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IURA NOVIT CURIA NEL PROCESSO PENALE: DALLE CODIFICAZIONI OTTOCENTESCHE AL CODICE DI PROCEDURA

2. IL POTERE DI RIQUALIFICAZIONE DEL FATTO.

2.3. SIGNIFICATI E STORIA DEL BROCARDO IURA NOVIT CURIA

2.3.2. IURA NOVIT CURIA NEL PROCESSO PENALE: DALLE CODIFICAZIONI OTTOCENTESCHE AL CODICE DI PROCEDURA

PENALE DEL 1988. RINVIO.

Si è ricordato supra 112 che l’applicazione al processo penale della massima

iura novi curia non è concepibile finché si adottino modelli procedurali di

stampo autenticamente inquisitorio. E’ così naturale che solo a partire dalle codificazioni primo ottocentesche si sia iniziato a discutere della posizione delle parti e del giudice rispetto alla quaestio iuris, avendo l’illuminismo giuridico radicato l’idea per cui imputato ha diritto di conoscere e difendersi da una previa accusa tendenzialmente stabile. L’affermazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza 113 spinse, però, al contempo, i legislatori via via succedutisi nel tempo ad interrogarsi sull’opportunità di consentire che l’erroneo inquadramento in iure della domanda penale potesse comportare il proscioglimento dell’imputato;114 il prevalere dell’opzione contraria, favorì la

scelta di conferire al giudice il potere di modificare in sentenza il nomen iuris del fatto di reato. La massima iura novit curia assunse, dunque, fin da subito, la dimensione di deroga al canone di necessaria corrispondenza fra accusa e decisione, mostrandosi, subito chiaro, come la tematica interessasse da vicino il diritto di difesa e fosse, dunque, particolarmente delicata.

E’ in questa cornice che si situò il Code d’ istruction criminelle francese del 1808 che pure dedicava alle modifiche dell’imputazione il solo art. 361. La norma impediva l’introduzione in giudizio di fatti “radicalmente” nuovi mentre consentiva al giudice di integrare il fatto dedotto nell’atto imputativo con <<tutti i fatti che ne fossero la riproduzione, che lo completassero e lo modificassero, che lo presentassero sotto un altro punto di vista e con altro carattere penale, che fossero lo svolgimento e i corollari dell’ accusa>>;115 sicché certamente consentita era anche l’operazione di riqualificazione del fatto.116 Dunque un quadro che permetteva in maniera abbastanza ampia le modifiche dell’imputazione ma che già riconosceva apertamente la tutela del

112 Par. 2.1.

113 <<Nelle codificazioni processuali penali ottocentesche cominciarono […] ad affermarsi l’obbligo di una precisa contestazione e la necessaria correlazione tra accusa e sentenza, che venivano generalmente considerati come premesse indispensabili per porre l’imputato al riparo da giudizi “a sorpresa”>>. Così, CAPONE, op. cit., p. 26.

114Cfr.CAPONE, op. cit., p. 28. V. amplius, supra par. 2.1.

115 HÉLIE, Traité de l’instruction criminelle, III, tr. it. Palermo – Napoli, 1863, p.264. 116 In questo senso CAPONE, op. cit. p. 31.

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diritto di difesa.117 Ancor più garantista era la legislazione del Gran Ducato di Toscana.118 Emblematico una sentenza della Cassazione fiorentina del 1860 <<niuno può essere obbligato a comparire in figura di reo presso il Tribunale ordinario, senza che gli si faccia in precedenza conoscere quale sia la legge che gli si obietti di avere violata; e che di regola la sentenza, che è la parte finale, debba corrispondere all’accusa, ch’è l’atto iniziative del giudizio, senza che possano immutarsi i termini della contestazione, e molto meno conculcarsi i diritti della difesa>>.119 Tuttavia, ancorché dal passo possa sembrare alludersi ad un principio di assoluta immutabilità dell’accusa, in realtà, la disciplina del Granducato era, sul punto, pressoché analoga a quella attualmente vigente in Italia, al netto, ovviamente, di talune marginali discrasie dovute alla diversità di epoche e contesti. 120 Dunque, assoluzione in caso di emersione durante il dibattimento di un fatto nuovo; contestazione suppletiva da effettuarsi ad opera della pubblica accusa se il fatto risultava diverso; e potere giudiziario di riqualificazione “a sorpresa”.121 Con l’unità d’Italia, veniva emanato nel 1865 il nuovo codice di procedura penale del Regno. Benché anch’esso di ispirazione sufficientemente garantista,122 il testo normativo era abbastanza lacunoso sul tema delle modifiche dell’imputazione,123 a parte la chiara previsione della necessità di un separato

