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Le storie di schiavi ritrovate nelle fonti ci mostrano casi di vera e propria schiavitù, non di altre forme di dipendenza servile, benché possiamo affermare che la condizione di vita di questi schiavi non fosse necessariamente peggiore rispetto a quella dei forzati o dei buonavoglia nelle galere. Nel momento dell’inserimento in una nuova comunità, la vita di un ex-schiavo o di uno schiavo dopo il battesimo poteva essere similare a quella di un servo. Le componenti che abbiamo ritrovato riguardano schiavi di diversa provenienza: arabo-ottomani, nero-africani ma anche ebrei e greci. Dunque la connotazione “razziale” dello schiavismo, che è posteriore al XV secolo e si sviluppa con la tratta atlantica per la quale nasce il binomio “nero” e “schiavo”, non è facilmente sovrapponibile al contesto mediterraneo nel XVIII-XIX secolo.584 Con tale affermazione

non voglio sostenere che non esistesse il razzismo contro i “sauvage” considerati inferiori ma che nel contesto mediterraneo l’unica prova che abbiamo testimoniante l’inferiorità di uno schiavo nero rispetto a altri schiavi è il valore commerciale. Talvolta nelle fonti è emerso che un nero valesse meno di uno schiavo musulmano del Nord- Africa. E’ arduo però datare quando iniziò il razzismo contro le persone di colore in Europa. La schiavitù che persistette ben oltre il XVIII secolo in area italiana, nonostante

584 M. Cottias, A. Stella, B. Vincent, (a cura di), Esclavages et dépendances serviles. Histoire comparée,

il fenomeno fosse quantitativamente ridimensionato, arrivò secondo le mie ricerche sino al 1845.585 La schiavitù fu ammessa anche oltre la Rivoluzione francese sino all’età

napoleonica, benché il XVIII e il XIX secolo furono i secoli in cui venne messa più fortemente in discussione e giuridicamente abolita.586

Dal punto di vista giuridico la contrapposizione tra uno schiavo e un uomo libero è fondamentale per comprendere lo status giuridico di un individuo. Ciò non toglie che la contrapposizione non sia così dicotomica e che possano esistere varie gradazioni di lavoro non libero che non siano forme di lavoro di tipo schiavistico intese in senso giuridico tradizionale.587 L’antinomia schiavitù e libertà non è mai netta e non solo nelle

società antiche sono coesistite varie forme di schiavitù e servitù ma in tutte le epoche storiche.588 In ogni caso nella ricerca l’aver definito questi uomini schiavi è valso sia dal

punto di vista giuridico, sia per le condizioni economico-sociali in cui questi uomini si trovavano a vivere e, soprattutto, perché gli schiavi sono considerati tali nelle fonti. L’accordo tra un libero che non ha propri mezzi di sussistenza e colui che, disponendo di beni, ha bisogno di un servizio, viene collocato tra i contratti d’affitto delle cose: una casa, la terra, uno schiavo. La distinzione tra schiavitù per diritto di guerra e la sottomissione volontaria, temporanea o perpetua, alla volontà altrui, per mancanza di mezzi di sussistenza è il passaggio fondamentale per poter identificare il salariato come un servo temporaneo: «questa categorizzazione giuridica non è neutra; essa lascia penetrare nel contratto di impiego raffigurazioni del lavoratore salariato intrise di caratteristiche proprie dello schiavo.».589 In ogni caso non bisogna pensare il passaggio

di condizione in senso evoluzionista o come un progredire temporale e sostanziale delle condizioni: schiavo, servo, salariato. La coesistenza tra le varie forme di non libertà – schiavitù, servaggio e salariato – è sempre esistita, basti pensare all’antichità greco- romana e al Medioevo.590 La libertà ottenuta dallo schiavo nel XIX secolo – sia nelle

aree del Mediterraneo che nelle colonie atlantiche con le varie abolizioni – non è necessariamente una vera libertà se lo ex-schiavo non può autoprovvedere al suo

585 Si veda Supra, p. 118. Raffaella Sarti testimonia ancora l’acquisto di uno schiavo a Bologna nel 1858.

R. Sarti, Tramonto di schiavitù sulle tracce degli ultimi schiavi presenti in Italia (secolo XIX), p. 291.

586 S. Bono, Schiavi. Una storia mediterranea (XVI-XIX secolo), p. 25.

587 J. Quirk, La schiavitù e le forme “minori” d’asservimento in prospettiva giuridico-storica, in «Mondo

Contemporaneo» 2/2015, pp. 113-139, qui p. 113.

