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Il danno patrimoniale e il danno non patrimoniale nel sistema

Nel passaggio tra il codice civile del 1865 e quello del 1942, in materia di responsabilità extracontrattuale, una delle più rilevanti innovazioni è stata l’espressa previsione del risarcimento del danno non patrimoniale. La Cassazione ha definito il danno non patrimoniale come quel “danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la

persona non connotati da rilevanza economica”1. Dunque la sua

peculiarità è di ledere aspetti areddituali della sfera giuridica dell’individuo.

All’art. 11512 cod. civ. del 1865, si indicava il danno senza alcuna specificazione relativa all’oggetto del risarcimento. Tale genericità aveva condotto parte della dottrina ad affermare la risarcibilità di

1 Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827, in Corr. giur., 2003, 1017 conf. Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, in Corr. giur., 2003, 1024.

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Art. 1151 cod. civ. 1865: “Qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri,

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qualsiasi pregiudizio, poiché il concetto di danno doveva essere inteso nel senso più ampio.

Al contrario, la giurisprudenza di legittimità non appariva dello stesso avviso: infatti, riconosceva la risarcibilità della sola perdita patrimoniale, suscettibile di misurazione economica, conseguente alla lesione di un diritto di carattere patrimoniale. Il concetto dell’irrisarcibilità del danno non patrimoniale, a fondamento del pensiero giurisprudenziale, affondava le proprie radici nel principio risalente a Gaio secondo cui liberum corpus nullam recepit

aestimationem3. Tale convinzione, dunque, non consentiva di

tradurre in denaro i connotati, corporei o meno, della persona umana poiché il suo valore non era quantificabile economicamente ed una eventuale risarcibilità del danno non patrimoniale non poteva prescindere da una precedente mercificazione della persona4.

Un primo passo verso la previsione di due distinte fattispecie di danno venne fatto con l’introduzione del codice penale del 1889.

In particolare, all’art. 38 del cod. pen. del 1889 il legislatore riconobbe, oltre alla restituzione e al risarcimento dei danni patrimoniali, anche la riparazione in denaro per ogni delitto contro l’onore della persona e della famiglia.

La duplicazione delle fattispeci di danno è stata poi ripresa anche nell’art. 185 cod. pen. attualmente vigente mediante la previsione dell’obbligo per il “colpevole” e le “persone che, a norma delle leggi civili, devono rispondere per il fatto di lui” di risarcire “il danno patrimoniale o non patrimoniale” cagionato da “ogni reato” da lui commesso.

3

BIANCA, Diritto civile 5. La responsabilità, Milano, 2012, p. 196, cita D. 9.4.7. (GAIUS, Libro VI ad edictum provinciale).

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La norma è particolarmente rilevante, oltre che innovativa, poiché per la prima volta si fa espresso riferimento al danno non patrimoniale con conseguente equiparazione del rimedio previsto per i due tipi di danno.

La dottrina, fortemente critica al riguardo, distingueva tra “risarcimento” del danno economico e “riparazione” del danno morale. Secondo questo orientamento, il risarcimento del danno patrimoniale era considerato lo strumento per riportare le cose allo stato fisico preesistente mentre, la riparazione serviva ad alleviare “i

dolori e le sofferenze morali”5.

Tale distinzione, tuttavia, venne superata dal legislatore del 1942, il quale, all'art. 2059 cod. civ. stabilì che “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”, utilizzando così il termine risarcimento in perfetta corrispondenza con la norma cardine in materia di responsabilità extracontrattuale: l’art. 2043 cod. civ.6

Con l’art. 2059 cod. civ. venne espressamente previsto il risarcimento del danno non patrimoniale seppur con il limite dei “casi previsti dalla legge” e, quindi, previa individuazione legislativa delle ipotesi in cui esso poteva operare.

Inoltre, nonostante l’art. 2043 cod. civ. utilizzasse solo il termine “danno” senza specificare se si trattasse di un danno patrimoniale o non patrimoniale, il sistema della responsabilità civile introdotto dal codice civile del 1942 venne generalmente interpretato nel senso di aver configurato una bipolarità tra il danno patrimoniale (a cui fa riferimento l’art. 2043 cod. civ.) e il danno non patrimoniale, disciplinato dall’art. 2059 cod. civ. Da ciò discendeva la tipicità del

5 PACCHIONI, Delitti e quasi delitti, in Trattato della responsabilità civile, 2010. 6

Art. 2043 c.c. “Risarcimento per fatto illecito.

Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

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danno non patrimoniale e la sua risarcibilità nei soli casi previsti dalla legge in contrapposizione alla atipicità del danno patrimoniale che, invece, era risarcibile ogni qualvolta si verificava la lesione di un interesse giuridicamente protetto.

La risarcibilità del danno patrimoniale trovava fondamento nell’art. 1223 cod. civ.7 il quale riconosce la risarcibilità di qualunque fattispecie di danno ingiusto escludendo, invece, la risarcibilità del danno ogniqualvolta si riesca a provare, sia pure con giudizio ipotetico, che lo stesso si sarebbe ugualmente verificato8.

L’art. 1223 cod. civ. è espressione della regola della condicio sine qua non: il danno è risarcibile solo qualora rappresenti una conseguenza necessaria dell’illecito.

Il risarcimento del danno patrimoniale ha come fine quello di colmare la differenza tra la situazione economica attuale del danneggiato e quella che avrebbe avuto qualora l’illecito non si fosse verificato. La determinazione del risarcimento avviene mediante la valutazione di due componenti comunemente utilizzate per fornire la definizione unitaria di danno patrimoniale: il danno emergente e il lucro cessante. Il danno emergente, consiste nella perdita economica che il creditore ha subito per una mancata o inesatta prestazione di colui che avrebbe dovuto garantire il diritto. Deve riferirsi ad un’utilità che era già in precedenza nella sfera patrimoniale del danneggiato.

Al contrario, il lucro cessante consiste nel quantum lucrari potui che è venuto meno in conseguenza del fatto illecito altrui9. Diversamente dal danno emergente, il lucro cessante attiene a una ricchezza non

7 Art. 1223 cod. civ.: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo

deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.

8 GIOVAGNOLI, Il risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, Milano, 2010, p. 101.

9

A.A. V.V., La nuova responsabilità civile, causalità – responsabilità oggettiva – lavoro, (a cura di) Cendon, Milano, 2010, p. 354 ss.

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ancora ricompresa nel patrimonio del danneggiato, ma che si sarebbe potuta produrre.

La dottrina, al riguardo ha dato due interpretazioni diverse relativamente al mancato guadagno o lucro cessante, una parte lo ha identificato “in quell’incremento patrimoniale netto che il danneggiato avrebbe conseguito mediante l’utilizzazione della prestazione inadempiuta o del bene leso ovvero mediante la

realizzazione del contratto risolto”10.

Altri invece hanno ritenuto che il mancato guadagno abbia dei tratti in comune con la perdita di chances, poiché “implicano entrambi la mancata acquisizione di un risultato favorevole nel patrimonio del

danneggiato”11.

Al di là di tale distinzione dottrinale, va però ricordato che per l’accertamento del lucro cessante è necessario effettuare un ragionamento di tipo causale e, cioè, eliminando mentalmente l’inadempimento o l’illecito, si prova a verificare sul piano causale se il mancato guadagno si sarebbe verificato ugualmente. Si utilizza, quindi, lo stesso metodo per l’accertamento della causalità negli illeciti omissivi: il principio dell’alta probabilità logica o quello del “più

probabile che no”12.

Come abbiamo detto in precedenza, parte della dottrina ricomprende nell’alveo del danno patrimoniale anche la perdita di chances, cioè la perdita della possibilità di ottenere un determinato risultato, non necessariamente di natura economica.

Secondo la Cassazione, la perdita di chances pregiudica il soggetto nel progredire nell’attività lavorativa, costituendo un danno patrimoniale

10 BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni, (a cura di) Scialoja e Branca, Bologna e Roma, 1979, p. 278.

11

PUCELLA, La causalità “incerta”, Torino, 2007, p. 125. 12

A.A. V.V., La nuova responsabilità civile, causalità – responsabilità oggettiva – lavoro, op. cit., p. 357.

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risarcibile, qualora ne consegua un pregiudizio certo consistente in un danno emergente da perdita di una possibilità attuale13. Da ciò deriva che, l’onere di provare i danni derivanti dalla perdita di chances, se pur sempre in modo presuntivo, ricadrà sul creditore14.