117In questo senso si poneva l’art. 183 cod. istr. crim. 1808 che, prescrivendo l’enunciazione del fatto nella citazione diretta davanti al tribunale correzionale, <<aveva per solo scopo l’esercizio del diritto di difesa; dunque egli era mestieri che l’imputato fosse posto in grado di preparare i mezzi di difesa, che la citazione lo avvertisse dei punti su cui sarebbe stato attaccato, e gli indicasse i fatti che avrebbe dovuto esporre alla giustizia>> (HÉLIE, op. cit., p. 611)

118 Ordinamento storicamente sensibile alle istanze di modernizzazione del diritto penale; si pensi solo al cd. Codice Leopoldino del 1786.

119 CASS. FIRENZE 3 marzo 1860.

120 In questo senso, CAPONE, op. cit. , p. 32.

121Su quest’ ultimo punto inequivoca la sent. CASS. FIRENZE 7 agosto 1861: <<quando i fatti contestati all’imputato sotto il primitivo titolo di imputazione non subiscono, durante il pubblico dibattimento alcuna variazione, può e deve il Tribunale assegnare ad essi, il più conveniente titolo che la scienza e la legge prescrivono, senza neppure far precedere alcuna avvertenza o contestazione in proposito all’ imputato medesimo>>

122 Ad esempio, l’art. 373 c.p.p. 1865 prevedeva nell’ atto di citazione davanti al tribunale l’obbligo di enunciazione sommaria del fatto e l’indicazione dell’ articolo di legge che si assumesse essere stato violato. Secondo la condivisibile lettura di SALUTO, Commenti al

codice di procedura penale, IV, Torino, 1878, pp. 20-21 <<il convenuto non potrebbe

preparare i suoi mezzi di difesa, non potrebbe mettere in ordine le sue pruove senza sapere l’obbietto della azione che si voglia intentare, senza conoscere il fatto di cui vuolsi responsabile>>.

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esercizio dell’azione penale per procedere riguardo ad un fatto totalmente nuovo che fosse emerso durante il dibattimento. La dottrina e la giurisprudenza italiane si trovarono così di fronte alla necessità di sopperire in via interpretativa a tali carenze e nell’opera vennero assunti come proficua fonte di ispirazione taluni modelli stranieri, su tutte le codificazioni processuali austriaca e, soprattutto, tedesca.124 Quest’ultima, in particolare, stabiliva che: <<l’accusato non può essere condannato in virtù di una legge penale diversa da quella indicata nel decreto che prescrive l’apertura del dibattimento, ove non sia stato preventivamente avvertito in modo particolare della modificazione che avrà subito il punto di diritto, e se non è stato posto in condizione di presentare le sue difesa>>. Con una soluzione davvero moderna,125 il codice di rito penale dell’Impero germanico del 1879 riconosceva, dunque, in capo al giudice, il potere di riqualificare il fatto ma lo subordinava ad un onere di preventiva informazione sul nomen iuris che la Corte intendesse attribuirgli, al fine di consentire il pieno esercizio del diritto di difesa. Inevitabilmente influenzata dalla lezione tedesca, la dottrina italiana iniziò così un’opera di integrazione del carente dettato codicistico, sempre più informata ad istanze garantistiche, finendo, addirittura, per giungere ad approdi ancor più “liberali” di quelli conseguiti nel processo penale tedesco. Ma andiamo con ordine. Il codice del 1865 imponeva il ritorno all’istruzione solo nell’ipotesi in cui in corso di dibattimento fosse emerso un fatto nuovo integralmente sostitutivo di quello originariamente contestato ma lasciava del tutto nell’ombra quella che, con terminologia odierna, si definirebbe la disciplina del fatto diverso e della diversa qualificazione giuridica del fatto; anzi, esse parevano venire accomunate nell’ambigua categoria di “modificazioni non essenziali del fatto”. Occorre, infatti, come si dirà meglio, tenere accuratamente distinte le ipotesi in cui il giudice, a fatto invariato, ritenga che la qualificazione operata dal pubblico ministero sia errata o, comunque non condivisibile, e che cioè, quel fatto, vada sussunto sotto un’altra fattispecie ad esso congrua, dall’ipotesi in cui in dibattimento il fatto

124 Se in ogni epoca gli operatori del diritto tendono a guardare alle soluzioni adottate in altri ordinamenti, lo scambio culturale fu qui favorito in modo speciale dai frequenti interventi di giuristi stranieri sulle riviste specialistiche italiane e, più in generale, da una temperie culturale aperta alle novità ed al sentimento di appartenenza ad una comunità scientifica che non poteva essere racchiusa entro gli angusti confini nazionali. Cfr. CAPONE, op. cit. pp. 33-

34.

