’affermazione della libertà d’impresa, dall’altro la predominanza del mercato, all’interno del quale l’impresa svolge la sua funzione di creazione e scambio e il cui orizzonte di interessi si confonde con quello della sommatoria della totalità degli agenti economici. In questo modo gli interessi dell’una si confondono con quelli dell’altro, influenzandosi a vicenda. Da qui deriva l’esigenza per le imprese di assumere un comportamento che sia socialmente responsabile. Nel descrivere il fenomeno societario in una prospettiva economica i problemi di agenzia sono sempre stati centrali nella letteratura (162). Si è visto che tali

problemi sono strettamente collegati alla separazione tra proprietà e controllo, proporzionalmente correlata al crescere delle dimensioni aziendali. È quindi di facile intuizione comprendere le ragioni che stanno alla base del diritto delle società quotate, caratterizzato dalla ormai più volte citata specialità della disciplina che le riguarda. I problemi di agenzia sorgono infatti perché i soggetti coinvolti, principal e agent, hanno interessi confliggenti. Spesso il manager di una grande società e pertanto difficile da controllare potrebbe essere portato al perseguimento di interessi propri, senza perseguire un interesse comune come invece dovrebbe fare un’impresa responsabile, nel rispetto (e nella tutela) in particolar modo di quei soggetti deboli che sono presenti, soprattutto in società così ampie come sono le società quotate. Si è fatta strada sempre più con il tempo l’idea che una buona governance possa mitigare il rischio di conflitto di interessi insito nel governo di una società, in particolar modo se quotata, e in merito si sono sviluppati diversi presidi volti ad un governo societario corretto, efficiente e trasparente tra cui è possibile inserire anche i codici di comportamento e, di conseguenza, anche il Codice di autodisciplina delle società quotate. Lo stesso si propone infatti di fornire un insieme di best

(162) Per la definizione economica del fenomeno societario R.H.COASE, The nature

of the firm, in Economica, 1937, pp. 386-405; mentre per quanto riguarda gli agency problems JENSEN e MECKLING, Theory of the Firm, cit., pp. 305 ss, E.F. FAMA, Agency Problems and the Theory of the Firm, in Journal of Political Economy, 1980, pp. 288 ss. e a FAMA E JENSEN, Separation of Ownership and Control, cit., pp. 301 ss-

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practice conformi all’esperienza internazionale che forniscono principi

di buon governo societario. In linea con le tendenze europee, con i dovuti adattamenti relativi alla struttura dell’ordinamento domestico, anche il Codice italiano dedica il maggior numero dei suoi articoli al consiglio di amministrazione, per passare poi a previsioni sul sistema di controllo interno, raccomandazioni riguardanti i sindaci, rapporti con gli azionisti e sui sistemi di amministrazione e controllo alternativi. Si è visto come si sia quindi creata una sinergia tra corporate governance, società quotate e codici di autodisciplina. Come si è potuto notare sin dalla prima edizione del Codice di autodisciplina italiano, la materia dell’autoregolamentazione ha però portato con sé diversi problemi: inizialmente, il fatto che il Codice sia stato “importato” dal suo paese d’origine, ossia l’Inghilterra, ha comportato la necessità di adattare il Codice all’ordinamento italiano, che differisce da quello anglosassone (e da molti altri europei) soprattutto negli assetti proprietari delle società quotate. Il Codice italiano, di cui in questo lavoro si sono esaminati i principali passaggi evolutivi, è spesso intervenuto in modo da creare un testo sempre più conforme alla realtà societaria italiana, senza però perdere di vista gli standard europei in tema di best practice. Questi strumenti si caratterizzano infatti per una grande flessibilità che gli consente di adattarsi alle diverse società che lo adottano, anche grazie al citato principio del “comply or explain”. Nel tempo il Codice ha avuto rilevanti effetti positivi sull’assetto complessivo della regolamentazione delle società quotate italiane riconducibili essenzialmente a tre fattori: il Codice di autodisciplina, e più in generale l’autoregolamentazione, ha costituito più volte una sorta di “banco di sperimentazione” ed ha anticipato alcune soluzioni innovative che sono state poi recepite anche a livello normativo (163), molto più di quanto non sia successo viceversa. In secondo luogo, come si è visto nel caso del consiglio di amministrazione o del controllo interno, l’autodisciplina ha fornito contenuto operativo e di dettaglio ad alcune

(163) Come è stato ben evidenziato da M.STELLA RICHTER JR, Il nuovo Codice di

autodisciplina delle società quotate, cit., pp. 96 ss. evidenziando l’influenza del Codice stesso sulle norme primarie.

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norme civilistiche, rifacendosi alle best practice internazionali. Infine, il Codice è stato spesso utile per recepire principi e orientamenti contenuti in Raccomandazioni della Commissione europea come è evidente anche dalle ultime modifiche apportate in tema di diversità nella composizione degli organi sociali del luglio 2018.