588 G. Turi, Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età moderna a oggi, Roma-

Bari, Laterza, 2012, p. 15.

589 M. L. Pesante, Come servi. Figure del lavoro salariato dal diritto naturale all’economia politica,

Milano, Franco Angeli, 2013, p. 9.

590 M. Cottias, A. Stella, B. Vincent, (a cura di), Esclavages et dépendances serviles. Histoire comparée,

sostentamento. Se l’ex-schiavo può provvedervi in una condizione di libero, giuridicamente parlando, ma di subordinato per la sua condizione di inferiorità economica ancora non è libero.591 Perciò il modello dello schiavo all’interno delle figure

del servo volontario perpetuo, o temporaneo, e del salariato libero rimane così cruciale. La sua prestazione, come uomo giuridicamente libero, non è considerata più di sfruttamento perché è stata legalizzata, non è più schiavo. Tale condizione però è molto conveniente per il compratore. Per Maria Laura Pesante il problema in discussione concerne la forma di prescrizione totale che riguarda anche il lavoro salariato libero. La contrapposizione tra servitù temporanea come espressione del dominio e precarietà totale come modalità alternativa di controllo è la polarità che si nota fortemente negli autori della giurisprudenza naturale fino alla prima metà del XVIII secolo. Il salariato, pur essendo un soggetto attivo, eredita questa condizione dal servo volontario perpetuo.592

I dibattiti abolizionisti ottocenteschi, che avevano l’obiettivo di seguire il passaggio dello schiavo dalla condizione di schiavitù a quella di libero, ad esempio, celavano dietro la formula “lavoro libero” forme alternative di lavoro forzato che potevano mantenere inalterati i livelli produttivi. In relazione al tema della libertà e alle proposte abolizionsite, lo statuto giuridico sulla figura dello schiavo nelle colonie francesi si rifaceva al Code Noir (1685), la cui contraddittorietà implicava il doppio binomio: “schiavo persona” e “schiavo non persona”.593 L’abolizione graduale avrebbe

così reso in primis l’esclave libero in quanto proprietario di beni e, solo in un secondo momento, il proprium lo avrebbe trasformato in un uomo giuridicamente libero. Precisamente tra i diritti fondamentali sanciti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1789) vi è il diritto alla libertà, libertà che in termini kantiani è un diritto universale: «Il diritto innato è uno solo. La libertà […] è quest’unico diritto originario spettante a ogni uomo in forza della sua umanità»594. Il diritto alla libertà, se si considera tale diritto

come innato, è dunque intimamente in contraddizione con l’esistenza giuridica della figura dello schiavo. Al contrario, in termini groziani, possiamo intendere il diritto alla libertà come intimamente interconnesso alla proprietà, al proprium: «la libertà riguardo

591 Ivi, p. 11. 592 Ivi, p. 13.

593 Il Code Noir era un documento giuridico che – composto da una sessantina di articoli e redatto nel

1685, durante il regno Luigi XIV – regolamentava la giurisdizione sulla figura dello schiavo. Cfr. L. Sala- Molins, Le Code Noir, ou le calvaire de Canaan, Paris, Puf, 1987, 4 éd. 2007, p. 7.

594 I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, cit. p. 345; trad. it. cit., p. 44, citato in G. Gozzi, Diritti e civiltà.

all’azione è equivalente alla proprietà dei beni».595 In tal caso lo schiavo – essendo lui

stesso una proprietà e non un proprietario di beni – non può essere in alcuna misura libero. Anche Thomas Raynal nel 1776, nella sua Histoire des deux Indes, aveva già ipotizzato qualcosa di simile affermando – nel libro XI e nel capitolo XXIV intitolato “Origine e progressi della schiavitù. Argomenti per giustificarla. Risposte a questi argomenti” – che restituendo la libertà allo schiavo, dopo avergli consegnato una patria e attività produttive in cui impegnarsi per poter accedere alla sfera dei consumi, gli avrebbe permesso di trasformarsi in un lavoratore. Così l’esclave, liberatosi delle catene, avrebbe reso con la sua nuova forza-lavoro più produttiva la colonia.596