125 Soluzione che pare quasi anticipar130 anni i principi affermati nella sentenza CEDU Drassich.

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si riveli essere diverso (ma non nuovo) rispetto a come è stato descritto nel decreto che dispone il giudizio e proprio a cagione di tal diversità esso integri una fattispecie diversa.126 L’art. 521, I, correttamente inteso, copre, infatti, il mutamento del titolo che non segua al mutamento del fatto; se, invece, il primo è cagionato dal secondo la disciplina non è quella del primo ma, appunto, del II comma. Vigente il codice del 1865, invece, le due ipotesi erano accumunate sotto lo stesso ambiguo contrassegno: modificazione non essenziale del fatto. Con un’interpretazione letterale del dettato codicistico, in un primo tempo la giurisprudenza ritenne praticabili entrambe, ma pian piano si affermò la tesi per cui il cambiamento della qualificazione derivante da modificazione del fatto, avrebbe integrato modificazione essenziale con dovere del giudice di restituzione degli atti alla pubblica accusa. Per vero, la Cassazione adottò in un primo momento127 una soluzione alquanto salomonica lasciando libera l’attività di riqualificazione in melius e vietando quella in

peius, indipendentemente dalla circostanza che nel mutamento del titolo del

reato fosse o meno implicata una variazione del fatto. Tale compromesso non mancò, però, di suscitare tra i commentatori più di una perplessità trattandosi di ipotesi affatto diverse.128 Fu solo con la nomina a presidente della II sezione penale della Corte di Cassazione di Luigi Lucchini che la giurisprudenza della Suprema Corte si assestò nel senso di ritenere <<preclusa la possibilità per il giudice di dare al fatto una diversa qualificazione giuridica ogni qualvolta essa riposi su nuove circostanze fattuali emerse in dibattimento considerate integrative di un elemento costitutivo estraneo alla fattispecie contestata con l’imputazione>>. 129 In effetti, già in sede accademica, Lucchini aveva affermato che dovesse considerarsi ingiusta la condanna pronunciata su elementi che, non essendo contenuti nell’imputazione, <<non avrebbero potuto essere preparati e maturati dall’opera e con il concorso costante e integrale sia dell’accusa sia della difesa, che durante tutto il procedimento devono poter esercitare, con pienezza di efficacia, il loro magistero>>.130 Rimaneva, però, ancora dubbio quale sarebbe dovuto essere il trattamento

126 Cfr. NOBILI, Massimo, La nuova procedura penale, Clueb, Bologna, 1989, p. 334 per il quale <<spesso un mutamento del fatto comporta anche un adeguamento della sua qualifica giuridica. Ma quando la legge disciplina (e consente) una diversa qualificazione giuridica si ’intende che il fatto deve rimanere lo stesso>>.

127 V., ad esempio, CASS. ROMA, 8 giugno 1881, Gariglio e Geido. 128 Cfr. CAPONE, op. cit., p. 36.

129 CAPONE, op. cit., p. 38.

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giuridico per l’attività di riqualificazione “pura”, non mediata, cioè, dalla diversità del fatto. In effetti neppure il “garantista” codice di rito tedesco si spingeva al punto di vietare una consimile operazione, pur sottoponendola alle cautele summenzionate. Precludere tout court il potere di immutare il nome

iuris - si temeva - avrebbe potuto costringere il giudice a scegliere tra due

opzioni ritenute parimenti inaccettabili: mantenere un titolo di reato ritenuto errato od assolvere un imputato che avesse indubitabilmente commesso un fatto penalmente illecito. Ciò nonostante, la Cassazione ritenne doversi estendere l’orientamento più restrittivo anche alle ipotesi di riqualificazione “pura”, vietando, de facto, tale operazione se non nell’ipotesi, salvata in quanto in bonam partem, del passaggio da un reato più grave ad uno meno grave. Di grande interesse teorico il passo della sentenza che ebbe ad inaugurare tale orientamento: 131<<non si può distinguere tra le circostanze del fatto e la configurazione giuridica del medesimo, per indurne che, pur dovendo non uscire dai termini del primo, sia sempre libero il magistrato di configurare nel fatto quel reato che più e meglio ritenga attagliarglisi, e ciò […] perché il principio del contraddittorio e i diritti della difesa rimarrebbero ugualmente vulnerati e disconosciuti ove il giudice potesse pronunziare sulla sussistenza di un’ipotesi delittuosa non contestata all’imputato e che non fosse stata oggetto di discussione tra le parti>>. Il nuovo corso giurisprudenziale iniziò, però, ad essere ferocemente attaccato132- ma anche autorevolemente sostenuto133- da parte della dottrina, soprattutto dal più fiero avversario, non solo professionale, del Lucchini: Gennaro Escobedo.134

