3. Principali fattispecie di danno non patrimoniale
3.1 Il Mobbing
3.1.1 La risarcibilità del danno da mobbing
Gli atteggiamenti tipici del mobbing possono comportare sia danni patrimoniali che non patrimoniali, ossia danni biologici, esistenziali e psicologici.
94
Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2014, n. 5419, in Foro amm., 2014, 11, 2800. 95 Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2014, n. 5419, in Foro amm., 2014, 11, 2800.
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Un’importante decisione del Tribunale di Forlì del 2001, intervenuta sul fenomeno del c.d. mobbing verticale, ha dato una prima definizione del fenomeno, e soprattutto ha identificato le forme di risarcimento del danno invocabili nella fattispecie in esame96.
Il Tribunale di Forlì innanzitutto, partendo dalla pacifica constatazione della mancanza nel nostro ordinamento di una normativa specifica atta a fornire una definizione di mobbing e di una serie di idonei strumenti repressivi, ha espresso il convincimento secondo cui il mobbing può sussistere “solo ed in quanto determinate condotte presentino i requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale (in particolare grazie ai lavori del professor Heinz Leymann) e nazionale (in particolare grazie ai lavori del professor Ege) … perché, in casi che presentano mera somiglianza con il mobbing, ogni episodio dovrà altrimenti essere catalogato e darà diritto a diversi profili di
tutela risarcitoria a favore di chi ha subito le condotte”97.
Ma il Tribunale non ha limitato il suo utilissimo sforzo solo alla definizione della nozione di mobbing, bensì ha affrontato anche la problematica relativa all’individuazione del tipo di danno risarcibile subito dalla parte lesa.
A tal fine, il Tribunale di Forlì, da per superata la tradizionale tripartizione delle figure di danno (patrimoniale, morale, biologico) in quanto ormai inadeguata a coprire tutti gli spazi di possibile tutela. Infatti, “un danno subito da un lavoratore, ad esempio, senza conseguenze patrimoniali dirette (come nel caso di demansionamento con mantenimento dello stesso trattamento retributivo) e privo di
96
Trib. Forlì 15 marzo 2001, in Resp. Civ. prev., 2001, 1018: “in presenza di una condotta omissiva del datore e senza che di fatto si verifichi una diminuzione della capacità lavorativa del dipendente, il datore di lavoro sarà ritenuto responsabile, in solido con il molestatore, del danno, né biologico né morale, ma esistenziale, patito dal dipendente, eventualmente in concorso con il danno alla vita di relazione”.
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rilevanza patrimoniale dal quale scaturisca una sofferenza non
qualificabile classicamente come malattia non nessuna tutela”98.
Per questo, qualora vengono allegate prima, e provate poi, conseguenze comunque negative che incidono sulla vita di relazione del soggetto che è stato colpito essenzialmente e primariamente nella sua dignità, di persona e di lavoratore, l’ordinamento impone che si appronti una risposta, anche attraverso una nuova tipologia risarcitoria.
Tale nuova tipologia di danno risarcibile era già esistente nell’ambito del diritto vivente, poiché già enunciata e riconosciuta dalla fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 198699 e da una più recente pronuncia della Corte di Cassazione del 2001100: si tratta della categoria del danno esistenziale, o danno alla vita di relazione, “che si realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per
altra qualificazione risarcitoria”101.
Con questa importante sentenza, il Tribunale di Forlì ha così dato modo di comprendere e di inquadrare da un punto di vista sistematico, non solo il fondamento del mobbing, da cui si era partiti, ma anche una delle risposte, forse la più originale e appropriata tra quelle consentite dal nostro ordinamento, sulla qualificazione risarcitoria.
Una volta qualificato come esistenziale quel danno derivante da una condotta mobbizzante, lo stesso Tribunale di Forlì si è preoccupato anche di definire la natura del risarcimento richiesto.
98 Trib. Forlì 15 marzo 2001, cit. 99
Corte Cost. 14 luglio 1986, n. 184, cit. 100
Cass. civ., sez. lav., 21 febbraio 2001, n. 2569, in Guida dir., 2001, 12, 68. 101 Trib. Forlì 15 marzo 2001, cit.
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Il percorso seguito per individuare la natura di tale nuova figura di danno, se contrattuale o extracontrattuale, ha portato il Tribunale di Forlì a ricondurre la responsabilità datoriale sia allo schema della responsabilità contrattuale, ex art. 2087 cod. civ., sia a quello del danno aquiliano ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.
