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2. IL POTERE DI RIQUALIFICAZIONE DEL FATTO.

2.3. SIGNIFICATI E STORIA DEL BROCARDO IURA NOVIT CURIA

2.3.1. DALLE ORIGINI DEL BROCARDO AL DIRITTO MODERNO

96 Infatti, quando il brocardo ha assunto la fisionomia attuale, probabilmente attorno al XVI secolo (v. sottopar. successivo), il motto latino era usato per indicare <<la regola della sottrazione delle fonti giuridiche alla disponibilità delle parti>>. ( CAPONE, op. cit., p.20).

97 PUNZI, C. op. cit. p. 3. 98 QUATTROCOLO, ibidem.

99 Sul punto v. supra, amplius, par. 2.2. 100 Sul punto v. QUATTROCOLO, ibidem. 101 Capone, op. cit., p.13.

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I prodromi del brocardo iura novit curia sono verosimilmente da farsi risalire al diritto romano tardo imperiale.102 Diversamente da quanto avveniva nel processo del cd. periodo formulare,103infatti, il giudice, magistrato togato, aveva pieni poteri non solo nella individuazione delle fonti normative ma anche nella determinazione della norma. In particolare, le parti procedevano alla recitatio delle fonti legislative e delle opinioni dei giuristi,104 ma il giudice non era affatto vincolato ad esse, come testimonia una Costituzione imperiale contenuta nel Codex giustinianeo105 che riprendeva due Rescritti imperiali di Diocleziano e Massimiano: <<non dubitandum est judici, si quid a

litigatoribus vel ab his qui negotiis adsistunt minus fuerit dictum, id supplere

102 In questo senso, tra gli altri, CAPONE, op. cit. p. 17 e PUNZI, C, op. cit., p. 30. In precedenza desta, per altro, un certo interesse l’esperienza del diritto ateniese dell’età classica, su cui si sofferma, diffusamente, PUNZI, C, op. cit., p.25 e ss. Benché, infatti, le categorie giuridiche fossero, all’epoca, ancora troppo poco raffinate per raggiungere il grado di complessità necessario a discernere con esattezza i rapporti tra giudice e parti e tra tali soggetti ed il diritto, era avvertita l’esigenza di predisporre un sistema adeguato di reperibilità delle fonti normative per favorire la conoscibilità del diritto. A questo scopo, <<ogni anno […] il collegio dei nove arconti, i Termoteti, sottoponevano le leggi ad un’accurata revisione per accertare se in esse vi fossero contraddizioni, se vi fosse l’equivoco di più disposizioni regolanti la stessa fattispecie, se, infine, fossero considerate ancora in vigore leggi che avessero ormai perduto la loro validità. Il risultato dei lavori dei Termoteti veniva quindi reso pubblico mediante apposite affissioni, che agevolavano la conoscenza del sistema delle leggi vigenti>>. ( così, PUNZI, C., op. cit. p. 26)

103 Nel quale il iudex giudicava sulla base del principio di diritto fissato dal praetor, anche con l’assistenza di giuristi. Cfr. ( PUNZI, C., op. cit. p. 28 ).

104 Già in era repubblicana CICERONE nel De oratore, citava tra le prove inartificiales o

ατέχνα (esterne alla retorica e contrapposte alle prove artificiales o interne alla retorica o

εντέχνα) << sia autentici mezzi istruttori sia documenti che costituivano fonti del diritto>> ( CAPONE, op. cit. p. 13) In particolare nell’elencazione ciceroniana si trovano: tabulae,

testimonia, pacta conventa, quaestiones, leges, senatus consulta, res iudicatae, decreta, responsa. Si deve però dire che questa frammistione sembra un tratto caratterizzante del solo

pensiero ciceroniano visto che né ARISTOTELE nell’Arte retorica né QUINTILIANO

nell’Istitutio oratoria, riportano, tra le prove, le fonti del diritto. V. amplius, CAPONE, op.

cit., p.13.

105 Corpus Iuris Civilis, Cod., II, Tit. X . Il passo compare anche in Dig. II, Tit. I con talune, anche se marginali, differenze lessicali: <<non dubitandum est judicem, a litigatoribus vel ab

his qui negotiis assistunt si minus fuerit dictum id supplere et proferre quod sciat legibus et iuri publico convenire>>. Non ne cambia, però, il significato, per cui, letteralmente, il passo

suona: <<non bisogna dubitare che il giudice, qualora dai litiganti o da coloro i quali legalmente assistano al processo, sia stato detto di meno, possa supplire ed addurre ciò che egli sappia essere di pertinenza legge ed il diritto pubblico>>. In modo più elegante: <<non è in dubbio che, in caso di omissioni addebitabili alle parti od ai loro difensori, il giudice possa integrare le allegazioni in diritto>>.

