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3. Principali fattispecie di danno non patrimoniale

3.2 Il danno da demansionamento

Con il termine “demansionamento” si intende indicare l’evento lesivo in cui si concreta l’inadempimento del datore di lavoro consistente nella violazione dell’art. 2103 cod. civ.132, il quale impone al datore di

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Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975, cit. 132

Art. 2103 cod. civ.: “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è

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lavoro di adibire il lavoratore a mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte133.

L’art. 2103 cod. civ. ha subito negli anni diverse vicende modificative: un primo intervento legislativo, volto a rimediare alle deboli garanzie originariamente contenute nella norma, è stato compiuto con l’introduzione da parte dell’art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300134 di nuovi diritti e maggiori tutele a favore dei lavoratori,

successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.

Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.

Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.

Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo”.

133 SAPONE, I danni nel rapporto di lavoro, Milano, 2009, p. 233. 134

Art. 13, l. n. 300/1970: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni

per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime

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limitando la sfera d’azione del datore nell’esercizio dei suoi poteri di organizzazione dei dipendenti.

La versione originaria dell’art. 2103 cod. civ.135 lasciava infatti ampi margini di discrezionalità all’imprenditore poiché consentiva qualsiasi tipo di modifica delle modalità di espletamento della prestazione lavorativa ogniqualvolta fosse rispondente alle esigenze dell’impresa e non comportasse né una diminuzione della retribuzione, né un cambiamento sostanziale della posizione lavorativa.

Nonostante le incertezze circa l’esatta interpretazione del nuovo art. 2103 cod. civ. dovute al linguaggio non poco approssimativo adottato dal legislatore nella stesura della norma, sono di facile individuazione le principali differenze che hanno reso il rinnovato art. 2103 cod. civ. sia migliore qualitativamente, sia innovativo con nuove previsioni. Un primo balzo in avanti è anzitutto evidente per quanto attiene alla finalità perseguita dal legislatore che traspare dalla formulazione della novella, ovvero quello di garantire la conservazione della posizione di lavoro acquisita.

Infatti, l’incertezza dell’espressione “mansioni diverse” del testo originario dell’art. 2103 cod. civ. era stata risolta con la locuzione “mansioni equivalenti”, una vera novità che consentiva di verificare l’equivalenza non più soltanto sul piano oggettivo (cioè riconoscendo

effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo o, per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai C.C.N.L.; e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”.

135 Art. 2103 cod. civ. (versione del 1942): «Il prestatore di lavoro deve essere adibito

alle mansioni per cui è stato assunto. Tuttavia, se non è convenuto diversamente, l'imprenditore può, in relazione alle esigenze dell'impresa, adibire il prestatore di lavoro ad una mansione diversa, purché essa non importi una diminuzione della retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui.

Nel caso previsto dal comma precedente il prestatore di lavoro ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, se è a lui più vantaggioso”

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l’inclusione delle mansioni nella stessa area professionale e salariale di quelle svolte in precedenza), ma anche sul piano soggettivo (cioè garantendo l’affinità professionale tra le nuove mansioni e quelle svolte in precedenza consentendo così al lavoratore di mantenere immutate le proprie capacità professionali acquisite durante il precedente rapporto di lavoro)136.

Nella nuova ottica del novellato art. 2103 cod. civ. era quindi impensabile che il patrimonio professionale del lavoratore potesse essere mantenuto o incrementato qualora egli fosse chiamato ad eseguire delle mansioni totalmente estranee e disomogenee rispetto a quelle precedentemente svolte e appartenenti ad un’area professionale disarticolata rispetto alla sua pregressa esperienza lavorativa in azienda.

Il testo novellato dell’art. 2103 cod. civ., oltre agli aspetti evidenziati in precedenza, conteneva un ulteriore elemento di novità, ovvero il mutamento dell’oggetto della norma stessa, che contribuiva a riequilibrare la condizione di tutela del lavoratore e quella di potere dell’imprenditore. Infatti, la versione originaria della norma in esame regolamentava soltanto le modifiche unilaterali disposte dal datore, lasciando “totalmente libere quelle consensuali, con la conseguenza che tramite esse potevano essere attuati anche i più radicali

declassamenti”137. Dunque, secondo il testo originario dell’art. 2103

cod. civ., il datore di lavoro, con il consenso del lavoratore, poteva adibirlo a mansioni peggiorative, anche in maniera definitiva. La norma in esame, nella sua formulazione contenuta nel Codice Civile del 1942, aveva quindi una grave lacuna perché non poneva un termine temporale all’adibizione del lavoratore alle nuove mansioni.