Dunque, il Tribunale di Forlì, seguendo l’orientamento maggioritario di dottrina e giurisprudenza, in considerazione della poliedricità del fenomeno del mobbing, ha ravvisato il fondamento di tale ipotesi risarcitoria non solo nell’art. 2087 cod. civ. ma anche nella violazione del generico obbligo di nemidem laedere previsto dall’art. 2043 cod. civ.102
La differenza sostanziale tra i due tipi di responsabilità riguarda la prova del danno subito, in sede giudiziale, da parte del danneggiato. Nel caso di responsabilità contrattuale opera infatti la presunzione di colpa, ex art. 1218 cod. civ.103, secondo cui il lavoratore ha soltanto l’onere di provare l’inadempimento del datore di lavoro (cioè la sua violazione dell’art. 2087 cod. civ.), il danno subito e il nesso causale tra questi e la condotta datoriale, mentre il datore avrà, invece, l’onere di provare di aver adempiuto all’obbligo di sicurezza e, quindi, di aver adottato tutte le misure atte ad evitare la causazione del danno104. Nella responsabilità extracontrattuale, invece, opera un’inversione dell’onere della prova, poiché dalla lettura del più volte citato art. 2043 cod. civ. si può ricavare che il danneggiato ha l’onere di “allegare la preordinazione doloso e/o colposa delle condotte del
102
Art. 2043 cod. civ.: “Risarcimento per fatto illecito.
Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
103
Art. 1218 cod. civ.: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione
dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento è il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
104
Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 2000, in Danno e Resp., 2001, 385; Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 2003, n. 5539, in Giust. civ. Mass., 2003, 4.
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datore censurate, quindi circa il nesso causale tra detti comportamenti
e i danni denunciati”105.
A sostegno del duplice fondamento normativo della responsabilità risarcitoria da mobbing è intervenuto il Consiglio di Stato affermando che la vittima del danno può rivendicare il risarcimento sia in via extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., ovvero in via contrattuale, in forza degli obblighi datoriali di tutela dell’integrità psicofisica dei dipendenti previsti dall’art. 2087 cod. civ.106
Dunque, nell’ipotesi di mobbing, secondo l’interpretazione prevalente, è ravvisabile una concorrente responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, consentendo quindi al lavoratore di poter beneficiare del più favorevole regime probatorio previsto dall’art. 1218 cod. civ.107
L’orientamento che precede non è però unanime atteso che un minoritario indirizzo della giurisprudenza di legittimità ha ritenuto, invece, la risarcibilità del danno da mobbing compatibile esclusivamente con una responsabilità contrattuale.
Il suddetto orientamento, già convalidato da precedenti decisioni della giurisprudenza di legittimità, è stato poi suffragato a anche da una più recente decisione della Corte di Cassazione108 la quale ha chiarito che, ai fini della sussistenza della responsabilità risarcitoria
105
AA. VV., La nuova responsabilità civile, op. cit., p. 955.
106 Cons. St., sez. VI, 15 aprile 2008, n. 1739, in FA, 2008, 4, 1194. “Risulta necessario
accertare la natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto solo l’azione per responsabilità contrattuale è ritenuta rientrante nella cognizione del Giudice Amministrativo, mentre dovrebbe ritenersi di competenza del Giudice Ordinario l’azione proposta in via extra-contrattuale. Quest’ultimo indirizzo appare più conforme alle linee guida, che emergono dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, in quanto, la responsabilità extracontrattuale per mobbing è riconducibile, sostanzialmente, a comportamenti vessatori dei superiori gerarchici o dei colleghi di lavoro del dipendente interessato, al di là dei limiti, che la Suprema Corte ha indicato quali parametri di rango costituzionale per la giurisdizione del Giudice Amministrativo, escludendo da tali parametri la categoria generalizzata dei comportamenti”.
107
AA. VV., La nuova responsabilità civile, op. cit., p. 957.
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del datore di lavoro per mobbing, occorre effettuare una valutazione di tutte le circostanze dedotte in giudizio, tali da “consentire l’accertamento di una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro,
garantite dall’art. 2087 cod. civ.” 109.
Con siffatta sentenza la Cassazione ha quindi confermato la qualificazione della responsabilità da mobbing quale violazione dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art. 2087 cod. civ. il quale, come noto, vincola il datore di lavoro ad adottare tutte quelle misure che, secondo il tipo di attività svolta, siano idonee a garantire la sicurezza nel luogo di lavoro110.
