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Affinità nelle strategie di creazione, mantenimento e distruzione delle società segregate

5.2 Istituire e mantenere le diseguaglianze

5.2.3 L’uso della coercizione

Le violazioni di diritti umani e delle libertà democratiche commesse in Kosovo e Sudafrica sono state rese possibili da un capillare sistema coercitivo, che per di più godeva di ampi margini di immunità giuridica per le sue azioni. Alle minoranze al comando in Kosovo e Sudafrica spettava (grazie alla struttura legale che loro stessi avevano istituito) un’ampia autonomia nell’uso della forza per fare in modo che le leggi venissero rispettate pur essendo poco democratiche. È fondamentale sottolineare come uno stato democratico provvederà sempre a dotarsi a livello istituzionale di un sistema di controlli esterni per limitare i poteri esercitati dai suoi principali attori, mentre nelle fattispecie analizzate questo non è accaduto. Morris (2012) specifica che “uno stato legittimo fa uso della forza per giusti fini, gode di un diritto –limitato- nel decretare quando l’uso della coercizione è giustificabile e ha il diritto di impedire ad altri attori sociali di fare uso della forza”. Secondo Weber infatti (1919), lo stato possiede il monopolio sull’uso legittimo della forza (enfasi mia). Anche per Elias (1939) il monopolio della violenza da parte dello stato è auspicabile, quale tappa finale del processo di civilizzazione tale per cui il singolo cede allo stato il diritto ad esercitare l’uso della forza, poiché consapevole dei vantaggi che ne potrebbe ricavare. Charles Tilly (1990) definisce pertanto lo stato come il titolare di un certo grado di controllo sui mezzi violenti, imposti ai cittadini di territori contigui parte della stessa formazione governativa. Le definizioni appena citate si riferiscono ad un contesto democratico diverso da quello del Kosovo e del Sudafrica nelle fasi prese in esame.

Come ricordato nei precedenti paragrafi, Milošević nella seconda metà degli anni ’90 presentava l’irrequieta situazione in Kosovo come la prova inconfutabile della persistenza di una minaccia albanese per i serbi. Con tali giustificazioni autorizzò l’invio di truppe militari e consistenti forze di polizia nella zona ‘in missione antiterrorismo’ quindi in ingente numero e con estese libertà di azione. Gli attacchi perpetrati ai danni dei villaggi risultarono nelle risposte violente da parte degli albanesi44. Non soltanto: in Kosovo gli albanesi impiegati nel settore della

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sicurezza pubblica furono licenziati in massa il 16 aprile 1990, e rimpiazzati con membri delle comunità ‘slave’ (serbi e montenegrini), che godevano, come già ricordato, della compiacenza dell’apparato giuridico, dove erano stati inseriti compatrioti slavi al posto di albanesi. Il passo successivo fu compiuto attraverso il già citato l’Ordine per il reclutamento di volontari per la difesa territoriale, con cui si promuoveva la creazione di corpi paramilitari. Le principali formazioni erano spesso cellule di gruppi più ampi, attivi in altre zone della Jugoslavia, tra cui le già citate Aquile Bianche, le Tigri di Arkan (nate come fan club della squadra di calcio della Crvena Zvezda Beograd, la ‘Stella Rossa di Belgrado’45) e gli Scorpioni. In quanto non soggetti ad alcuna autorità statale o codice militare, i loro metodi erano violenti e controllarli era impossibile. Colovic (1998) cita uno dei canti patriottici con cui le Tigri di Arkan partecipavano ad incontri di calcio come a manifestazioni politiche: ‘noi siamo i sostenitori dell’orgogliosa Serbia, Slobo (Milošević) tu sei serbo, la Serbia ti segue, venite sugli spalti, salutate la razza serba, dal Kosovo a Knin, che il serbo si unisca al serbo’.46

I gruppi paramilitari si inserivano in un particolare contesto. Il discorso nazionalista promosso da Milošević si allacciava ad un tipo di retorica patriarcale e tradizionalista, selezionava cioè alcuni aspetti della cultura serba come l’onore maschile, la semplicità dei valori rurali e quindi la famiglia patriarcale, in una Serbia sempre più urbanizzata e spinta verso l’industrializzazione da massicci investimenti, spesso esteri. Evocare un passato perduto significava toccare le giuste corde, specialmente in riferimento alla crisi economica che rendeva più difficile per gli uomini rispondere al ruolo tradizionale di capofamiglia, ma anche all’emancipazione femminile, accusata di essere responsabile della caduta del tasso di natalità. L’intellettuale Dobrosav "Dobrica" Ćosić, uno dei padri dell’ideologia della Grande Serbia, riassumerà il concetto scrivendo “un serbo è

45 Le Tigri avevano persino un campo di addestramento di tipo militare, visitato regolarmente dai giocatori del Crvena Zvezda Beograd. Oltre all’ambito della tifoseria, il reclutamento di membri avveniva nelle prigioni e nelle scuole medie superiori. A. OBERSCHALL, The manipulation of ethnicity: from ethnic cooperation to violence and war in Yugoslavia, ‘Ethnic and Racial Studies’, 23:6, 982-1001, 2000.

46 Colovic, 1998, in W. BRACEWELL, Rape in Kosovo: Masculinity and Serbian Nationalism, ‘Nations and Nationalism’ 6(4) pagg.563 - 590 · October 2000.

