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2. IL POTERE DI RIQUALIFICAZIONE DEL FATTO.

2.5. IL FONDAMENTO E LA DISCIPLINA DELLA RIQUALIFICAZIONE

2.5.1. PRIMO GRADO

Come ampiamente visto, la riqualificazione giuridica del fatto nel giudizio di primo grado è disciplinata dall’art. 521, I, c.p.p, ai sensi del quale <<nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza né risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale, anziché monocratica>>. La disposizione è già stata oggetto di commento per ciò che attiene alla attività di attribuzione al fatto di un diverso nomen iuris e si rinvia, quindi, per tale aspetto, a quanto detto supra. Ciò che è opportuno, in questa sede, approfondire è, invece, la seconda parte della disposizione, spesso alquanto trascurata, e che, invece, ha i suoi profili di problematicità ed interesse; appare legittimo, difatti, chiedersi cosa succeda se il giudice ritenga di non dover condividere l’individuazione della fattispecie astratta compiuta dal pubblico ministero ed identifichi come corretto sussumente un’altra norma

volti a garantire il diritto di difesa, ma così, come visto, non è stato. Ad ogni modo, una volta deciso di attribuire al giudice il potere di riqualificare il fatto, sarebbe stato auspicabile, per esigenze di maggiore certezza del diritto, che il legislatore avesse previsto e regolato tale potere con una previsione chiara e di portata generale e non, come è avvenuto, con <<una pluralità di norme [che, ndr.] lo regolamentano all’interno di determinati segmenti del processo, ma non in altri, e hanno un contenuto non sempre perfettamente sovrapponibile>>. ( CAPONE, op. cit., p. 1 )

209 Per esigenze di razionalità e coerenza espositiva, si è scelto di limitare l’attenzione ai contesti di giurisdizione piena, cioè contrassegnati dalla presenza di un giudice con plena

potestas iuris dicendi. In realtà, però, il profilo della qualificazione giuridica del fatto

potrebbe rivelarsi di una certa importanza anche nell’ambito delle indagini preliminari, del procedimento di esecuzione (v. QUATTROCOLO, op. cit., p. 150 - 151) o, ancora, del

procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione (v. sempre QUATTROCOLO, op.

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penale incriminatrice la quale, però, configuri un reato la competenza a conoscere il quale sia devoluta dalla legge ad un giudice superiore. E lo stesso interrogativo, mutatis mutandis, vale se l’illecito delineato dalla fattispecie individuata come applicabile, sia attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale. E’ evidente che in consimili ipotesi il tenore inequivoco dell’art. 521, I, c.p.p. impedisce al giudice procedente di effettuare la riqualificazione; operazione questa che in tali casi è, dunque, inibita. La disposizione si pone pertanto come limite espresso al potere di riqualificazione. 210 Il problema, però, è che l’articolo 521 tace sulle conseguenze in positivo che una consimile evenienza potrebbe comportare. Detto altrimenti, la norma dice cosa il giudice non può fare ma rimane muta su cosa il giudice debba fare, acclarato che non possa riqualificare. Posta la generale operatività, nel nostro ordinamento, del divieto di non liquet, e premesso, dunque, che il giudice non può esimersi dal pronunciarsi, sarebbero astrattamente percorribili tre vie: proscioglimento dell’imputato; condanna per il reato contestato dal pubblico ministero; sentenza declaratoria di incompetenza ai sensi dell’art. 23 c.p.p. Iniziando dall’esame della prima alternativa, in effetti, si è già più volte osservato, come, a rigore, nessun principio generale del nostro ordinamento giuridico, come nessuna specifica disposizione costituzionale, dovrebbe ostare ad una previsione di diritto positivo che, nella ipotesi in cui il giudice ritenesse scorretto o comunque non conferente il titolo di reato individuato dal pubblico ministero, imponesse al giudice medesimo di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per essersi l’accusa rivelata infondata nei termini giuridici individuati dal pubblico ministero; si sono, però, esposte anche le ragioni per cui una tale opzione non è mai stata presa in considerazione dal legislatore, che invece, in tali casi, ha conferito al giudice il potere di riqualificare il fatto. Orbene, ciononostante, si potrebbe sostenere che l’assoluzione per scorretta impostazione giuridica della domanda penale fosse una regola generale sottesa al sistema, regola che, normalmente derogata dal potere, espressamente o implicitamente attribuito al giudice, di riqualificare il fatto, tornerebbe operativa allorquando un simile potere fosse dichiaratamente escluso, come avviene in tale caso. Sennonché, questa pur suggestiva lettura sarebbe criticabile sotto molteplici aspetti ed infatti non consta che sia mai stata prospettata in dottrina o in giurisprudenza. A tacer d’altro, difatti, un conto è affermare che in astratto il legislatore