131 CASS., SEZ. II, 20 dicembre 1910, Gerardi.

132 Si arrivò a dire: <<il grande evangelo della nuova giurisprudenza in tema della quasi immodificabilità del titolo dedotto in imputazione [costituisce, ndr. ] il completo riassunto di tutti gli errori possibili ed anche di quelli che dovrebbero essere impossibili in materia>>. Così, ESCOBEDO, Sulla modificabilità del titolo di imputazione in primo grado e in appello,

in “Giust. Pen.”, 1911, c. 1544.

133 Il riferimento è - insospettabilmente viste le opposte tendenze politico-culturali dei due studiosi - a Vincenzo Manzini. L’A. scrisse infatti: << la condanna per il fatto contestato in accusa, ma per altro titolo di reato portante pena eguale o maggiore di quella comminata al titolo di cui si richiese l’applicazione, induce nullità assoluta. […] Il giudice deve decidere in base a ciò che il p.m. pretende nell’interesse dello Stato, non a ciò che a lui possa sembrare più conveniente. Egli in tal modo deciderebbe sopra una pretesa che nessuno ha fatto valere, sopra un’azione di cui non è investito: quindi senza giurisdizione>>. Così MANZINI,

Manuale di procedura penale, 1912. p. 612.

134 La querelle Lucchini – Escobedo è ricostruita in modo gustoso e con dovizia di particolari da CAPONE, op. cit. , p. 41 e ss. L’A. parla, a p. 41, di una vera e propria guerra dottrinale, in

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Eccettuando gli aspetti più squisitamente personali e coloriti della polemica, che, come tali, qui non interessano,135 quest’ultimo rimproverava al collega- rivale di avere sposato una teoria illogica e pericolosa, perché, seguendo il ragionamento della Cassazione, <<di fronte a una qualificazione giuridica erronea il giudice avrebbe finito per trovarsi in una sorta di vicolo cieco, costretto o a ratificare l’errore o a commettere un’ingiustizia; infatti una volta assolto l’imputato per erroneità della qualificazione giuridica, non avrebbe potuto aprirsi un nuovo procedimento per il medesimo fatto, sebbene diversamente qualificato, senza incorrere nel divieto di bis in idem sancito dall’ art. 518 [cp.p. 1865, ndr.].>>136 Al di là dei toni, comunque, lo stesso Escobedo faceva seguire conclusioni che, in fondo, finivano per convergere con la filosofia delle tanto criticate sentenze,137 poiché, lungi dal propugnare una riqualificazione senza soggezione al confronto dialettico, lo studioso, affermava: <<de iure condendo sarebbe opportuno che il giudice, il quale intendesse mutare il titolo della imputazione o della condanna - così in primo grado che in appello - ne preavvisasse l’imputato, ponendolo in condizione di pienamente e coerentemente difendersi anche in rapporto al nuovo titolo>>.138 In sostanza, un punto di convergenza tra i due contendenti era possibile e coincideva con la soluzione che il codice imperiale tedesco aveva positivizzato già nel lontano 1879 e che, ai giorni nostri, principia a radicarsi in via pretoria: ammettere la riqualificazione officiosa – rigorosamente a fatto invariato – ma assoggettandola al contraddittorio tra le parti per il tramite di una preventiva informazione da parte del giudice. Mutato, però, il contesto politico e culturale di riferimento,139 il legislatore dava il là, con il varo del codice del 1913, ad

accademica, si fondono e confondo in un crescendo di botta e risposta dai toni sempre più accesi.

135 E, per i quali, come detto, si rinvia a CAPONE, op. cit., p. 41 e ss. e QUATTROCOLO, op.

cit., p.47.

