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2. IL POTERE DI RIQUALIFICAZIONE DEL FATTO.

2.1. LA RIQUALIFICAZIONE GIURIDICA DEL FATTO

Tradizionalmente il potere di riqualificazione giuridica del fatto è indicato con il noto brocardo latino2 iura novi curia, traducibile, all’immediato, come <<il giudice conosce il diritto>>.3 Se il giudice è iuris peritus, si dice, egli <<ha il potere - dovere di individuare, anche di sua iniziativa, e di applicare ai fatti dedotti ed accertati, le norme giuridiche che, secondo il diritto vigente ed in base alle regole sull’efficacia della legge nello spazio e nel tempo, debbano disciplinare i fatti stessi>>.4 Conseguentemente, qualora il fatto storico addebitato all’imputato dovesse essere sussumibile in una fattispecie penale incriminatrice diversa da quella identificata dall’organo dell’accusa,5 il giudice, all’atto della decisione, non avrebbe solo il potere ma addirittura il

1 Anche se non mancano le questioni aperte e problematiche; come ha notato QUATTROCOLO, Riqualificazione del fatto, op. cit. p. 28, quando si trattano questi temi, si ha

la <<sensazione […] di trovarsi di fronte ad un assioma, all’espressione di una semplice rilevazione oggettiva della realtà, rispetto alla quale difettano strumenti di dubbio e di critica>>. Come si vedrà, invece, così non è.

2 Sulle cui origini e significati, vedi infra ed amplius , paragrafo successivo

3 In questo senso, ex plurimis, CAPONE, op. cit., quarta di copertina. Ma non è affatto scontato, come si vedrà, che la massima abbia, solo o principalmente, il senso che le si vuole comunemente attribuire. Sul punto v., paradigmaticamente, PUNZI, C., Jura novit curia,

Giuffrè Editore, Milano, 1965, p. 2-3.

4 PIZZORUSSO, voce “Iura novit curia”. Ordinamento italiano, in “Enciclopedia giuridica”, XVIII, Roma, 1990.

5Il pubblico ministero, in quanto titolare del potere d’esercizio dell’azione penale, è chiamato per primo ad individuare il titolo di reato. In questo senso già LOASSES, Della definizione

giuridica del fatto – reato e suoi effetti, in “ Rivista penale”, 1948, p. 486. L’A. fa inoltre

notare che <<è ovvio che la richiesta non può essere per un reato indeterminato, ma deve invece specificatamente precisare quale è il titolo del reato pel quale si procede>>.

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dovere6 di <<dare al fatto quel titolo di reato che egli crede valga a definirlo con maggiore esattezza>>.7 E tale dovere discenderebbe dalla posizione istituzionale del giudice, in special modo dal canone della soggezione alla legge, espresso dall’art. 101, II, Cost. 8 e dal principio di legalità. Questo, in estrema sintesi,9 il substrato concettuale su cui si fonda la teoria della riqualificazione officiosa del fatto10 e che si è ipostatizzato nell’attuale art. 521, I, c.p.p. ai sensi del quale <<nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza né risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica>>. Peraltro, e coerentemente con queste affermazioni, la giurisprudenza è granitica nel ritenere l’art. 521, I, c.p.p. null’altro che il punto di emersione di un principio di portata generale, connaturato alla stessa funzione giurisdizionale11 ed ha quindi pacificamente affermato che, anche in assenza di precisi indici normativi, <<pure la Corte di cassazione […] ] e la Corte d’appello hanno il potere di modificare l’inquadramento giuridico del fatto […] , anche in chiave peggiorativa, con l’unico limite del divieto di

reformatio in pejus del dispositivo della sentenza, nella parte relativa alla

6 In questo senso, tra gli altri, GIARDA e SPANGHER ( a cura di), Commento all’art. 521

c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, IPSOA, IV Edizione.

7 LOASSES, op. cit.,p. 490.

8 In questo senso, tra gli altri, PIZZORUSSO, ibidem. A proposito dell’ art. 101, II Cost., con efficace sintesi ILLUMINATI, Costitizione e processo penale, op. cit. nota che <<i giudici hanno il dovere di applicare la legge, pure se non la condividono; ma resta libera l’interpretazione delle norme - nel nostro sistema non esiste alcun vincolo al precedente, anche il più autorevole – e ciascun giudice vi procederà secondo il proprio autonomo convincimento e la propria competenza giuridica>>.