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Cass. civ., sez. lav., 23 marzo 2005, n. 6326, in Mass. Giur. it., 2005. 137 PISANI, La modificazione delle mansioni, Milano, 1996, p. 37.

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Lacuna che il legislatore del 1970 ha colmato attraverso la previsione di un termine massimo di durata dell’assegnazione alle nuove mansioni decorso il quale, in caso di mansioni superiori, l’assegnazione diventava definitiva, ovvero dopo un periodo fissato dalla contrattazione collettiva non superiore a tre mesi.

Malgrado l’apporto di significative modifiche, vi era tuttavia una sorta di continuità normativa poiché i poteri dell’imprenditore non erano messi in discussione, anzi si riaffermava la sua supremazia con la possibilità di variare le mansioni. Quello che cambiava, invece, erano le modalità con cui il datore di lavoro poteva esercitare tali poteri. Nonostante i meriti che vanno riconosciuti alla novellazione dell’art. 2103 cod. civ., erano tuttavia ravvisabili anche alcuni aspetti che hanno suscitato non poche perplessità sulla regola dell’equivalenza e la sua definizione. Ciò, a causa della sua portata generale, ha impedito di definire in maniera precisa i confini del potere datoriale di modifica orizzontale delle mansioni.

Difatti, sulla portata del criterio dell’equivalenza e della relativa tutela della professionalità si sono sviluppati, a partire dalla fase immediatamente successiva all’emanazione dello Statuto dei lavoratori, diversi orientamenti in dottrina e giurisprudenza. Per quest’ultima, il criterio di equivalenza delle mansioni consentiva di tutelare la professionalità del lavoratore e del suo bagaglio di conoscenze tecniche e di competenze acquisite nel corso del rapporto di lavoro e, quindi, la dignità e la personalità del medesimo 138.

All’interno di questo orientamento, parte della giurisprudenza aveva assunto una impostazione particolarmente rigida e statica nell’interpretazione della norma e, in particolare, dei caratteri da tenere in considerazione ai fini della ricostruzione della

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professionalità del lavoratore139. Questo nella convinzione che, attraverso questa lettura del dato normativo, si sarebbe realizzato non solo un maggior livello di tutela del lavoratore ma anche un effetto favorevole in termini di promozione dell’occupazione140. Ciò in quanto, attraverso una lettura particolarmente rigida del concetto di equivalenza, si sarebbe di fatto svuotato (o reso particolarmente rischioso) l’esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro e in via autonoma ed arbitraria in assenza di un consenso del lavoratore, restituendo così centralità al potere contrattuale del lavoratore.

Oltre all’orientamento sopra ricordato (sicuramente maggioritario), nella giurisprudenza si erano sviluppati anche altri orientamenti minoritari che interpretavano il parametro dell’equivalenza con maggiore elasticità. Un primo orientamento, manifestatosi a partire dagli anni ’80, tendeva a non identificare l’equivalenza con il solo bagaglio professionale accumulato dal lavoratore, ma anche con la sua capacità professionale potenziale, tenendo conto anche di quella acquisita attraverso la sua partecipazione anche a corsi di formazione professionali141. Secondo questa giurisprudenza, il giudice, nell’accertamento dell’equivalenza delle nuove mansioni assegnate rispetto a quelle precedentemente svolte, avrebbe dovuto valutare il grado di preparazione tecnica tenendo conto anche della partecipazione ai corsi di formazione.

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Cass. civ., 8 giugno 1976, n. 2103, in Riv. it. dir lav., 1976, II, 520. 140 SUPPIEJ, op. cit., p. 308 ss.

141 Cass. civ., sez. lav., 16 ottobre 1985, n. 5098, in Giur. it., 1987, I, 1, 342; Cass. civ., sez. lav., 8 febbraio 1985, n. 1038, in Foro it., 1986, I, 149; Cass. civ., sez. lav., 19 novembre 1984, n. 5921, in Riv. It. dir. lav., 1985, II, 703; Cass. civ., sez. lav., 15 giugno 1983, n. 4106, in Giust. Civ., 1984, I, 233.

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A fronte di tale variegato quadro giurisprudenziale, la dottrina142 aveva spesso ritenuto interpretazioni giurisprudenziali inadeguate a sostenere il progresso economico e la crescente richiesta di competenze sempre più specifiche. Infatti, secondo una parte della dottrina, la teoria favorevole al riconoscimento del diritto del lavoratore alla conservazione della professionalità pregressa poteva trovare facile e condivisa applicazione nei momenti in cui il mercato del lavoro attraversava periodi di staticità, mentre diveniva non praticabile quando si presentavano esigenze di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale e, di conseguenza, occorreva una maggior elasticità nella gestione della professionalità del lavoro e nella interpretazione dell’equivalenza professionale a tutela, in primo luogo, della conservazione dei livelli occupazionali.