Di recente, l’alveo del danno da perdita di chance è stato allargato da alcune pronunce della Cassazione15 che, grazie all’atipicità della disciplina del danno patrimoniale, hanno ricompenso al suo interno anche il c.d. danno da perdita di capacità lavorativa generica.

La perdita di capacità lavorativa generica è stata definita dalla giurisprudenza come “la sopravvenuta inidoneità del soggetto danneggiato allo svolgimento delle attività lavorative che, in base alle condizioni fisiche, alla preparazione professionale e culturale, sarebbe

stato in grado di svolgere”16 .

La più recente giurisprudenza ha, inoltre, espressamente chiarito l’indipendenza della perdita di capacità lavorativa generica da quella specifica17. Tale distinzione permette alle due voci di danno di coesistere e, pertanto, può accadere che ad un soggetto percettore di reddito al momento del sinistro venga riconosciuto il danno alla capacità lavorativa generica, ma non quello relativo alla sua capacità lavorativa specifica18.

13 Cass. civ., sez. III, 7 luglio 2006, n. 15522, in DResp., 2006, 11, 1147. 14

Cass. civ., sez. lav., 8 ottobre 2007, n. 21014, in DPLav., 2008, 2.: Al fine di ottenere il risarcimento per la perdita di una chance “è necessario che il

danneggiato dimostri la sussistenza di un valido nesso causale tra il danno e la ragionevole probabilità della verificazione futura del danno stesso e provi, quindi, la realizzazione in concreto di almeno uno dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza diretta ed immediata”.

15

Cass. civ., sez. III, 12 giugno 2015, n. 12211, in www.italgiure.giustizia.it, 2015.

16

Cass. civ., sez. lav., 9 marzo 2001, n. 3519, in Giust. civ. mass., 2001, p. 461. 17 La capacità lavorativa specifica in senso proprio si determina considerando la capacità dell’individuo leso a svolgere una specifica attività, cioè quella di fatto esercitata.

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L’introduzione del concetto di “capacità lavorativa generica”, quale species del danno patrimoniale, fu dettato dall’esigenza di fronteggiare una situazione di iniquità del sistema risarcitorio previsto dal Codice Civile del 1865 poiché esso ammetteva il risarcimento del danno solo nel caso in cui il danneggiato fosse produttore di reddito19. Attualmente, invece, in relazione alla liquidazione del danno da diminuzione o perdita della capacità lavorativa, come confermato dalla Corte di Cassazione20, è escluso l’automatismo risarcitorio e l’onere di provare in concreto il danno grava sul colui che abbia fatto richiesta di risarcimento, anche in via presuntiva. La Cassazione ha precisato che “occorrono la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse un'attività lavorativa produttiva di reddito, nonché la prova della mancanza di persistenza, dopo l'infortunio, di una capacità generica di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell'infortunato, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse

o ridotte”21. Dunque, al fine di risarcire il danno, sarà necessario

verificare il nesso di causalità tra l’evento e il danno, poiché il pregiudizio subito o il mancato guadagno devono essere conseguenza immediata e diretta del fatto.

Al contrario i danni non patrimoniali, come abbiamo visto in precedenza, si caratterizzano per un unico comun denominatore: la lesione di interessi giuridici areddituali.

19

CAZZANIGA, Le basi medico-legali per la stima del danno alla persona da delitto e

quasi delitto, Ist. Ed. Scientifico, Milano, 1928. Nella sua opera fissò i criteri di

valutazione per accertare tecnicamente l’incidenza degli effetti del fatto illecito sulla prospettiva di acquisizione di beni economici necessari alla vita dell’individuo. Segnò, altresì, per ciò che attiene al risarcimento del danno alla persona, il passaggio dalla discrezionalità del giudice nella determinazione del risarcimento stesso a modalità di accertamento tecnico e medico-legale.

20

Cass. civ., sez. III, 27 novembre 2014, n. 25211, in www.italgiure.giustizia.it, 2014. 21 Cass. civ., sez. III, 27 novembre 2014, n. 25211, cit.

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Questa loro peculiarità ha comunque permesso di individuare al suo interno diverse categorie di danno, ciascuna con proprie caratteristiche.