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et proferre quod sciat legibus et jure publico convenire. [stampatello nostro]>>.106

Il passo del Corpus Iuris esercitò sui giuristi medievali grande influenza. I glossatori, particolarmente attenti allo studio dei poteri esercitabili dal giudice

ex officio, accolsero la tesi secondo cui il giudicante potesse supplire alle

carenze argomentative delle parti sui profili giuridici della questione ed esclusero l’esistenza di un vero e proprio onere della prova del diritto.107 Tale orientamento venne condensato nella massima ius non eget probatione. 108 Inoltre, si affermò l’idea per cui per le fonti scritte non fosse necessaria alcuna produzione ma solo una mera allegazione, alla cui assenza, comunque, il giudice avrebbe potuto sopperire con integrazione officiosa. 109 Appare comunque chiaro che, già nel tardo medioevo, il canone ius non eget

probatione, che può dirsi parzialmente prodromico alla massima iura novit curia, esprimesse l’assunto per cui il principio in forza del quale il giudice

dovesse decidere iuxta alligata et probata partium attenesse solo al factum e non allo ius, proprio perché ius non est probandum. E fu proprio in questa cornice che il brocardo iura novit curia iniziò a formarsi, quasi, potremmo dire, per approssimazioni successive. Con tutte le cautele del caso, infatti, si può affermare che il contesto di derivazione del detto debba individuarsi nel Consiglio del Re di Francia durante il regno di Luigi XII di Valois ( 1498- 1515) ove i giudici usavano ammonire gli avvocati che si dilungavano troppo nell’allegazioni delle fonti normative dicendo loro: <<venite ad factum, curia

satis illa intelligit>>, letteralmente: <<venite al fatto, il collegio comprende a

sufficienza le altre cose>>.110L’ammonimento aveva probabilmente una

106 Correttamente, già gli interpreti bizantini ritenevano che la disposizione giustinianea avesse riconosciuto al giudice il potere di integrare le deficienza giuridiche delle allegazioni delle parti, ma non quello di supplire ex officio alle omissioni concernenti il fatto. Cfr. LIVA,

Il iudex pedaneus nel Processo privato romano: dalla procedura formulare alla cognitio

extra ordinem, EDU Catt., Milano, 2012, p. 103 nt. 60. 107 In questo senso, CAPONE, ibidem.

108 <<Il diritto non richiede prova […] Onde le argomentazioni in iure sono sempre inutili o superflue; se volte a confermarlo, superflue: se dirette a screditarlo, inutili>>. SCACCIA,

Tractatus de iudiciis causarum civilium, criminalium et hereticalium, lib. II, cap. VII, q. 6,

§204, ed. Francoforte e Lipsia, 1669, pp. 188-189, cit. nel testo latino originario da CAPONE,

op. cit., p. 14.

109PUNZI, C., op. cit., p. 33. Conf. CAPONE, ibidem. l’onere della prova tornava, invece, ad incombere sulla parte che avesse invocato fonti di difficile reperibilità quali: <<statuti di città diverse da quella sede del giudizio, disposizioni extravagantes, consuetudini>> (CAPONE., op. cit., p. 15).

110 Cfr. CAPONE., op. cit., p. 18. La fonte citata dall’A. è un giurista dell’epoca, membro del Supremo Collegio: Nicolas Bohier (1469-1539).

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dimensione reverenziale;111 gli avvocati, cioè, non erano tenuti ad intrattenersi troppo con questioni giuridiche perché, in questo modo, mettevano velatamente in dubbio la capacità del Collegio, e quindi anche del Re, di comprendere il senso delle norme. Pochi anni dopo, l’adagio veniva ripreso, con una formula parzialmente diversa (<<Venite ad factum, curia satis

intelligit iura>>) dal giurista tedesco Ioachim Mynsinger (1514-1588) il quale,

però, lo ricollegava, più che ad una dimensione reverenziale, ad un’esigenza di speditezza: i giudici avrebbero esortato, insomma, gli avvocati a non far perdere loro tempo con questioni che essi ben conoscevano. Il primo autore a connettere formalmente la massima con l’insegnamento giustinianeo fu, però, l’olandese Arnold Vinnen ( 1588-1657) che, anzi, usava la frase del Mynsinger, nella formulazione, sempre più vicina all’attuale, <<venite ad

factum, curia novit ius>>, per giustificare che ormai fosse prassi comune dei

giudici supplire d’ufficio alle carenti allegazioni in iure delle parti, esattamente come prevedeva il Corpus Iuris. Da quel momento la formula sarebbe entrata nel lessico comune dei giuristi e, per comodità, si iniziò ad ometterne la prima parte, venite ad factum, per citarne solo la seconda, curia

novit ius. Da qui alla formulazione attuale il passo fu breve; per agevolare la

memorizzazione del detto, si sfruttò la rima tra il sostantivo curia ed il plurale del termine ius, iura, e si invertì la posizione nella frase dei due vocaboli. Mnemonicamente, i giuristi avrebbero iniziato a dire: iura novit curia. Le due accezioni della massima erano, comunque, già entrambe presenti ed intimamente intrecciate. Il giudice non aveva bisogno che le parti gli fornissero le fonti normative che egli, anzi, poteva e doveva autonomamente reperire; così come non era vincolato dalle interpretazione che attore e convenuto gli offrissero di quelle fonti, potendo, rectius, dovendo determinare la norma da applicare al caso concreto. Questo secondo significato del detto, come anticipato, venne importato nel processo penale.

111 Anche se non può escludersi che nell’emersione della formula avessero influito ragioni politiche. Il Corpus Iuris, infatti, veniva visto come promanazione dell’antica autorità imperiale, di cui il Sacro Romano Imperatore di nazione germanica si riteneva diretto successore; il Re di Francia, intenzionato a svincolarsi dall’auctoritas imperiale, aveva, perciò, tutto l’interesse a favorire, quasi in una prospettiva vetero nazionalistica, la diffusione delle fonti consuetudinarie, espressione di un particolarismo francese, a discapito delle fonti romane. Evidentemente, quindi, Re Luigi non doveva vedere con favore i discorsi degli avvocati che allegassero i passi del Corpus Iuris.

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2.3.2. IURA NOVIT CURIA NEL PROCESSO PENALE: DALLE