9 Sul punto, v. amplius par. 2.5.

10 Gli assunti sintetizzati nel testo sono da tempo presenti in dottrina. V., nella vigenza del codice di procedura penale del 1865, FARANDA, Il titolo del reato. Parte prima. L’azione,

Tipografia C. Galatola, Catania, 1885, p. 330 che così scriveva: <<La regola generale parmi questa: il TITOLO DEL REATO [maiuscolo dell’A., ndr.], ritenuto nell’atto di Citazione da qualunque parte provenga, od affermato nelle Ordinanze di rinvio, non lega mai il Magistrato di merito il quale può affermarne uno completamente diverso; sia per ragion dell’indole del fatto, sia per ragion della pena che il Giudice dichiara applicabile. Dalla quale regola giova dedurre le conseguenze, secondo la varia Competenza delle Magistrature di merito>>. 11 <<All’organo giurisdizionale è sempre consentito attribuire un diverso nomen juris alla vicenda materiale per cui si procede>>. Così, GIARDA e SPANGHER, ibidem. Conf.

CENTAMORE, L’applicazione dei principi dell’art. 6 CEDU in materia di riqualificazione

giuridica del fatto: fra orientamenti “tradizionali” e nuove prospettive. Nota a Cass. Pen. Sez II, n. 1625/2013, Pres. Macchia, Rel. Rago, in www.penalecontemporaneo.it , p. 3: <<la riqualificazione giuridica del fatto costituisc[e] potere intrinsecamente devoluto alla giurisdizione>>.

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qualità ed alla quantità della pena inflitta e ai benefici concessi>>.12 Ora, tali affermazioni sono molto diffuse in dottrina e parrebbero, prima facie, pacifiche ed indiscutibili, quasi rilevazioni di una realtà oggettiva.13 In realtà, però, le cose sono ben più complesse di quanto appaiano. Innanzitutto, il contesto di derivazione del principio iura novit curia non è processualpenalistico ma processualcivilistico e già questo rende necessario verificare quali siano i presupposti, i limiti e le condizioni per un’esportabilità della massima in un settore diverso da quello originario.14 Nel processo civile, infatti, lo iura novit curia, nasce e si afferma, secondo quanto si vedrà meglio, come una deroga parziale all’operatività del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato,15 principio che governa questo tipo di processo. Nel

processo civile, difatti, l’attore, così come può scegliere liberamente se agire

in giudizio a tutela dei propri diritti ai sensi dell’art. 99 c.p.c., ha il monopolio in ordine alla determinazione del tema decisionale16 e, quindi, anche in relazione all’inquadramento giuridico della domanda; sicché l’applicazione integrale, estesa ai profili di diritto, del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, dovrebbe far si che <<ogni minima imperfezione giuridica della domanda ne comportasse invariabilmente il rigetto>>.17 In linea teorica, una soluzione del genere sarebbe del tutto logica e compatibile con il quadro costituzionale vigente, in quanto non determinerebbe <<lesioni del principio di legalità, né indebolirebbe il sovrano esercizio della funzione giurisdizionale>>.18 Se così non è, e se si ritiene pacificamente che il giudice civile possa riqualificare la domanda, è per una precisa scelta di politica del diritto, improntata al favor actionis. Constatatosi che i privati <<potrebbero essere del tutto inesperti di diritto o – perché no? – essere assistiti da professionisti non particolarmente raffinati>>19 e che un sistema processuale rigidamente ancorato al rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e

12 GIARDA e SPANGHER, ibidem. Per il giudizio d’appello, comunque, come si dirà, un appiglio testuale abbastanza saldo è costituito dall’ art. 597 c.p.p. Su tali punti si tornerà

infra.

13 V. supra nota 1

14Sul punto v., anche, infra, par. 2.3. 15 CAPONE, op. cit. p. 137

16 In questo senso, CAPONE, op. cit. p. 22. 17 CAPONE, op. cit. p. 25.

18 CAPONE, ibidem. L’A. continua precisando che <<[l’applicazione integrale del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ndr.] impedendo ogni supplenza ex officio e traducendosi in concreto nel rigetto delle domande giuridicamente poco agguerrite, sarebbe funzionale solo a garantire la “passività”, e cioè la terzietà e 1’imparzialità, del giudice>>. 19 CAPONE, ibidem.