Tale differenziazione all’interno del danno non patrimoniale non è sempre stata pacifica poiché la giurisprudenza, per lungo tempo, ha scelto di ricondurre al danno non patrimoniale, e di conseguenza all’art. 2059 cod. civ., il solo danno morale soggettivo22.

Il danno morale soggettivo, per lungo tempo, è stato identificato tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza nel cd. petium doloris, inteso come sofferenza psichica transitoria conseguente al pregiudizio subito, con esclusione delle lesioni all’integrità ed alla salute della persona considerati, invece, danni materiali23.

Tale interpretazione restrittiva del danno non patrimoniale, ha dato adito a forti dubbi di costituzionalità, in particolare con riguardo al diritto alla salute, fisica e psichica.

Il sistema risarcitorio fondato sul combinato disposto degli artt. 2043 cod. civ. e 2059 cod. civ., come interpretato dalla dottrina e dalla giurisprudenza tradizionale, appariva in contrasto con gli artt. 3, 24 e 32 Cost. Ciò perché, secondo il predetto orientamento interpretativo, l’art. 2059 cod. civ. non garantiva la risarcibilità dei danni, di natura non patrimoniale, derivanti dalla violazione del diritto alla salute24. Secondo la risalente giurisprudenza, un danno così configurato non sarebbe stato risarcibile, né come danno patrimoniale, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., né come danno morale, ex art. 2059 cod. civ. Una tale lettura metteva però in luce l’incostituzionalità del disposto contenuto nell’2059 cod. civ. poiché contrastava con:

22 Definito dalle S.U. della Cassazione nel 2008 come: “patema d’animo o sofferenza

interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore”.

23

LIBERATI, Rapporto di lavoro e danno non patrimoniale, Milano, 2009, p. 28. 24 MONATERI, Danno e risarcimento, Torino, 2013, p. 113.

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- l’art. 32 Cost., perché non veniva riconosciuto rilievo a un diritto costituzionalmente garantito (diritto alla salute);

- l’art. 24 Cost., poiché si escludeva la tutela giurisdizionale a un diritto costituzionalmente garantito (diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti);

- l’art. 3 Cost., in quanto commisurare il risarcimento in base alla capacità del soggetto leso di produrre reddito significava creare ingiustificate disparità di trattamento25.

Una prima soluzione a questo quesito interpretativo venne fornita dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 88 del 197926, chiamata a pronunciarsi sulla questione di illegittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ.

La Suprema Corte giunse così a riconoscere l’onnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale aderendo completamente ad una interpretazione ampia e costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ.27

Tale decisione della Corte permise di allargare i margini di risarcibilità del danno non patrimoniale e di riconoscere la risarcibilità del danno

25 La considerazione dell’individuo esclusivamente sotto il profilo della capacità di guadagno era fonte di autentiche iniquità poiché tale concezione della risarcibilità finiva per negare il risarcimento in caso di mancato svolgimento di alcuna attività lavorativa, salvo poi ricorrere a finzioni, quali il cd. reddito figurativo, ovvero prendere in esame, nel caso di un minore, le condizioni socio-economiche e la tradizione familiare, facendo quindi ricorso a criteri altamente discrezionali se non proprio arbitrari. Famoso è il caso “Gennarino” (Trib. Milano 18 gennaio 1971, in

Giur. Merito, 1971, 210) in cui il figlio di un manovale rimasto vittima di un incidente

fu risarcito assumendo come parametro il reddito di un manovale, posto che si riteneva che il figlio avrebbe seguito la via intrapresa dal padre.

26

Corte Cost. 26 luglio 1979, n. 88, in Giur. Cost., 1979, I, 656. 27

Corte Cost, 26 luglio 1979, n. 88, cit., ove si afferma in motivazione che “gli artt.

2059 c.c. e 185 c.p., nel loro combinato disposto, espressamente stabiliscono che, ove un reato sia commesso, il colpevole è tenuto anche al risarcimento dei danni non patrimoniali. L’espressione “danno non patrimoniale”, adottata dal legislatore, è ampia e generale e tale da riferirsi a qualsiasi pregiudizio che si contrapponga, in via negativa, a quello patrimoniale, caratterizzato dalla economicità dell’interesse leso. Il che porta a ritenere che l’ambito di applicazione dei sopra richiamati artt. 2059 c.c. e 185 c.p. si estende fino a ricomprendere ogni danno non suscettibile direttamente di valutazione economica, compreso quello alla salute”.