potrebbe, nelle ipotesi di scorretta attribuzione del nomen iuris, prevedere una

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disciplina che imponesse al giudice di prosciogliere l’imputato; un altro conto è sostenere che, di fronte ad un’opposta scelta, come pacificamente risulta dal codice di rito, una tale soluzione, dirompente ed aliena dalla storia recente del nostro ordinamento,211 possa essere ricavata esegeticamente, mediante un argumentum a contrario, per di più in un settore circoscritto come quello in

esame. Ugualmente non convincente è la seconda tesi, pur se avallata da minoritaria dottrina.212 Affermare, infatti, che, per mere ragioni di economia processuale, il giudice, convinto del carattere penalmente illecito del fatto commesso dall’imputato ma non della riconducibilità di tale fatto alla fattispecie astratta individuata dal pubblico ministero, dovesse, cionondimeno, condannare per un reato che egli ritenga non essersi mai integrato, sarebbe un’aberrazione logica e giuridica213 contrastante con numerosi principi costituzionali.214

Condivisibile, invece, la terza ed ultima tesi, seguita, del resto, dalla giurisprudenza e dalla dottrina assolutamente maggioritarie.215 Sicché, nell’ eventualità che la riqualificazione del fatto dovesse determinare un difetto di competenza, <<chi procede deve dichiarare con sentenza la propria incompetenza e trasmettere gli atti al p.m. presso il giudice competente>>.216 Oltre che per esclusione, la soluzione ora prospettata appare la migliore anche per ragioni storiche e sistematiche. Sotto il primo profilo, essa si pone in continuità col filone di pensiero che, nella vigenza del codice di procedura penale del 1865, ricavava, quale prima conseguenza del potere di riqualificazione del fatto,217 il dovere in capo al giudice di declinare la propria

competenza qualora la nuova fattispecie individuata fosse di pertinenza di un giudice superiore.218 Sotto il secondo aspetto, una medesima soluzione è

211 E cioè, almeno, dai tempi della giurisprudenza Lucchini; v., supra, par. 2.3. 212 V., in questo senso, criticamente GIARDA e SPANGHER, ibidem.

213 Emblematica la riflessione sul punto di ESCOBEDO, I diritti della difesa dell’imputato nel

giudizio di primo grado ed in appello, in “ Giustizia penale”, 1899, p. 321: <<la sua sentenza

[del giudice, ndr.] oltre ad essere il risultato d’una illogica coartazione della propria mente e della propria coscienza, andrebbe certamente annullata in secondo grado o in cassazione, poiché quel fatto non costituisce quel reato>>.

214 V., supra, in questo stesso par , testo e nota 208.

215 Ne danno conto, stavolta adesivamente, GIARDA e SPANGHER, ibidem. 216 GIARDA e SPANGHER, ibidem.

217 Ancorché, come ricordato supra, nel primo codice di rito penale del Regno d’Italia mancasse una previsione che espressamente attribuisse al giudice tale potere.

218 Questa la prospettiva, tra gli altri, sposata da FARANDA, op. cit,. p.330 e ss. L’A. afferma, ad esempio, p. 334: <<ove il Pretore riconosca che il Reato da lui chiarito non sia di sua competenza, vuoi per la qualità del maleficio [ la qualificazione giuridica del fatto, ndr.]

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ritenuta assolutamente pacifica, per ciò che attiene alla disciplina del fatto diverso, 219 e non si vedono ragioni convincente per discostarsi, nella risoluzione della problematica che si sta esaminando, da una simile esegesi.