Dalla fondazione del sistema politico apartheid al suo crollo
4.3 Verso l’abolizione dell’apartheid
4.3.1 L’elezione di Botha e la fase di transizione
Nonostante i tentativi di controllo dei media22 e la risonanza mondiale dei fatti che stavano sconvolgendo il Sudafrica, Vorster, successore di Verwoerd, non poteva più ignorare le pressioni internazionali che condannavano l’apartheid ed esortavano a boicottare l’economia del Sudafrica. Un’ondata di affermazione nazionalista stava a mano a mano liberando dal giogo straniero paesi come l’Angola e il Mozambico, e anche la Namibia si avvicinava sempre più all’indipendenza. Le Nazioni Unite avevano cominciato ad occuparsi della situazione in Sudafrica già nel 1967, istituendo il Comitato Speciale sull’Apartheid e nel 1971 avevano dichiarato l’apartheid un crimine contro l’umanità. Per la prima volta venne votato dal Consiglio di Sicurezza l’embargo contro uno stato membro dell’ONU, ma tali misure rimanevano tendenzialmente nominali, dati gli interessi commerciali degli altri stati nei confronti del Sudafrica23. Il colpo di grazia per Vorster arrivò con uno scandalo interno al partito che lo coinvolse in prima persona: si scoprì che fondi pubblici erano stati usati per finanziare la propaganda pro-apartheid. Al suo posto venne eletto Louis Botha, il cui mandato si può riassumere nel tentativo di adattarsi alla nuova situazione senza rinunciare ai privilegi ottenuti in secoli di oppressione.
Durante il mandato di Botha, i sindacati e il diritto di sciopero vennero tollerati, seppure con limitazioni. Venne approvata una nuova costituzione, con cui si estese la partecipazione multirazziale (mantenendo quindi la suddivisione razziale) ma allo stesso tempo si rafforzarono i poteri del Presidente. Data la situazione nelle riserve, che stavano letteralmente implodendo per il sovraffollamento, vennero abrogati i provvedimenti delle Pass Laws ed altre misure restrittive, come il divieto per i matrimoni misti e per i partiti multirazziali.
22 D. SINGH, From Dutch South Africa to Republic of South Africa 1652-1994, pag.95.
23 G. L. BURYA, Nelson Mandela and the Wind of Change: The Origin, Struggles, and Hopeful Victory Over Apartheid Policy in South Africa, Zaria 1993, pag.44.
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Soltanto le scuole rimanevano rigidamente divise, e quelle nere ricevevano fondi appena sufficienti per la loro esistenza. Gli scioperi che ebbero luogo nelle istituzioni scolastiche e negli altri settori divennero frequenti, e assursero agli onori della cronaca internazionale, comportando di conseguenza un calo degli investimenti stranieri in Sudafrica, il quale stava già affrontando gli effetti della crescente inflazione. Nuova linfa al movimento di opposizione venne data in seguito al massacro di Soweto avvenuto nel 1976. La mattina del 16 giugno migliaia di studenti marciarono per protestare contro la decisione di imporre l’Afrikaans come lingua ufficiale di insegnamento in metà delle materie delle scuole medie superiori ed inferiori contenuta nel Bantu Education Act del 1974. La decisione veniva contestata non solo perché l’afrikaans era considerato dai neri come la lingua dell’oppressore, ma anche in relazione alla situazione concreta di svantaggio in cui si erano trovati gli alunni, poiché gli insegnanti africani spesso non avevano una conoscenza adeguata della lingua imposta e ciò risultava in uno più scarso livello di preparazione della nuova generazione. Negli scontri con la polizia che si verificarono, in cui si sparò sulla folla, morirono due studenti e molte centinaia rimasero feriti. Con la diffusione della notizia, altre proteste esplosero a Soweto e in altre città del paese nel corso dell’anno. Le proteste, gli scioperi, gli attentati continuarono per fino alla metà degli anni ’80, sull’onda del risveglio di una Black Consciousness determinata a porre fine al regime una volta per tutte. Il tentativo estremo di Botha per mantenere la presa sul paese fu la dichiarazione dello stato di emergenza.
