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1.8.1 I conflitti jugoslavi e le ripercussioni in Kosovo

La Federazione Socialista Jugoslava iniziò a crollare già nel 1991, con la proclamazione dell’indipendenza della Slovenia e della Croazia, seguite dalla Macedonia. In contrasto con la Serbia, anche la Bosnia ed Erzegovina si dichiararono autonome l’anno dopo, e l’unificazione di Serbia e Montenegro in una Repubblica Federale siglò la fine del progetto politico federale jugoslavo. Le secessioni avvennero con un terribile spargimento di sangue, segnando il primo ritorno alle armi dopo la recente guerra mondiale. Il potere accentrato a Belgrado decise infatti di intervenire per ostacolare le operazioni e recuperare i territori jugoslavi, nonostante il diritto alla secessione delle nazioni fosse rimasto un caposaldo delle Costituzioni che si erano succedute nel XX secolo. Gli scontri tra l’Armata Popolare Jugoslava (in seguito le forze armate della Repubblica Federale di Serbia e Montenegro) e gli eserciti repubblicani si protrassero in particolare in Bosnia ed Herzegovina, dove solo l’intervento della NATO riuscì a portare i rivali al tavolo delle trattative, conclusesi con gli Accordi di Dayton del 1995 e il riconoscimento dei confini delle Repubbliche119.

Negli stessi anni in cui all’interno di territori confinanti avvenivano feroci crimini di guerra e si aprivano scenari di distruzione, il Kosovo si caratterizzò per la già citata politica di nonviolenza, che tuttavia iniziò a dare segni di cedimento già nella seconda metà degli anni ’90. Le frustrazioni legate al controllo oppressivo della polizia120 unite all’illusione che un intervento internazionale avrebbe potuto risolvere una volta per tutte la questione albanese in Kosovo, iniziavano ad istillare il dubbio che la resistenza passiva non avrebbe portato a risultati. La strategia di Rugova aveva perso popolarità, anche a causa del ruolo di secondo

119 Si provvide alla creazione di due stati interni alla Bosnia ed Erzegovina, la Federazione Croato-Musulmana e la Repubblica Serba, allo scopo di preservare la Repubblica da ulteriori conflitti etnici. 120 Bisogna ricordare che le istituzioni e le attività dello stato parallelo non erano riconosciute in nessun modo da Belgrado, e che la polizia continuava a mantenere ampi poteri in Kosovo, specialmente nel sopprimere le azioni considerate di ‘propaganda irredentista’.

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piano che il presidente aveva ricoperto durante gli incontri diplomatici tra leader balcanici ed esponenti della politica internazionale.

L’Esercito di Liberazione del Kosovo (Ushtria Çlirimtare e Kosovës, abbreviato in UÇK), iniziò nel 1996 ad organizzare azioni di guerriglia rivolte contro la polizia serba allo scopo di ‘fare giustizia’ delle operazioni di pulizia etnica a danno degli albanesi della provincia. Gli attivisti ottennero negli anni successivi anche l’appoggio di Adem Demaçi: in una dichiarazione molto simile a quella rilasciata da Nelson Mandela nel 1964, l’attivista ruppe con la linea di Rugova, rifiutandosi di condannare le tattiche dell’UÇK, e anzi affermando che “la nonviolenza non ci ha portato a nulla. Resistere è un diritto delle vittime della repressione. L’Esercito di Liberazione del Kosovo sta combattendo per la nostra libertà”121. L’avallo di Demaçi si concretizzò nel 1998 quando si unì all’ala politica del movimento. Nel frattempo l’Albania era nel pieno di una guerra civile e nell’anarchia a causa del carattere violento assunto dalle proteste dei primi mesi del 1997, successive al crollo del regime comunista. Il caos comportò un’enorme disponibilità di armi a bassissimo prezzo, che vennero contrabbandate al confine per favorire i militanti kosovari. Il clima di agitazione si estese anche alla provincia, dove ebbero luogo nuove proteste studentesche, stavolta con la partecipazione di circa ventimila persone. L’UÇK era ormai una realtà radicata nel territorio e conduceva azioni di guerriglia e sabotaggio contro obiettivi serbi. Nel 1997 si contarono le prime vittime civili, considerate veri e propri martiri laici, il cui funerale attirò migliaia di sostenitori della lotta armata. Ancora più grave, e non solo per la collettività albanese, fu la morte di Adem Jashari, considerato il padre dell’UÇK e già sotto accusa (in absentia) di terrorismo. Le forze di polizia serbe posero sotto assedio per tre giorni la sua abitazione di Prekaz e uccisero anche numerosi suoi familiari, secondo le stime circa 40-45 persone. A seguito di questo episodio, iniziò il coinvolgimento dell’esercito della Repubblica Federale nella provincia e le

121 Kosovo Leader Urges Resistance, but to Violence, C. HEDGES (consultato 16 aprile 2016) Disponibile all’indirizzo:

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ostilità raggiunsero un nuovo grado di intensità, seguendo le linee dettate dal Partito Socialista di Serbia al governo in quegli anni, radicale e ultra-nazionalista.