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pronunciato anche in relazione alle questioni di diritto, <<finirebbe per presentarsi agli occhi dei cittadini come una fortezza impenetrabile e tradirebbe il suo fondamentale scopo di giustizia>>, 20 il legislatore ha ritenuto preferibile stabilire che l’ordinaria ripartizione dei poteri tra il giudice e le parti venisse derogata in relazione alla definizione e alla prova del fondamento giuridico della domanda,21 consentendo al giudice di correggere l’errata individuazione della norma invocata, senza costringere l’attore, con inutile formalismo, a <<riproporre più volte l’azione finché non perven[isse] all’inquadramento giuridico preferito dal giudice>>.22 Da questa ricostruzione,

allora, si comprende perché <<l’origine e la cristallizzazione dell’ambito operativo delle regole veicolate dalla massima iura novit curia>>23 siano

concepibili soltanto entro la struttura di un processo in cui operi il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.24

Ciò significa, all’opposto, che nel processo penale, finché sono stati adottati modelli di tipo autenticamente inquisitorio,25 sono mancati i presupposti logici e giuridici per l’applicazione del canone iura novit curia.26 Non sussistendo un rapporto di alterità tra magistrato inquirente e magistrato giudicante, non avendo il procedimento struttura bifasica e non essendoci, soprattutto, alcun vincolo di corrispondenza tra oggetto della domanda punitiva ed oggetto della decisione, tanto il contenuto fattuale quanto quello giuridico dell’imputazione potevano ( e possono nei sistemi ove ancora viga questo paradigma processuale) essere mutati ad libitum, o quasi, in sentenza.27 Le cose, però, sono cambiate a partire dall’adozione, nell’Ottocento, dei sistemi misti,28quando, cioè, ha cominciato ad affermarsi l’idea per cui <<il processo consiste nel giudizio su una previa accusa. Il giudice, di conseguenza, non può pronunciarsi se non su ciò che gli è richiesto di giudicare. Il principio

20 CAPONE, ibidem.

21 Cfr. CAPONE, op. cit. p. 26.

22 CAPONE, op. cit. p. 25. D’altronde, secondo l’autorevolissimo insegnamento del PUNZI C.

op. cit., p. 154 <<il giudice deve respingere la domanda […] quando si convince che non vi è

una norma che giustifichi la pretesa o l’eccezione fatta valere dalla parte>>. Conseguentemente, afferma CAPONE, ibidem, <<al privato tendenzialmente si richiede

soltanto di allegare, e provare i fatti che costituiscono il fondamento della sua domanda>>. 23 CAPONE, op. cit. p. 26

24 CAPONE, ibidem

25 In questo senso, ancora, CAPONE, op. cit. p. 137.

26 <<In quel modello [inquisitorio, ndr.] non troviamo nessuno dei dati strutturali che consentono l’innesto della massima>>. Così, CAPONE, ibidem

27 CAPONE, ibidem

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generale che regola il rapporto tra domanda di parte e poteri del giudice è dunque quello di correlazione tra accusa e sentenza>>.29 Poiché, dunque, l’individuazione del profilo giuridico dell’imputazione spetta prioritariamente al pubblico ministero nell’atto di promovimento dell’azione penale, se si dovesse ragionare con una ferrea logica processualcivilistica di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, <<in teoria, il rimedio fisiologico per gli errori del ministero nella prospettazione dei profili giuridici dell’accusa, così come nella descrizione del fatto, sarebbe costituito dall’assoluzione>>.30 Ma se già, come si è visto, nel processo civile la soluzione del rigetto della domanda errata in

iure, non è stata seguita, perché ritenuta foriera di eccessivi costi, sia in

termini di tempo che di risorse, essa, a fortiori, non è stata sposata nel processo penale. Oltre alle citate esigenze di economia processuale, comuni ad entrambi i processi, infatti, per quest’ultimo si è posto un ulteriore ostacolo all’accoglimento di tale opzione: mentre l’attore in un processo civile potrebbe riproporre la domanda inizialmente rigettata in punto di diritto, “aggiustando il tiro” del tema giuridico, al magistrato dell’ accusa tale possibilità non è concessa. Ad opporvisi è l’art. 649 c.p.p., divieto di un secondo giudizio, ai sensi del cui primo comma, <<l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo [corsivo nostro], per il grado o perle circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69, comma 2, e 345>>.

Qualora, dunque, di fronte ad un’erronea qualificazione giuridica del fatto il giudice avesse dovuto pronunciare l’assoluzione, il pubblico ministero non avrebbe potuto più esercitare una nuova azione penale, nemmeno se opportunamente corretta, perché si sarebbe trattato del medesimo fatto

diversamente considerato per il titolo. Verosimilmente, allora, il legislatore ha

reputato che la via del rigetto della domanda del pubblico ministero errata in punto di diritto, con conseguente proscioglimento dell’imputato, avrebbe eccessivamente frustrato le esigenza di prevenzione generale, sottese al sistema penale e, coerente con tale prospettiva, ha ritenuto in questi casi di attribuire al giudice il potere di riqualificare il fatto. E’chiaro, quindi, come la previsione per cui il giudice possa mutare sua sponte il nomen iuris attribuito dal magistrato requirente, non abbia natura consustanziale all’esercizio della giurisdizione penale, non sia sorretta dal dogma della necessità, non sia la

