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Come abbiamo potuto constatare precedentemente, dalle recenti pubblicazioni sulla schiavitù nel Mediterraneo è emerso che gli storici si stanno interessando sempre più alla storia dello schiavo e sempre meno tendono a categorizzazioni più ampie, essendo piuttosto interessati all’interconnessione tra locale e globale.95 Si veda il caso di Aly del Marnegro. Il ruolo sempre maggiore che l’analisi storica dà all’attore, andando

al di là dei determinismi socio-economici, ha ridonato un ruolo agli attori stessi e alla loro collocazione nelle società. Pensiamo all’influenza della microstoria e alla nozione di agency propria dei Subaltern Studies.96 A partire dagli anni ’70-’80 del XX secolo

queste nuove tendenze storiografiche, la microstoria in Europa e specificamente in Italia,

93 Ivi, p. 195.

94 P. Guillén e S. Trabelsi, Introduction,in Idd. (a cura di), Les esclavages en Méditerranée. Espaces et

dynamiques économiques, pp.1-23, qui3.

95 Si veda il capitolo “Lo schiavo e gli schiavi” in Turi, Schiavi in un mondo libero, pp. 89- 123.

96 Per la microstoria citiamo su tutti G. Levi, L’eredità immateriale. Carriera di un esorcista nel Piemonte

del seicento, Torino, Einaudi, 1985. Sulla nozione di agency e dei Subaltern Studies, si veda R. Guha, G.

i Subaltern Studies nel subcontinente indiano, portarono un grande rinnovamento.97

L’autonomizzazione e “singolarizzazione” dei comportamenti e dei casi, pur problematizzando e complicando ulteriormente i problemi storiografici, dona una comprensione migliore del ruolo degli attori come singoli o come gruppi subalterni nella storia. Di rimando della loro influenza nei processi storici, che non sono solamente biunivoci secondo logiche dominatore-dominato o società-individuo.98

Nonostante questo sia vero, nel mio caso di studi rintracciare memorie o testimonianze dirette di schiavi tra fine XVIII e inizi XIX secolo è raramente possibile e le fonti che utilizzo sono fonti ecclesiastiche o di Stato. La testimonianza, che sia un documento autobiografico o un registro di battesimo, rappresenta sempre una mediazione tra noi e la realtà che vorremmo andare a sviscerare. La fonte di per sé stessa non è lo specchio della realtà del suo tempo. Il documento è il risultato prodotto dalle società storiche per imporre al futuro una data immagine di sé. Sta allo storico essere giudice e analizzare criticamente le fonti.99 Riprendendo le parole di Giovanna Fiume,

che pur riferendosi a fonti giudiziarie, afferma: «storici e giudici allo stesso modo

entrano in rapporto con fatti di cui non sono testimoni diretti, e apprendono attraverso la mediazione di altri.».100 Poi vi sono le memorie egemoniche e le contro-memorie, in

particolare quando vi sono passati controversi e di difficile ricostruzione è necessario ricomporre memorie in conflitto. La memoria è intrinsecamente legata alla dimensione del potere, per questo lo storico deve tenere in considerazione le commemorazioni e i silenzi istituzionali del suo tempo e altresì come gli è stata veicolata la memoria tra passato e presente e nel passato stesso.101 Ritornando ai subaltern studies prendendo a

prestito le parole di Gayatri Chakravorty Spivak sul subalterno:

Tuttavia il linguaggio sembra fare uno sforzo anche per riconoscere che la visione del subalterno, la sua volontà e presenza, non possono costituire altro che una finzione teorica finalizzata a rendere legittimo il progetto di interpretazione. La coscienza del subalterno non può essere recuperata, “probabilmente non sarà mai recuperata”. Se mi spostassi sul registro leggermente

97 M. Scarfone, La storiografia subalterna in prospettiva globale, in Memoria e Ricerca, n. 40, 2012, pp.

39-53, p. 39.

98 Una riflessione sul ruolo dell’attore nella storiografia contemporanea, C. Delacroix, Acteur, in

Delacroix et al., (a cura di), Historiographies, pp. 651-663.

99 P. Sorcinelli, Il quotidiano e i sentimenti. Viaggio nella storia sociale, Milano, Bruno Mondadori, 1996,

pp. 6-7.

100 G. Fiume, La vecchia dell’aceto. Un processo per veneficio nella Palermo di fine Settecento, Palermo,

Gelka, 1990, p. 16.