L’abolizionismo britannico, sostenitore di un’abolizione graduale della schiavitù, si basava su tali principi. Sarebbe stato necessario rendere lo schiavo libero, in un primo tempo, in quanto proprietario di beni e solo in un secondo momento un uomo giuridicamente libero. Allo stesso tempo, anche se la schiavitù mediterranea non è stato un sistema di sfruttamento paragonabile alla tratta atlantica, possiamo ritrovare peculiarità a proposito della condizione dello schiavo che si doveva sostentare. In area italiana abbiamo visto che gli schiavi frequentemente si sostentavano parzialmente, quindi nella comunità di arrivo era più probabile la loro integrazione dopo la liberazione. Ad esempio, nel contesto della Reggia di Caserta, gli schiavi venivano già utilizzati come manodopera con un compenso in denaro, anche se il compenso era irrisorio. In ogni caso potevano frequentare la taverna, quindi in qualche modo si sostentavano anche se il guardaroba e il nutrimento gli veniva fornito.597 Anche nelle realtà geografiche che

abbiamo incontrato, come nel caso romano, abbiamo visto che gli schiavi talvolta dopo il battesimo venivano impiegati come soldati o per lavori di responsabilità maggiori sotto compenso. A Genova ci sono testimonianze che nel XVII secolo i musulmani erano impiegati in lavori di artigianato e che vi fossero botteghe di schiavi turchi che attiravano la curiosità dei viaggiatori stranieri in Italia. A fine XVIII secolo, un anonimo tedesco descriveva gli schiavi bottegai di Genova che, grazie alle loro vendite, talvolta riuscivano a riscattarsi. 598 Anche a Civitavecchia, secondo una memoria del

Guglielmotti, molti schiavi miglioravano la loro fortuna vendendo cestini e berretti alla moresca. In una memoria del 1773 a Livorno, in merito agli schiavi che lavoravano al di

595 U. Grozio, Mare Liberum, a cura di Francesca Izzo, Napoli, Liguori Editore, 2007, p. 16.

596 Thomas Raynal, Histoire philosophique et politique des etablissements et du commerce des Europeens

dans le des deux Indes, trad. it., (a cura di Alessandro Pandolfi), Storia delle due Indie, Milano, Rizzoli,

2010, p. 481.

597 Si veda, Supra, p. 138.

fuori del Bagno, risulta che alcuni avessero in affitto i botteghini e le baracche della darsena in cui svolgevano i più differenti lavori: barbiere, facchino, rivendita di mercerie e altro.599 In realtà a Livorno, dopo un motu proprio del granduca di Toscana del 1616,

agli schiavi venne proibito di aprire botteghe sulla darsena e solo più tardi ottennero di esercitare le loro attività commerciali ugualmente.600 La tolleranza per le attività degli

schiavi era motivata da interessi dei cittadini e dei militari delle varie città che – frequentemente, assieme agli schiavi – erano implicati nel guadagno di tali commerci o vendite. Ad esempio, a Civitavecchia nel 1724, i galeotti facevano commercio di vino, tabacco e gli schiavi venivano utilizzati per comprare sulle galere queste merci di contrabbando per alcuni cittadini.601 La citazione che riprende Salvatore Bono dal

pamphlet di Emile Humbert I Barbareschi e i Cristiani (1822) sulla gestione delle taverne in cui vengono descritte risse tra un marinaio moro, un cristiano rinnegato e un soldato turco è tipica.602 Anche all’interno della Reggia di Caserta vi era una taverna e vi

erano continui tafferugli tra schiavi e forzati. Un altro aspetto che dimostra l’incontro tra culture diverse è la diffusione di abitudini nuove, in particolare nel settore alimentare. Un esempio è la diffusione del caffè a Livorno. Nel XVIII secolo un turco affrancato, Mustafa, detto Topal, gestiva un caffè in via San Giovanni.603

Dunque conviene rompere la visione binaria tra uomo libero e schiavo a favore di una visione più sfumata che cerca di analizzare, caso per caso, quali siano le forme di schiavitù o il rapporto tra la schiavitù e altre forme di dipendenza servile vicine alla schiavitù.604 Mettere in discussione tale rapporto significa mettere in discussione una

visione della storia eurocentrica che rimonta, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, al diritto romano e poi al giusnaturalismo che hanno tentato di cristallizzare la divisione tra uomo libero e schiavo. La realtà delle fonti storiche però è molto più eterogenea, quanto lo sono le tratte, le differenti geografie e molteplicità di status. Proprio a partire dalla tassonomia possiamo comprendere quanto variegato sia il panorama della schiavitù mediterranea. Lo schiavo sin dalle origini è quasi sempre uno straniero. Inizialmente in Europa compare con il termine sclavus a partire dai territori dell’impero bizantino e germanici, poi si sposta nelle città commerciali italiane. A