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un uomo che resta uomo fintanto che è serbo47”. La narrativa nazionalista di Milošević aveva pertanto successo tra i disoccupati ma anche tra l’intelligencija, a cui veniva concesso di riappropriarsi di un tipo di mascolinità fisica di solito non associata agli uomini di lettere. Il ritorno a ruoli tradizionali sembrava essere sostenuto anche dalle donne, deluse dalle promesse di realizzazione professionale disattese a causa della situazione economica ma anche per le difficoltà incontrate nel conciliare il carico lavorativo con gli incarichi legati alla sfera familiare e domestica. I gruppi paramilitari serbi erano quindi il massimo esempio della mascolinizzazione serba, un’esaltazione della virilità data dalla scelta di mettere al servizio della nazione la propria prestanza fisica (“potremmo non essere bravi a lavorare o a far soldi, ma siamo bravi a combattere”, dirà Milošević48’). Pur giustificando l’uso della forza come risposta alla violenza albanese, la quale meritava violenza speculare per ristabilire l’onore danneggiato, la quasi totale immunità di cui godevano questi gruppi faceva pensare che la scelta fosse dettata da convenienza e ritorno personale, se si considerano i benefici economici derivati dalla gestione di traffici o dal trattenere parte dei beni confiscati più o meno legalmente. Inoltre, come sottolinea Schäfer (2004) i membri dei corpi paramilitari riescono a tradurre l’insicurezza condivisa in una fonte di reddito, e pertanto il loro obiettivo è mantenere il clima di tensione e la legge del più forte più a lungo possibile.

Per quanto riguarda il Sudafrica, la violenza veniva imposta facilmente almeno fino all’inizio degli anni ’60, quando gli africani iniziarono ad organizzare forme di resistenza armata, grazie anche al contrabbando di armi con i paesi vicini lungo le zone confinanti. Dal loro insediamento, gli afrikaner avevano detenuto il monopolio sul possesso di armi da fuoco e polvere da sparo (in seguito esteso agli altri gruppi di bianchi), mentre le leggi dell’apartheid avevano assicurato che tutti i lavoratori provenienti dai bantustan che si recassero nelle aree urbane fossero perquisiti prima di potervi accedere. Le forze dell’ordine usarono estreme

47 Cosic, 1992, in W. Bracewell W., Rape in Kosovo: Masculinity and Serbian Nationalism, ‘Nations and Nationalism’ 6(4):563 - 590 · October 2000.

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forme di violenza in due famosi casi già trattati, e cioè a Sharpeville nel 1960 e a Soweto nel 1976, sparando sulla folla che stava manifestando. Spesso, la polizia era dotata di armi abitualmente in dotazione all’esercito ed era autorizzata a fare uso di tutti i mezzi necessari per mantenere l’ordine pubblico, in particolare nelle aree bianche. La già citata Legge sulla soppressione del comunismo del 1950, portava le forze dell’ordine ad avere una vasta autonomia nel decidere quali atti fossero inclusi nei comportamenti filo-comunisti o propagandistici. Secondo Bucaille (2006), la minaccia comunista rimase un’argomentazione valida per i primi anni dell’apartheid, diventando poi una giustificazione di forma per difendere provvedimenti al limite della legalità presi dalle forze dell’ordine nel mantenere il controllo sociale in una società dominata dalle disuguaglianze49. Così come in Kosovo, anche nel caso del Sudafrica avvenne una discriminazione all’interno del corpo della polizia. In questo caso alcuni africani mantennero le loro posizioni ma rimasero comunque subordinati all’autorità dei colleghi bianchi: un ufficiale di polizia bianco non aveva l’obbligo di eseguire un ordine impartito da un ufficiale nero, il quale non aveva nemmeno il diritto di arrestare un bianco50. Far parte della polizia significava per un africano raggiungere sì una posizione migliore a livello socioeconomico, ma anche mantenere la sua condizione subalterna. Solo nella fase post-apartheid, grazie ai lavori della Truth and Reconciliation Commision iniziati nel 1995, si portarono a conoscenza del grande pubblico numerosi atti di violenza e violazioni di diritti umani, messi in atto durante il regime da entrambe le parti coinvolte. Naturalmente, la maggior parte dei responsabili aveva agito all’interno delle strutture di mantenimento dell’ordine pubblico, ma esistevano anche ‘squadriglie della morte’ incaricate di tenere a bada ogni forma di opposizione e ogni tentativo di creare un movimento organico anti-apartheid, e dotate di ancora maggiori poteri rispetto alla polizia ordinaria51. Gli atti violenti vennero giustificati durante le sedute della Commissione come

49 L. BUCAILLE, Police Officers and Soldiers of Apartheid: Losers in the New South Africa, ‘International Social Science Journal’, no. 189 (2006): 433-46.

50 P. FRANKEL, South Africa: The Politics of Police Control, ‘Comparative Politics’, no. 4 (1980): 481-99. 51 S. PILLAY, Locations of violence: Political rationality and death squads in apartheid South Africa, ‘Journal of Contemporary African Studies’ (2005): 417-429.

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guidati dall’idea che la situazione in Sudafrica fosse troppo grave perché le forme convenzionali di coercizione potessero essere sufficienti a mantenere il controllo sulle comunità, senza contare che la protezione giurisdizionale per gli atti violenti compiuti da un bianco garantiva una sostanziale impunibilità; molti altri bianchi semplicemente concordavano con le motivazioni politiche del governo e non erano disposti a rinunciare ai privilegi che la supremazia gli garantiva, e pertanto scelsero di difenderli con ogni mezzo.

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