101 A. Tota, Memoria, patrimonio culturale e discorso pubblico, in E. Agazzi, V. Fortunati, Memoria e

esoterico del linguaggio post-strutturalista francese potrei esprimermi così: “per noi pensiero in questo caso quello della coscienza subalterna è qui un nome perfettamente neutro, un bianco testuale, l’indice necessariamente indeterminato di un’epoca a venire della differenza.102

In Europa, Bertolomé e Lucile Benassar, alla fine degli anni ’80 del XX secolo – citando François Furet che aveva già posto il problema delle classi inferiori, della loro reintegrazione nella storia e di come ricostruire una storia sociale di queste classi negli anni ’60 del XX secolo103 – nella loro opera Les Chrétiens d’Allah riportano:

L’histoire d’aujourd’hui le réintègre (l’homme des classes inférieures) dans l’aventure humaine par l’étude quantitative des sociétés du passé, mais il y reste silencieux…Les classes inférieures … analphabètes, et le plus souvent résignées … n’ont laissé dans l’histoire écrite des sociétés précapitalistes que peu des traces, généralement dues à un curé de campagne ou à un intellectuel philantrophe.104

Questa citazione criticata parzialmente dai fratelli Benassar che invece iniziavano a comprendere la ricchezza delle fonti d’archivio ancora inesplorate sul tema della schiavitù europea, mostra però come Furet spinga a voler scrivere una histoire serielle degli attori nascosti. Uno di questi frutti è un testo francese di André Zysberg che ha cercato di spiegare quale fu la vita di 60.000 forzati sulle galere francesi tra il 1680 e il 1748.105 Ricordiamo che ancora oggi, nonostante la ricerca sui dati quantitativi della

schiavitù in area europea sia notevolmente progredita, è ancora difficoltoso pronunciarsi su una stima europea o nazionale. Un grosso salto in avanti è stato fatto dalla storiografia spagnola ma quella italiana è ancora indietro in tal senso. L’unico storico che si pronuncia su dati quantitativi in Italia è il pioniere degli studi sulla schiavitù Salvatore Bono che stima la presenza approssimativa da 1 milione e mezzo a 2 milioni e

102 G. C. Spivak, Subaltern Studies: decostruire la storiografia, in Guha e Spivak (a cura di), Subaltern

Studies, pp. 103-143 qui 115. Titolo originale dell’opera da cui sono tratti i testi: Selected Subaltern Studies, edited by Ranajit Guha and Gayatri Chakravorty Spivak, New York-Oxford, Oxford University

Press, 1988.

103 Certamente il rinnovamento soggettivista fu proprio anche della storia sociale britannica a partire dagli

anni ’60 del XX secolo, E. P. Thompson ebbe il merito di inaugurare la ‘history from below’. E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, Harmondsworth etc., Penguin, (1963), 1968.

104 B. Bennassar e L. Bennassar, Les Chrétiens d’Allah, p. 11.

105 A. Zysberg, Les galériens. Vies et destins de 60.000 forçats sur les galères de France 1680-1748,

mezzo di individui in condizione non libera dal 1500 al 1700.106 Bono nel suo

recentissimo volume Schiavi – in cui analizza la schiavitù mediterranea seguendo diverse linee di ricerca come il mercato degli schiavi, la vita degli schiavi, il problema delle conversioni e il ritorno alla libertà – si pronuncia sulla cifra di 7 milioni di persone coinvolte nella tratta mediterranea contando in modo unitario schiavi europei, africani di colore, musulmani e altri dal XVI al XIX secolo.107

Però recentemente, per il caso livornese, anche Guillaume Calafat e Cesare Santus si sono pronunciati su cifre, stimando che dal 1600 al 1750 gli schiavi a Livorno rappresentavano circa il 10% della popolazione cittadina.108 Per questo, nonostante

l’approccio quantitativo abbia perso di rilevanza per la comprensione del fenomeno e si tenda piuttosto a individuare singoli casi o a ricostruire traiettorie di vita per ricomporre più lucidamente una parte del puzzle, è comunque utile portare avanti ricerche in tal senso. Oggi per lo studio del tema della schiavitù mediterranea siamo più legati agli aspetti culturali che dimostrano meglio i fenomeni di ibridità e di scambio e non siamo abituati a concepire il mediterraneo in termini di dominatore-dominato come nella dimensione conflittuale coloniale. Non utilizziamo il termine “creolizzazione” a proposito dei metissage presenti sulle coste mediterranee. Anche se non possiamo certamente paragonare il colonialismo atlantico e l’imperialismo del XIX secolo agli episodi di colonialismo e di conquista mediterranee. Se pensiamo all’espansionismo veneziano nel Levante o all’espansionismo dell’Impero ottomano parliamo di imperi i quali, anche se non hanno avuto ovviamente le dimensioni di quello francese o britannico, hanno fatto propria la dimensione dominatore-dominato. Nell’area mediterranea però l’equilibro di forze tra Europa occidentale e regni di Barberia è sempre stato speculare se pensiamo alla guerra di corsa e alla cattività.109

Più recentemente Linda Colley, specialista dell’impero britannico, con il tentativo di presentare l’impero e la questione della cattività sotto una nuova luce, dà al ruolo dei singoli attori e delle loro traiettorie – che siano i colonizzatori o i colonizzati – una grande importanza. Sono i prigionieri, gli individui e le loro storie che contano, siano

106 S. Bono, «Schiavi in Europa nell’età moderna. Varietà di forme e di aspetti», in Schiavitù e servaggio

nell’economia europea secc. XI-XVIII, pp. 309-335, cit. p. 311. In ogni caso anche per il caso spagnolo,

Bono afferma che nessuno ha voluto affrontare un lavoro di sintesi per l’intera Spagna.