Meno diffuso, invece, era l’orientamento dottrinale secondo cui, fermo restando il mantenimento delle mansioni nello stesso inquadramento e il carattere migliorativo del dislocamento, l’art. 2103 cod. civ. andava interpretato in modo da ricavarne tre distinte nozioni di equivalenza, a seconda che la modifica delle mansioni fosse temporanea, imposta dal datore di lavoro o pattizia. Infatti, secondo tale tesi, mentre per i mutamenti verso mansioni totalmente differenti dalle precedenti era sempre necessario il consenso del dipendente, il datore poteva invece modificare unilateralmente le mansioni del prestatore solo nel caso in cui l’esercizio dello jus variandi non incidesse sulla professionalità del lavoratore ovvero, in

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BARTESAGHI, La figura del dirigente nell’elaborazione dottrinale e

giurisprudenziale, in Dir. lav., 1990, I, 42; GARILLI, Innovazione tecnologica e statuto dei lavoratori: i limiti ai poteri dell’imprenditore tra tutela individuale e collettiva, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1989, p. 176 ss.; LISO, L’incidenza delle trasformazioni produttive, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1987, I, p. 56; MENGONI, La cornice legale, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1987, p. 45 ss.; NOGLER, Crescita economica e riforma della disciplina dei rapporti di lavoro, in Mass. giur. lav., 2012, p. 451; PALLADINI, La mobilità del lavoro in azienda: recenti tendenze giurisprudenziali e contrattazione di prossimità, in Mass. giur. lav., 2012, p. 201.

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via temporanea, con riguardo a quelle mansioni che avevano in comune, con le precedenti, le conoscenze minime di base143. L’orientamento dottrinale che, invece, sembrava più idoneo a contrastare la rigidità della giurisprudenza si basava sulla concezione che il mutamento delle mansioni non doveva garantire al lavoratore la conservazione del medesimo tipo di professionalità, bensì l’acquisizione di una nuova e di uguale valore rispetto a quella precedente144.

Dunque, sia per tali divergenze di posizioni dottrinali e giurisprudenziali che l’art. 2103 cod. civ. portava dietro di se, sia per la necessità di adeguare il testo della norma all’avanzamento dei sistemi di organizzazione aziendali sempre in crescita, era ormai divenuto indispensabile un intervento di riforma della disciplina delle mansioni. Ciò ha fatto si che il legislatore, seppur con significativo ritardo, sia intervenuto a riformare la disciplina in esame mediante il c.d. “Jobs Act”, adottata in forza della delega attribuita al Governo dall’art. 1, co. 7, lett. e), della legge n. 183/2014. In particolare, le indicazioni contenute nella legge delega, avevano quale scopo principale il rafforzamento delle opportunità di ingresso nel mondo del lavoro. La disciplina delle mansioni doveva essere soprattutto rivolta ai casi di riorganizzazione, ristrutturazione e conversione delle aziende mediante parametri oggettivi, conciliando l’interesse del datore alla semplificazione della gestione del personale con quello dei lavoratori al mantenimento del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni economiche più favorevoli.

Il nuovo art. 2103 cod. civ., così come riformulato dal d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 ha dato ampio risalto alla riorganizzazione della disciplina

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PISANI, Nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino, 2015, p. 34 ss. 144

GIUGNI, op. cit., 1963, p. 555; PALLADINI, op. cit., 2012, p. 201; PERA, Diritto del

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delle mansioni per evitare di ricadere in ulteriori difficoltà interpretative come era accaduto per il vecchio art. 2103 cod. civ., ed assicurare così una disciplina più chiara e precisa introducendo novità fondamentali.

Oltre a modificare completamente la disciplina della mobilità orizzontale e verticale, l’aspetto maggiormente interessato dalla riforma del d.lgs. n. 81/2015 riguarda la mobilità verso il basso, attraverso la previsione di una specifica regolamentazione e l’introduzione di nuove deroghe in tema di demansionamento.

Analizzando il nuovo art. 2103 cod. civ., una delle principali novità della nuova disciplina delle mansioni è contenuta al primo comma nel quale viene eliminato il richiamo al principio dell’equivalenza, superandosi così tale parametro oggettivo di raffronto tra le mansioni originarie e quelle di destinazione.