599 Ivi, p. 164. 600 Ibidem. 601 Ivi, p. 165. 602 Ivi, p. 166.

603 S. Bono, Schiavi. Una storia mediterranea (XVI-XIX secolo), p. 166.

604 M. Cottias, A. Stella, B.Vincent, (a cura di), Esclavages et dépendances serviles. Histoire comparée, p.

partire dal X secolo, al di là dell’origine geografica, il termine entra a far parte del vocabolario comune sulla schiavitù e rappresenta lo schiavo in termini giuridici. Sulle galere italiane, ma anche francesi del XVII-XVIII secolo, invece, il termine che iniziamo a scorgere è “turco”, sinonimo di schiavo. Inoltre, con l’inizio della tratta atlantica nel XVI secolo, entra nel vocabolario comune anche il termine “negro” come sinonimo di schiavo. All’origine la schiavitù non si ricollegava alla “razza” che divenne una concettualizzazione posteriore. 605 In tal senso il razzismo giocò un ruolo

fondamentale perché essendo diventato una componente essenziale dell’istituzione schiavistica, non solo nel mondo occidentale, conteneva una dimensione assolutizzante a partire dal XVIII secolo che giustificava un sistema di relazioni economiche e la non legittimità di proprietà per i considerati inferiori secondo natura. Il razzismo fu precondizione, condizione dello schiavismo ma ebbe il suo ruolo sociale anche dopo gli abolizionismi. Un nero libero anche dopo le abolizioni era sempre un nero, teoricamente giuridicamente uguale agli altri cittadini, nella realtà escluso dai pieni diritti.606

Il razzismo europeo ebbe una matrice filosofica, oltre che scientifica, se pensiamo ad alcune sfaccettature del liberalismo e al cosmopolitismo antecedenti il XIX secolo. Questa matrice dall’alto venne prima della diffusione del razzismo nelle società europee e del noto razzismo scientifico. Basti riflettere a un pensatore come Kant e alla teoria delle razze. Il concetto di razza nella riflessione kantiana è significativo per la ricostruzione congetturale della storia della natura, ma pare perdere di rilevanza in quella che definisce storia della libertà, ovvero la storia umana e politica. Negli scritti politici, la suddivisione del genere umano in razze, la descrizione di una diseguaglianza naturale strettamente fisica, non assume una rilevanza politica. La comparsa del concetto di razza nasce dall’esigenza di sistematizzare un settore della geografia fisica confuso e incoerente, e di contestare la teoria poligenetica. Kant, parlando di razze, non voleva giustificare forme di oppressione o lo schiavismo, anche se alcune parti possono indurre a pensare il contrario.607 Per Kant i neri e bianchi non sono diverse specie di uomini

poiché appartengono ad un solo ceppo, ma invece due diverse razze, perché ognuna di esse si perpetua in ogni regione della Terra. Per il filosofo di Könisberg, il genere umano

605 Ivi, p.13.

606 G. Turi, Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età moderna a oggi, Roma-Bari,

Laterza, 2012, p. 17. Sul problema del passaggio dalla schiavitù al lavoro forzato si veda C. Flory, De

l’esclavage à la liberté forcée. Histoire des travailleurs africains engagés dans la Caraïbe française au XIXe siècle, Paris, Karthala, 2015, p. 31

607 M. Lalatta Costerbosa, Kant e la teoria delle razze, in «Filosofia Politica», XVII, n. 3, dicembre 2003,

sarebbe suddiviso in quattro razze: la razza dei bianchi, la razza nera, la razza unna e la razza indù. Il criterio alla base della suddivisione è il colore della pelle. A determinare la diversità vi sarebbero fattori esterni come aria e sole, il clima e l’alimentazione. La teoria monogenetica kantiana dunque riconosce un unico ceppo originario e giunge, ricorrendo all’influenza del clima, a giustificare la formazione di razze diverse. Il contenuto delle sue lezioni sulle razze si inserisce all’interno della sua concezione della storia come storia universale teleologica in costante progresso verso il meglio. L’intrecciarsi di cause fisiche, che portò alla nascita delle razze, e il disegno della natura kantiano aiutano a spiegare alcuni pregiudizi molto diffusi nella sua epoca. La razza nera e rosso rame sono le maggiormente criticate. L’uomo di colore è ben adatto al suo clima, cioè forte, muscoloso, agile ma a causa dell’abbondanza di prodotti naturali della sua terra natia è pigro, molle e indolente. Anche il caraibico, definito incrocio tra razza africana e americana, è oggetto di un giudizio spregiativo perché “vive alla giornata” senza preoccupazioni.608 Kant contrappone l’uomo europeo, sempre teso a migliorarsi e