Dunque, come detto in precedenza, la mancanza nel nostro ordinamento di una disciplina specifica in materia di mobbing ha come conseguenza questa diversificazione degli orientamenti giurisprudenziali. Recentemente, la Suprema Corte è tornata nuovamente a pronunciarsi sul punto, con la sentenza 14 settembre 2017, n. 21328111, confermando l’orientamento, ormai costante, secondo cui grava sulla vittima l’onere di provare la sistematicità della condotta mobbizzante e l’intento emulativo o persecutorio che la sorregge. Il preciso scopo di emarginare ed estromettere il lavoratore dalla vita aziendale costituisce elemento essenziale del mobbing, distinguendolo così da atti illegittimi di diversa natura (come, esempio, un semplice demansionamento ex art. 2103 c.c.112).
109
Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4774, in Foro it., 2006, 274. 110
CARINGELLA, Studi di diritto civile, III. Obbligazioni e responsabilità, Milano, 2007, p. 665.
111
Cass. civ., sez. lav., 14 settembre 2017, n. 21328, in www.italgiure.giustizia.it. 112 Art. 2103, co. 1, cod. civ.: “Prestazione del lavoro
Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.
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Tale giudizio, conforme all’indirizzo giurisprudenziale più volte fatto valere dai Giudici di legittimità113, ha quindi ribadito l’onere del lavoratore di provare in giudizio l’intento persecutorio dei comportamenti illeciti precisando altresì che, ai fini della risarcibilità del danno da mobbing, occorre che: a) la condotta mobbizzante, per essere ritenuta tale, deve consistere in comportamenti sistematici e prolungati nel tempo; b) l’evento dannoso deve consistere in una lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il lavoratore deve dimostrare il nesso eziologico tra la condotta e il pregiudizio subito; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio, sia unificante di tutti i comportamenti lesivi.
La Corte aderisce, così, all’ormai consolidato orientamento di dottrina e giurisprudenza secondo cui “non si configura la fattispecie del mobbing senza la prova dell’intenzionalità persecutoria del datore di lavoro, preordinata alla vessazione o alla emarginazione del
dipendente”114. Vengono automaticamente esclusi, infatti, tutti gli
aspetti patologici del rapporto di lavoro conseguenti a mere divergenze e conflitti tra le parti.
Tale recente intervento della Suprema Corte non è da considerarsi di poco conto poiché mentre, ravvisandosi nel mobbing una ipotesi di responsabilità contrattuale, il lavoratore deve limitarsi a dimostrare i solo inadempimento, oltre al nesso causale tra quest’ultimo e il danno patito, gravando sul datore la prova dell’assenza di colpa, secondo il più recente orientamento giurisprudenziale l’elemento soggettivo è considerato come requisito fondamentale del mobbing e pone sul dipendente l’onere di dimostrare l’esistenza di un disegno doloso.
113 Cass. civ., sez. lav., 27 gennaio 2017, n. 2147; Cass. civ., sez. lav., 24 novembre 2016, n. 24029; Cass. civ., sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698, in
www.italgiure.giustizia.it.
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L’inquadramento della responsabilità ha indubbi riflessi, oltre che sull’onere della prova, sui termini di prescrizione dell’azione e sul quantum risarcibile. Infatti, per quanto attiene alla prescrizione dell’azione esperibile in caso di danno da mobbing, ogniqualvolta venga invocata una responsabilità di tipo contrattuale, il termine di prescrizione è decennale, mentre, nelle ipotesi di responsabilità aquiliana, il termine è quinquennale.
Sui termini della prescrizione è intervenuta la Suprema Corte115 chiarendo che, a fronte dell’allegazione da parte del ricorrente di fatti delittuosi protratti nel tempo e della colpevole negligenza del datore di lavoro durante tutto il tempo in cui i reati sono stati commessi, il termine non inizia a decorrere dal momento della commissione del primo degli episodi delittuosi poiché anche i successivi illeciti sono potenzialmente idonei a determinare un’autonoma lesione del diritto e, quindi, a fondare una domanda risarcitoria. La stessa Corte ha invece stabilito che il termine di prescrizione, tanto per responsabilità contrattuale quanto per responsabilità extracontrattuale, inizia a decorrere non già dal momento in cui il fatto del terzo viene a ledere l’altrui diritto, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno diventando oggettivamente percepibile e riconoscibile. Dunque, i termini decorrono dal momento in cui iniziano a manifestarsi all’esterno i sintomi del danno all’integrità psico-fisica causato al lavoratore dai comportamenti mobbizzanti. Questo comporterà, ovviamente, uno spostamento piuttosto in avanti nel tempo del termine prescrizionale, con conseguente maggiore garanzia per il lavoratore di poter conseguire il risarcimento del danno subito.