1.8.2 La guerra del Kosovo e l’intervento internazionale

Il segretario di Stato americano Madeleine Albright commentò sugli eventi che aprirono la strada al conflitto in Kosovo che “l’UÇK stava tentando di provocare una risposta serba in modo da rendere inevitabile l’intervento internazionale122”. In effetti la tendenza a considerare l’occidente e le forze politiche sopranazionali come un deus ex machina era radicata da tempo in Kosovo, e sembrava aver acquisito maggiori convalide dall’esito dei conflitti jugoslavi degli anni ’90. Ai fini della mia ricerca non è essenziale una ricostruzione degli eventi della guerra del Kosovo, pertanto mi limiterò ad annotare che l’escalation di violenza culminò con il massacro di Raçak123, in cui 45 persone di etnia albanese furono uccise dalle milizie jugoslave. Alla notizia fece seguito il congresso di Rambouillet del marzo 1999, quale presa di posizione dell’occidente nell’intervenire in questioni fino ad allora considerate interne alla Jugoslavia, scavalcando anche l’esito di un referendum serbo del 23 aprile 1998 in cui la popolazione serba dichiarò di opporsi all’intervento internazionale per risolvere la situazione in Kosovo. Alle negoziazioni parteciparono membri illustri dell’UÇK (tra cui Thaçi) ma anche Rugova e Milutinović, presidente della Serbia. Milošević risultò il grande assente, e rifiutò la prima bozza di trattato (approvata dalle delegazioni albanese, americana ed inglese il 18 marzo 1999) producendo invece una nuova versione del documento con sostanziali modifiche, tra cui l’eliminazione della possibilità per il Kosovo di scegliere tramite “il volere dei suoi abitanti” lo status amministrativo della provincia. Le nuove condizioni erano inaccettabili per gli altri seduti al tavolo delle trattative: il 24 marzo le forze aeree NATO iniziarono i bombardamenti contro la Jugoslavia, che si protrassero per 78 giorni, molti più

122 M. ALBRIGHT, Madam Secretary: A Memoir, Miramax, New York 2003, pag.386.

123 In verità, le milizie serbe si difesero sempre dalle accuse, affermando che i corpi erano quelli di militanti uccisi in diversi attacchi e che erano stati poi spostati dall’UÇK in modo che sembrasse un massacro.

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di quanti ne avessero preventivati le potenze europee che li avevano autorizzati. Del resto, anche Milošević aveva reagito alle proposte diplomatiche sicuro di avere i mezzi necessari per la controffensiva, e presupponendo che Mosca sarebbe venuta in suo aiuto.

La guerra comportò un numero di vittime pari a circa 13500124 di cui 10500 albanesi, mentre numerosi abitanti lasciarono le zone colpite cercando asilo in Macedonia, Montenegro, Albania o altrove (la stima del UNHCR si aggira intorno agli 850000 rifugiati). La firma degli accordi di Kumanovo avvenuta il 10 giugno 1999 determinò la fine delle ostilità mentre la Risoluzione ONU 1244 sostituì le truppe serbe con forze di peacekeeping NATO (la cosiddetta Kosovo Force o KFOR) e istituì un’amministrazione provvisoria della provincia gestita dalle Nazioni Unite. Tuttavia la violenza nella regione non cessò subito, e anzi incidenti di natura etnica si verificarono per molto tempo dopo il termine del conflitto, specialmente ai danni della minoranza serba, che spesso scelse di emigrare o di ritirarsi nelle enclave di Gračanica, Štrpce e Goraždevac125. La maggioranza albanese, sempre più numerosa e che pure era partita dalla strategia della resistenza civile, si stava facendo strada verso l’indipendenza con metodi violenti.

124 Kosovo Memory Book (consultato 26 aprile 2016)

Disponibile all’indirizzo: http://www.kosovomemorybook.org/?page_id=2884&lang=de 125 T. JUDAH, Kosovo: What Everyone Needs to Know, pag.92.

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Capitolo 2