facilmente sofferente di noia, al caraibico libero da questo fastidio. Il caraibico non soffre della mancanza di stimolo. Kant pensa invece che gli americani siano semispenti, a causa dei luoghi freddi. L’inferiorità dunque non è sostanziale, ma sembra dipendere da fattori ambientali esterni. Il caraibico viene poi paragonato al lettore bianco di gusto raffinato, frivolo e senza pensieri.609 Sembra che il caraibico e il lettore bianco frivolo si

trovino sullo stesso piano, deficitando di civiltà, al di là della razza. Kant incarna le contraddizioni di un secolo che vide l’affermarsi dello schiavismo insieme alla rivendicazione teoria e storica dei diritti individuali. In alcuni passaggi afferma decisamente l’inferiorità dei neri, dunque la valenza disegualitaria del suo pensiero non è da sottovalutare. L’universalismo kantiano non trova una via di uscita per il superamento di tale contraddizione. Anche se la prospettiva universalista è ben presente negli scritti kantiani, la componente disegualitaria fondata sulla natura o da fattori economico-sociali non è contrastata abbastanza fortemente dalla sua teoria dei diritti.610

In merito a Hume e al razzismo, le parole del filosofo dibattute per cercare di comprendere quale sia il legame tra il suo pensiero e il concetto di razza e le differenze umane riguardano le note del saggio “Of National Characters” apparse inizialmente nel 1748 e successivamente nel 1753. Nelle note il filosofo scozzese si pronunciò così:

608 Ivi, pp. 390-391. 609 Ivi, p. 392. 610 Ivi, p. 394.

I am apt to suspect the negroes, and in general all the other species of men (for there are four or five different kinds) to be naturally inferior to the whites. There never was a civilized nation of any other complexion than white, nor even any individual eminent either in action or speculation.611

Da tali parole è sorta una querelleper la quale alcuni pensatori definiscono Hume razzista, altri lo definiscono non razzista. La frase va certamente contestualizzata. Per Hume la natura umana era composta da principi uniformi, le differenze erano piuttosto date da cause accidentali e fattori storici, ancora da convenzioni morali umane e pratiche. Gli stereotipi e caratterizzazioni che Hume individua non riguardano solo le differenze nazionali ma anche i sessi, le età, le professioni. Tali differenze non erano esplicate in modo deterministico secondo differenze climatiche, come una lunga tradizione aveva portato avanti e di cui facevano parte Montesquieu e Buffon, ma in termini di moral causes.612 Per Hume anche ricchezza e povertà erano cause morali,

quindi la povertà degli abitanti del nord del globo era allo stesso livello dell’indolenza degli abitanti del sud del globo. L’indolenza degli abitanti dei paesi tropicali veniva motivata da cause naturali come l’abbondanza dei prodotti. Inoltre se una caratteristica non persisteva dopo generazioni non poteva definirsi razziale, il razzismo di Hume era poi manifesto anche in riferimento alle differenze tra Nord e Sud della Gran Bretagna quindi non in riferimento esclusivamente all’Africa. Infine Hume talvolta sembrava riferirsi a distinzioni di classe e non propriamente razziali. In ogni caso gli schiavi “neri”, anche quando cambiavano le circostanze, non riuscivano a emanciparsi quindi la differenza tra i bianchi e le altre “specie umane” erano razziali.613 Per Robert Palter vi

fu poi un’evoluzione nel pensiero di Hume per cui non può essere accusato di essere razzista dai posteri. Prendendo una versione della nota del saggio posteriore (1776) e pubblicata postuma, scrisse in riferimento ai neri: The scarcely ever was a civilized

nation of that complextion invece dell’espressione never presente nella versione

precedente.614 Dunque secondo Palter, Hume aveva ammesso che anche le persone di

colore avevano civilizzazioni, seppur inferiori a quelle dei bianchi. Inoltre Palter nota

611 A. Garrett, S. Sebastiani, David Hume on Race, in corso di pubblicazione in N. Zack, ed., The Oxford

Handbook of Philosophy of Race, su Academia draft, (permesso dell’autore per la citazione), p. 1.

612 Ivi, p. 7. 613 Ivi, p. 12.

614 R. Palter, Hume and Prejudice, in «Hume Studies», vol. XXI, number 1 (April 1995), pp. 3-24, qui p.

che negli studi su Hume, prima si utilizzavano solamente espressioni per definire