107 S. Bono, Schiavi. Una storia mediterranea, p. 75.

108 G. Calafat, C. Santus, Les avatars du ‘Turc’. Esclaves et commerçants musulmans à Livourne (1600-

1750), in Dakhlia e Vincent, (a cura di), Les musulmans dans l’histoire, pp. 471-522 qui 481.

109 J. Dakhlia, B. Vincent, Introduction, in Idd. (a cura di), Les musulmans dans l’histoire, pp. 7-29, qui

essi britannici catturati durante le imprese espansionistiche, siano invece pirati nordafricani o schiavi di qualsiasi natura. È il racconto di prigionia che diventa importante.110 L’approccio di “histoire de vie” da lei utilizzato risulta davvero utile e

chiarificatore e, per certi versi, dona un affresco più verosimile sulla condizione dell’uomo nel XVIII secolo rispetto alle classiche sistemazioni macrostoriche. Ad esempio il celebre personaggio di Elizabeth Marsh – donna che visse l’espansionismo britannico e le trasformazioni legate al processo di globalizzazione del suo tempo – viene collocato a fianco del contemporaneo Olaudah Equiano. Quest’ultimo, schiavo di discendenza africana, mediante i suoi viaggi e scritti, fece di sé un cittadino del mondo. Elizabeth e Olaudah hanno vite che possono apparire dissimili, in realtà entrambi furono legati alla tratta degli schiavi, seppur con prospettive diverse, e alla carta stampata nel lascito delle loro memorie.111 Entrambi furono poi vittime, dati i punti di partenza che

emergono dalle rispettive biografie, ma riuscirono a reinventarsi divenendo anche protagonisti del loro destino.112 Elizabeth come donna, figlia quasi analfabeta di un

costruttore di navi della Royal Navy, ebbe la possibilità di visitare i quattro continenti e di istruirsi. Fu la prima donna a pubblicare un libro in inglese sul Marocco. Olaudah che da schiavo si autoriscattò e poté pubblicare la sua autobiografia.113 In tal senso anche la

mia ricerca su casi di schiavitù nelle città portuali italiane vorrebbe utilizzare metodologicamente tale approccio, anche se non relativizzando eccessivamente le categorie di colonizzatore e colonizzato, padrone e schiavo.

Rintracciare storie di vita è importante anche per comprendere che non tutti i musulmani in area italiana erano schiavi e che quindi anche la fonte battesimale presa singolarmente non è sufficiente a testimoniare sulla base del nome d’origine arabo che si trattasse di uno schiavo, benché nella fonte la maggior parte delle volte è specificata la

110 L. Colley, Captives: Britain, Empire, and the World, 1600-1850, trad. it a cura di A. Fabbri,

Prigionieri. L’Inghilterra, l’Impero e il mondo. 1600-1850, Torino, Einaudi, 2004; si veda in particolare

l’introduzione, Ciò che conta sono gli individui e le loro storie, pp. 16-17.

111 «I am sensible I ought to entreat your perdon for addressing to you a work so wholly devoid of literary

merit; but, as the production of an unlettered African, who is actuated by the hope of becoming an instruments towards the relief of his suffering countrymen …. Nella lettera introduttiva alla camera dei Lords e dei comuni del parlamento inglese», O. Equiano, The Interesting Narrative of the Life of Olaudah

Equiano, or Gustavus Vassa, the African. Written by Himself, Gloucester, Dodo Press, 2007, p. 5.

112 L. Colley, The Ordeal of Elizabeth Marsh. How a Remarkable Woman Crossed Seas and Empires to

Become Part of World History, trad. it. a cura di Barbara Placido, L’odissea di Elizabeth Marsh. Sogni e avventure di una viaggiatrice instancabile, Torino, Einaudi, (2007), 2010.

dicitura “schiavo”.114 Pensare a un libro prodotto da uno schiavo stesso, come nel caso

di Olaudah Equiano, soggetto non libero che produce memoria, non ha eguali per gli schiavi in area italiana anche se si possono trovare fonti epistolari. In ogni caso per ricostruire la biografia o un frammento di vita è necessario utilizzare una molteplicità di fonti. Alì il turco e molti altri rappresentano solo una piccola parte del grande lavoro che è ancora da svolgere sugli schiavi in area italiana. Anche per questo cercherò di coprire una cronologia più ampia che non si ponga come termine post quem la seconda metà del XVIII secolo, ma che vada oltre.