4.3.2 Lo stato di emergenza
Per circa un anno, dal 20 luglio 1985 al 7 marzo 1986, fu vigente in Sudafrica lo stato di emergenza, ritenuto opportuno dal governo allo scopo di riacquistare il controllo del paese. Le forze dell’ordine avevano poteri praticamente illimitati, coperti anche dai provvedimenti con cui si stabiliva il divieto di trasmettere informazioni sulla situazione interna del paese di conseguenza si verificarono arresti di massa degli attivisti antiapartheid. La popolazione bianca aveva subito
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un drastico calo di numero, e nel 1985 costituiva il 15% della popolazione24, per cui le soluzioni democratiche non sembravano viabili, dato che avrebbero comportato una drastica diminuzione dei privilegi per la minoranza. Botha tentò di contrattare la scarcerazione di Mandela con la cessazione della lotta armata africana, ma il leader in prigione rifiutò la proposta. Una serie di incontri si svolsero tra Mandela e Coetsee, capo dei servizi segreti nazionali, in modo da negoziare una forma di transizione che potesse essere approvata anche dai bianchi, che garantisse in sostanza che i ruoli non si sarebbero invertiti.
4.3.3 De Klerk e le prime elezioni non razziali
Botha si dimise da capo del partito, sia per motivi di salute che per aver perso l’appoggio del suo esecutivo a causa di scelte troppo radicali e poco adatte al contesto storico. Al suo posto fu scelto Frederick De Klerk, a cui era chiara la strategia più utile da seguire in Sudafrica per ‘salvare il salvabile’: eliminare i provvedimenti razziali, liberare gli attivisti prigionieri e porsi così come il primo governo aperto al dialogo, posizione che gli avrebbe garantito migliori risultati rispetto al suo predecessore. De Klerk cominciò quindi a rimuovere il divieto contro i partiti nazionalisti africani e la pena capitale, mentre i prigionieri venivano liberati e Mandela in particolare veniva accolto da un bagno di folla l’11 febbraio 1990 all’uscita dal carcere. Successivamente le maggiori leggi razziali vennero abrogate, lo stato di emergenza fu rimosso e molti esiliati ricevettero l’immunità. Le negoziazioni con il governo iniziarono nel dicembre 1991, e videro l’incontro storico tra i membri del Partito Nazionalista e i delegati di homelands e dei partiti politici africani. La Costituzione ad interim frutto delle discussioni organizzava il Sudafrica in nove province, in cui sarebbero state incluse le homelands, e prevedeva la creazione di un Parlamento dotato di un’Assemblea nazionale di 400 membri, e un Senato di 90 membri, mentre la partecipazione bianca era garantita da un sistema elettorale proporzionale.
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Si specificava all’articolo 8 comma 225 che non sarebbe stata permessa nessuna discriminazione sulla base di criteri di “razza, genere, origine sociale o etnica, colore della pelle, orientamento sessuale, età, disabilità fisiche, religione, credo o coscienza, cultura o lingua”. In particolare, si individuavano undici lingue ufficiali, cioè inglese ed afrikaans più nove lingue africane. Anche per la distribuzione della terra si crearono provvedimenti volti alla restituzione degli appezzamenti espropriati dal 1913.
Le prime elezioni vennero programmate per il 26-29 aprile. Nei giorni precedenti si verificarono episodi di violenza e scontri, tali per cui De Klerk dichiarò lo stato di emergenza come il suo predecessore. I disordini erano causati dalle resistenze del partito Inkatha Freedom Party, guidato da Magosuthu Buthelezi, molto rigido sulle questioni territoriali e favorevole alla creazione di uno stato Zulu indipendente. Risolta la questione con un compromesso, le elezioni si svolsero senza ulteriori difficoltà: l’ANC ottenne il 62,7% dei voti, mentre il Partito Nazionale afrikaner il 20,4%. Nelson Mandela venne eletto presidente e affrontò negli anni seguenti il difficile incarico di democratizzare una società che per decenni aveva funzionato secondo criteri razziali in ogni aspetto della vita pubblica.
4.4 La Repubblica Sudafricana oggi: il retaggio del passato e le nuove