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Un’altra questione, tra le più delicate che deve essere affrontata in tema di mobbing, vi è quella sulla liquidazione del danno risarcibile cagionato al lavoratore per effetto del datore di lavoro.
A seconda delle modalità con cui viene posto in essere, il mobbing può produrre un danno patrimoniale e/o un danno non patrimoniale. In relazione alle ipotesi di danno patrimoniale, lo stesso si concretizza in tutte quelle forme di pregiudizio economico che sono conseguenza diretta delle condotte vessatorie del datore di lavoro.
Le ipotesi più frequenti di danno patrimoniale da mobbing sono: a) il danno da demansionamento o dequalificazione
professionale o per perdita di professionalità pregressa;
b) il danno emergente, determinato, ad esempio, dalle spese mediche e cure sostenute a causa della malattia psico-fisica ingenerata dagli attacchi mobbizzanti;
c) il danno da lucro cessante, prodotto dalle possibili conseguenze negative dovute alla riduzione della capacità lavorativa, e quindi di produrre reddito, o alla perdita di chances116.
Quanto ai criteri per la risarcibilità delle suddette voci di danno, in alcune ipotesi, essi non comportano particolari problemi poiché la quantificazione di eventuali spese sostenute (ad esempio, quelle relative a visite mediche specialistiche, terapie psicologiche, …) sarà di facile determinazione. Invero, laddove sia impossibile una quantificazione precisa (ad esempio, in caso di demansionamento, dequalificazione professionale o perdita di chances) si procederà ad un liquidazione equitativa ex art. 1226 cod. civ.117, utilizzando come
116 PESCE, Mobbing e risarcimento del danno, in Rivista di Criminologia, Vittimologia
e Sicurezza, Vol. III, n. 1, Bologna, 2009, p. 60 ss.
117
Art. 1226 c.c.: “Valutazione equitativa del danno.
Se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”.
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parametro una quota della retribuzione per il periodo in cui si è protratta la condotta lesiva118.
Per quanto concerne, invece, il danno non patrimoniale non sarà sempre facile da provare poiché dovrà differenziarsi a seconda della diversa qualifiche dello stesso. Infatti, per la risarcibilità del danno biologico, sarà sufficiente la dimostrazione di una lesione psico-fisica medicalmente accertata mentre, il danno esistenziale, inteso come pregiudizio che comporti un’alterazione delle abitudini e degli assetti relazionali del lavoratore, potrà essere provato con tutti i mezzi istruttori messi a disposizione dall’ordinamento, primo fra tutti la prova per presunzione119. Presunzioni che, si sensi dell’art. 2729 cod. civ.120, dovranno essere gravi, precise e puntuali. Una volta provato il danno non patrimoniale, esso potrà essere liquidato in via equitativa, ovvero secondo le c.d. “Tabelle di Milano”, un valido strumento nel settore della risarcibilità, poiché offrono i parametri, generalmente riconosciuti da tutte le corti giudiziarie italiane, per la determinazione degli importi dovuti a titolo di risarcimento in caso di lesione all’integrità psico-fisica. Le suddette tabelle consentono di identificare il valore base corrispondente ad ogni punto di invalidità commisurato all’età del danneggiato, e di definire in quale misura possono essere applicati eventuali correttivi e maggiorazioni.
118
Trib. Milano 30 settembre 2006, n. 2949, in Giustizia a Milano, 2006, 10, 66; in termini analoghi, sotto il profilo che qui interessa, richiamando solo le più recenti, Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4774, cit.; conforme Cass. civ., sez. lav., 25 maggio 2006, n. 12445, in Riv. It. Dir. lav., 2007, 1, 68; Cass. civ., sez. lav., 23 marzo 2005, n. 6326, in Giust. Civ. Mass., 2005, 4.
119 STRAIANO, Mobbing: responsabilità e tutele processuali, Santarcangelo di Romagna, 2014, p. 198.
120 Art. 2729 c.c.: “Presunzioni semplici.
Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precide e concordanti.
Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni”.
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