136 CAPONE, op. cit.,p. 41. 137 CAPONE, ibidem. 138 ESCOBEDO, ibidem.

139 Emblematico del “nuovo clima”, l’esautoramento, nel volger di pochi mesi, di Luigi Lucchini dalla presidenza della seconda sezione penale della Corte di Cassazione e dalla direzione della Rivista Penale; non casualmente, in ambo le circostanze, il giurista, tra i massimi esponenti della scuola classica, ormai in declino, veniva sostituito da due noti sostenitori della scuola positiva, invece in piena ascesa: nel primo caso, Raffaele Garofalo, nel secondo, Vincenzo Manzini. Nel rovesciamento delle fortune di Lucchini pesava, oltre a fattori anagrafici, politici (forti dissapori con gli ambienti liberali di governo in teoria a lui più vicini), e caratteriali, l’asperrima critica al progetto del codice di procedura penale del 1913; il giurista scriveva, ad esempio, che nel progetto rimaneva <<più ferma di prima la compagine del codice vigente, in tutto il suo involuto e vieto organismo istruttorio e

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un’<<involuzione autoritaria >>140, che avrebbe allontanato di quasi un secolo il recepimento di questa tesi. L’art. 417, I, del codice di procedura penale del 1913 prevedeva, infatti, che <<il giudice può definire il fatto in modo diverso da quello enunciato>>.141 Si trattava della prima espressa formulazione in un codice di rito italiano del principio oggi condensato, con formulazione molto simile, nel primo comma dell’art. 521 c.p.p. attualmente vigente. L’intento del legislatore era chiaramente quello di reagire alla “giurisprudenza Lucchini” in punto di riqualificazione, come veniva riconosciuto da gran parte della dottrina coeva.142 In nome di – presunte - istanze di difesa sociale si ripudiava l’afflato garantista che aveva informato la giurisprudenza della Cassazione in materia di riqualificazione143e soprattutto, si ignorava completamente la proposta di chi, pure, quell’orientamento aveva fortemente combattuto e, cioè, di quel Gennaro Escobedo che, come detto supra, aveva proposto di mantenere in capo al giudice il potere di riqualificare il fatto ma di assoggettarlo ad un onere di preventiva informazione.144 Almeno, però, il codice recepiva dall’insegnamento della Suprema Corte la scelta di prevedere la restituzione degli atti al pubblico ministero nell’ipotesi in cui, all’ esito dell’istruttoria dibattimentale, il fatto fosse risultato diverso; in questo senso,

giudiziale, con tutti i suoi infiniti ingranaggi inquisitori, 1’equivoca supremazia del p.m., l’ermafroditismo del giudice istruttore, l’oralità superficiale e il contraddittorio apparente e parolaio del giudizio, la molteplicità e lo stancheggio dei gravami e tutto quello, insomma, che rende tanto ingombrante, tardo e infecondo il nostro processo>>. Così LUCCHINI, Il nuovo codice di procedura penale. Impressioni e appunti, in “Riv. Pen.”, LXXVII, 1913, p.

683. In argomento v., anche, CAPONE, op. cit., p.44.

140 La forte ma efficace espressione è di CAPONE, op. cit., p. 44.

141Inoltre ex art 480, II, c.p.p. 1913 : <<il giudice di appello che ritenga doversi dare al reato diversa definizione, anche più grave, nei limiti della competenza del giudice di primo grado, può stabilire la nuova definizione, pronunciando in conformità ad essa il dispositivo della sentenza>>.

142<<Una tesi ultra rigorosa, che aveva ottenuto il favore nella giurisprudenza, professava che in verun modo il giudice di merito potesse nella sentenza discostarsi dai capi d’imputazione, poiché questi hanno processualmente l’ufficio di fissare i termini dell’accusa dalla quale l’imputato è chiamato a difendersi. […] E’ inutile discutere la valutazione scientifica e morale, che spetta a siffatta tesi; con l’assoluzione dell’imputato riconosciuto colpevole, essa ciecamente si oppone alla difesa sociale, per meri pretesti di indole formale>>. MORTARA – ALOISI, Spiegazione pratica del codice di procedura penale, II,

Torino, 1922, p. 129.

143 Paradigmatico il commento di LANZA, op. cit., p. 334 e ss. secondo il quale la giurisprudenza della Cassazione di fine ottocento: <<aveva [...] un carattere del tutto accademico, retorico e pericoloso, data la tendenza eccessivamente favorevole ai delinquenti comuni, per i quali il giudizio penale sembra diventato più un gioco d’azzardo, anziché la severa attuazione della giustizia>>.

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infatti, deponeva il II comma dell’ art. 417 c.p.p. 1913. Tuttavia anche questa, isolata, novità venne presto depotenziata dalla “nuova” dottrina della difesa sociale che, per mano dei suoi sostenitori, presenti in via maggioritaria nella composizione della Suprema Corte, ritenne sovente di poter usare, secondo una tendenza ancora piuttosto diffusa, lo strumento della riqualificazione