29 CAPONE , op. cit. p. 137. 30 CAPONE, ibidem.

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promanazione di un dato metagiuridico, come spesso si legge, ma, costituisca, semplicemente, una scelta di politica del diritto, motivata da determinati presupposti assiologici.31 Una scelta, si aggiunge, permeata da un certo qual

favor actionis, perché la rigorosa applicazione dei principi costituzionali che

attualmente governano il processo penale, quali su tutti la parità delle parti, avrebbe potuto, forse, condurre, in sua assenza, ad un esito radicalmente diverso: l’assoluzione dell’imputato. Certo, con ciò non si vuole dire che l’applicazione del canone iura novit curia sia incompatibile con il quadro valoriale del giusto processo, né questo lo ha affermato la Corte di Strasburgo, secondo quanto si è visto nel primo capitolo. Si intende però precisare che, se si inquadra correttamente la dimensione della regola - e cioè si riconosce che essa è l’espressione di una preferenza per un’opzione più svantaggiosa per l’imputato rispetto all’altra via astrattamente possibile, l’assoluzione per essere stata l’azione giuridicamente impostata scorrettamente in diritto - viene più facile comprendere come sia, almeno di buon senso,32 prevedere opportuni strumenti di tutela del diritto di difesa in caso di riqualificazione. Come anticipato, però, la scelta del legislatore del 1988 è stata diversa, quantunque nel corso dei lavori preparatori si fosse riconosciuto il pericolo che una

immutatio nominis in sentenza ed a sorpresa avrebbe potuto arrecare un

qualche pregiudizio all’imputato. In particolare, la Relazione al progetto preliminare del Codice di Procedura Penale del 198833 ha precisato che la scelta di non prevedere <<una correlazione obbligatoria fra la decisione sul tema giuridico dell’accusa e le conclusioni del pubblico ministero>> avrebbe <<indubbiamente sacrifica[to] in qualche misura le esigenze della difesa, in particolare per il caso che la diversa qualificazione giuridica implichi una pena

31 Infatti, non si tratta affatto di una decisione obbligata ma culturalmente determinata dal particolare modo di concepire i rapporti tra lo Stato ed i suoi cittadini. In alcuni ordinamenti, infatti, si persegue l’opposta via dell’assoluzione, ritenendosi che il sol fatto che un soggetto subisca gli inevitabili disagi derivanti da un processo penale per un fatto erroneamente qualificato, sia motivo sufficiente per inibire a carico di quel soggetto ogni futura iniziativa della pubblica accusa in eadem re: se il pubblico ministero ha inquadrato male in diritto la domanda penale, sibi imputet.

In Italia, e in altri ordinamenti dell’Europa continentale, invece, prevale l’idea per cui, se un determinato fatto materiale penalmente rilevante è stato commesso da un soggetto, questi non possa trarre vantaggio da eventuali errori della pubblica accusa nel posizionamento del tema giuridico dell’accusa e si consente quindi al giudice di porre rimedio a tali errori,

riqualificando il fatto.

32 Al netto delle riflessioni sui principi desumibili dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU su cui

supra cap.1 e infra cap.3.

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più grave>> Ciò nonostante si è ritenuto opportuno <<confermare la regola tradizionale, considerato che le richieste del pubblico ministero, anche nel nuovo sistema, non sono vincolanti per il giudice, che può pronunciare extra

petita>>. L’opzione per la soluzione tradizionale è stata motivata in base alla,

presunta, impraticabilità delle opzioni alternative, ossia, di <<una disciplina costruita in modo analogo a quella concernente la contestazione del fatto diverso (iniziativa del pubblico ministero, termine a difesa, eventuale trasmissione degli atti); ovvero [del]la previsione di un dovere del giudice di rendere nota preventivamente la decisione di modificare la qualificazione giuridica, consentendo la discussione sul punto>>. Per il legislatore, infatti, <<entrambe le soluzioni avrebbero […] comportato un dispendio di attività probabilmente eccessivo, e il rischio, in pratica, indurre il giudice a conformarsi in ogni caso al nomen iuris contestato>>. Ora, al di là di ogni considerazione sulla apprezzabilità delle scelte compiute dal legislatore e sulla condivisibilità delle argomentazioni volte a giustificarle,34 è evidente che esse si fondano sull’assunto per cui fatto e diritto sarebbero <<elementi ascrivibili a piani radicalmente distinti>>.35 Si impone, dunque, la necessità di vagliare la fondatezza teorico/dogmatica di tale tesi, su cui si fonda, in ultima analisi, l’attività di riqualificazione giuridica del fatto.