Nel presente lavoro, particolare attenzione è stata poi dedicata ai due problemi ritenuti, dalla letteratura presa in considerazione, di maggior rilievo che hanno posto il Codice di autodisciplina al centro di feroci critiche di alcuni importanti autori. I detti problemi sono quelli relativi all’informativa al mercato e quello dell’effettiva applicazione dei principi ai quali le società dichiarano di voler aderire. Per quanto riguarda il problema dell’informativa, si tratta della fattispecie in cui le società possano fornire informazioni inadeguate o generiche rispetto l’adesione al Codice, oppure dichiarare di aderire allo stesso, ma di fatto applicarlo solo in parte o in maniera diversa da quanto dichiarato. Ciò determinerebbe un funzionamento non corretto del meccanismo della sanzione di mercato. In questo senso si è visto come ci siano stati diversi interventi volti a rafforzare le previsioni in materia di informazioni al mercato in capo agli emittenti. Per il Codice era infatti inizialmente prevista “solo” la già citata sanzione di mercato che ha da subito mostrato scarsa deterrenza: perché tale tipo di sanzione sia efficace è necessario un certo tipo di background culturale di mercato. Come si è detto l’intervento più consistente che ha cercato di porre rimedio al problema dell’informativa è stata la legge sulla tutela del risparmio 262/2005, che ha introdotto obblighi di varia natura rendendo così l’informazione sull’adesione (o meno) al Codice obbligatoria, mentre l’adozione dei principi resta volontaria. Gli interventi in materia di informativa sono volti ad assicurare la disponibilità al mercato delle informazioni, ma non entrano nel merito della qualità dell’informativa. Il tema della qualità dell’informativa al mercato sull’adesione ai Codici di autodisciplina rimane quindi una questione di policy centrale, fatto che si evince dall’attenzione prestata al tema anche dalla Commissione europea. Altra questione rilevante riguardante il Codice di

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autodisciplina riguarda l’effettiva implementazione delle raccomandazioni dei codici alle quali le società dichiarano di voler aderire. A tal proposito, come è stato evidenziato nel secondo capitolo del presente lavoro, si sono configurate tre diverse fattispecie riguardanti l’effettiva applicazione delle raccomandazioni e le possibili sanzioni connesse. Si è visto come la questione della verifica dell’adesione sostanziale delle società quotate a quanto dichiarato ha come fondamento un’ampia gamma di informazioni sulla realtà societaria. Pertanto, si preferiscono – in generale – nei vari ordinamenti europei soluzioni di enforcement privato (c.d. private

enforcement), risultando l’enforcement pubblico (cioè affidato alle

autorità di vigilanza sui mercati) di difficile attuazione (164). Molte delle

soluzioni fornite ai problemi che riguardano i Codici di autodisciplina sono riconducibili al tema dell’enforcement, sia esso di natura privata o pubblica. Questo porta a una serie di considerazioni che mettono in discussione non solo l’efficacia, ma anche la natura e l’utilità dello strumento stesso del Codice di autodisciplina. In primo luogo, delle considerazioni devono essere fatte sulle sanzioni reputazionali e sulla capacità del mercato – e degli investitori – di penalizzare la società che abbia fornito “false informazioni” o che non abbia effettivamente applicato le disposizioni cui ha dichiarato di aderire. Questo comportamento dovrebbe portare ad una perdita di fiducia da parte degli investitori e pertanto alzare il costo della raccolta di capitale dell’emittente. Si è da subito rilevato come questo tipo di sanzione non abbia compiutamente svolto la propria funzione di deterrenza, lasciando la questione dell’effettività di applicazione del Codice di fatto aperta. Perché infatti gli il mercato recepisca tale comportamento “scorretto” dell’emittente è necessario un particolare contesto culturale. Quindi, lasciando i Codici con le sole sanzioni reputazionali si rischia che venga messo in atto il c.d. boxticking, che ridurrebbe il Codice ad un mero “specchietto per le allodole”(165). Preso atto del fatto che le

(164) Sul tema anche P.GIUDICI, Private antitrust law enforcement in Italy, in

Comparative Law Review, 2004.

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sanzioni reputazionali non avevano l’effetto sperato, si sono via via proposte altre tipologie di strumenti volti a garantire una maggiore effettività del Codice. A tal proposito si sono descritte le principali ipotesi di enforcement privato sia attuabile da Borsa Italiana e Regolamento mercati, in quanto costituiscono un obbligo contrattuale, sia modalità di enforcement già previste dal codice civile, in materia di violazione di dovere giuridico da parte degli amministratori, ammesso che tale situazione costituisca una violazione dei doveri degli amministratori (166). Si tratta in ogni caso di rimedi generali già previsti nell’ordinamento interno e che hanno fonte legale. Sembra dunque che il Codice sia inevitabilmente destinato a una sorta di “giuridificazione”, cosa che avverrebbe “ancorando” l’effettiva adesione a sanzioni previste da fonti primarie di diritto.Le più aspre critiche mosse in tema di regole di corporate governance sottolineano come queste non possono e non devono essere considerate come un «potente antisettico capace di combattere le infezioni delle società per azioni» e, ancora, che tali regole per funzionare in questo senso non possono riprodurre i codici di autoregolamentazione, per loro natura sprovvisti di sanzioni. Si ritiene invece che siano da ricondurre nell’alveo legislativo, facendo sì che il circolo aperto dei codici di autoregolamentazione si richiuda su