La questione dell’equivalenza delle mansioni, infatti, aveva da sempre comportato molteplici problemi interpretativi145 poiché con il riconoscimento all’interno dell’art. 2103 cod. civ. del cd. “jus variandi” (letteralmente “diritto di variare”), qualificato come il potere unilaterale dell’imprenditore di “imporre al prestatore di lavoro

145 Il dibattito tra dottrine e giurisprudenza era incentrato sull’applicabilità del cd.

jus variandi in materia. Le tesi sono state spesso contrastanti, parte della dottrina

seguiva la tradizione unilateralista del potere del datore di lavoro sulle vicende modificatrici dell’organizzazione aziendale, altra parte, più recente, era incentrata sulla necessità del consenso del lavoratore e sulla trasformazione dello jus variandi da potere eccezionale a potere “normalizzato”, con peculiarità differenti rispetto al passato.

Nonostante l’ancora acceso dibattito si è comunque ammessa la facoltà del datore di modificare le mansioni unilateralmente nell’ambito dell’equivalenza. Dunque, con il nuovo art. 2103 cod. civ. e le interpretazioni giurisprudenziali si è passati così dal “principio della libera modificazione (anche in senso peggiorativo) della identità del

prestatore e della posizione del lavoratore” alla legittimazione delle sole modifiche

unilaterali delle mansioni connesse all’accrescimento della professionalità del lavoratore.

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compiti eccedenti il contenuto delle mansioni convenute”146, era

fondamentale definire i parametri dell’equivalenza.

Proprio per superare la genericità e la vaghezza dei termini e dei parametri oggettivi che erano stati individuati dalla prassi giurisprudenziale per formulare il giudizio di equivalenza, la nuova disciplina introdotta dal d.lgs. n. 81/2015 diventa infatti più specifica e chiara, ma soprattutto assolutamente oggettiva. Difatti, eliminando il riferimento al parametro delle “mansioni equivalenti” diventa più semplice stabilire se le nuove mansioni assegnate appartengano o meno al medesimo livello di inquadramento o nella stessa categoria legale. Così facendo, in sostanza, viene tipizzato un aspetto della disciplina delle mansioni che fino a quel momento era lasciato alla libera interpretazione giurisprudenziale. Con l’abbandono del parametro dell’equivalenza professionale, per delimitare l’area di legittima modificazione delle mansioni, l’unico strumento idoneo a determinare l’inquadramento del lavoratore è, ora, quello stabilito nei contratti collettivi.

Ciò, però, pone una questione da chiarire: cosa ne sarà della tanto discussa professionalità e della tutela del bagaglio professionale acquisito dal lavoratore di cui tanto si è discusso in passato? Poiché all’interno del medesimo livello di inquadramento coesistono molte figure lavorative, anche molto diverse fra loro, in passato si utilizzava il criterio dell’equivalenza per consentire al lavoratore di conservare ed arricchire le proprie competenze. Il livello di inquadramento, dunque, se in base alla previgente disciplina era un requisito necessario ma non sufficiente a fondare il giudizio di equivalenza, “diventa ora necessario e sufficiente, quale nuovo limite legale allo jus

variandi”147. In quest’ottica, si nota come l’intento del Jobs Act,

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GIUGNI, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 229. 147 PISANI, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino, 2015, p. 41.

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ovvero l’incremento della flessibilità nell’ambito del rapporto di lavoro, sia stato attuato attraverso la liberalizzazione dei poteri datoriali.

Mediante il riconoscimento al datore della facoltà di assegnare ai dipendenti qualsiasi mansione rientrante nel medesimo livello di inquadramento secondo le previsioni della contrattazione collettiva, si è realizzato un avvicinamento della mobilità orizzontale del settore privato a quella vigente nel rapporto di lavoro pubblico nel quale l’art. 52148 del d.lgs. n. 165/2001 rimette completamente all’autonomia

148 Art. 52, d.lgs. n. 165/2001: “Disciplina delle mansioni.

1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell'àmbito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive. L'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore o dell'assegnazione di incarichi di direzione. 2. Per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore:

a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti come previsto al co. 4;

b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell'assenza per ferie, per la durata dell'assenza.

3. Si considera svolgimento di mansioni superiori, ai fini del presente articolo, soltanto l'attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni.

4. Nei casi di cui al co. 2, per il periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore. Qualora l'utilizzazione del dipendente sia disposta per sopperire a vacanze dei posti in organico, immediatamente, e comunque nel termine massimo di novanta giorni dalla data in cui il dipendente è assegnato alle predette mansioni, devono essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti.

5. Al fuori delle ipotesi di cui al co. 2, è nulla l'assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore. Il dirigente che ha disposto l'assegnazione risponde personalmente del maggiore onere conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave.

6. Le disposizioni del presente articolo si applicano in sede di attuazioni della nuova