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alla salute disancorandolo dalla capacità dell’individuo di produrre un reddito e considerandolo come un diritto autonomo e primario. Va però detto che, una prima apertura della giurisprudenza alla tutela del bene salute si era già verificata intorno a metà anni ’70. Accanto al danno morale puro, la giurisprudenza identificò un nuovo tipo di danno: il c.d. danno biologico28, espressione coniata dalla medicina legale e utilizzata inizialmente dalla giurisprudenza per identificare un tertium genus di danno, differente dal danno patrimoniale e dal danno non patrimoniale.

Un primo passo verso il riconoscimento del danno biologico fu infatti compiuto dal Tribunale di Genova, con la sentenza 25 maggio 197429, nella quale affermò che:

a) “ogni lesione del diritto alla salute della persona, vale a dire

all’integrità fisica in e per considerata,

indipendentemente dalle conseguenze sulla capacità

lavorativa e di guadagno del danneggiato, obbligava chi ha commesso il fatto a corrispondere una somma di denaro come risarcimento del c.d. danno biologico, di natura non patrimoniale, da indicare con l’espressione danno extra patrimoniale per distinguerlo da quello morale”;

b) “il risarcimento del danno extra patrimoniale, in aggiunta al danno patrimoniale e a quello morale, veniva calcolato con riferimento al reddito medio nazionale dell’anno della liquidazione, all’età del soggetto leso e al grado d’invalidità subita”.

Nella motivazione della sentenza, il Tribunale di Genova denunciò inoltre l’inadeguatezza del sistema di valutazione del danno e indicava la soluzione per la liquidazione del danno biologico in modo da non

28

Termine utilizzato per indicare il danno alla salute.

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creare disparità di trattamento a seconda della capacità reddituale del danneggiato.

Lo stesso Tribunale precisò che, in ogni caso, a fondamento della risarcibilità del danno alla salute doveva porsi l’art. 2043 cod. civ., norma generale in cui è stabilità semplicemente la risarcibilità di qualsiasi danno ingiusto sia esso patrimoniale o meno e, quindi, risarcibile senza dover sottostare alle limitazioni previste dall’art. 2059 cod. civ.

Successivamente, il Tribunale di Pisa30, andando di diverso avviso rispetto alla giurisprudenza genovese, negò la configurabilità del danno alla salute come danno extra patrimoniale, ossia come tertium genus, ferma restando la non utilizzabilità dell’art. 2059 cod. civ. ai fini del risarcimento del danno alla salute essendo tale norma tradizionalmente riferita al danno morale soggettivo, ossia ai patimenti dell’individuo correlati al fatto dannoso.

All’interno di questo dibattito giurisprudenziale, venne ad inserirsi la giurisprudenza di legittimità che, con la sentenza n. 3675 del 198131, affermava che “la lesione dell’integrità fisica costituisce di per sé danno risarcibile”. In maniera più dettagliata, qualche anno dopo, la stessa Corte di Cassazione asserì che il bene-salute era oggetto di un autonomo diritto primario ed assoluto e che il risarcimento del danno dovuto non poteva limitarsi alle sole conseguenze che incidono sull’attitudine a produrre reddito, ma deve ricomprendere anche il c.d. danno biologico. La stessa Corte dava anche un’interpretazione più ampia e completa del danno biologico inteso come “la menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega

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Trib. civ. Pisa 10 marzo 1979, in Resp. civ. e prev., 1979, 356.

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alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma

anche biologica, sociale, culturale ed estetica”32.

Sul piano sistematico, tuttavia, il fondamento della responsabilità continuò ad essere individuato nell’art. 2043 cod. civ. quale clausola generale a cui andava ricondotta la species del danno biologico, al pari del danno patrimoniale, comprendente la menomazione dei rapporti giuridici patrimoniali che fanno capo al soggetto, e del danno non patrimoniale, ristretto alla nozione della somma delle sofferenze fisiche e morali conseguenti al torto subito e risarcibile nei limiti dell’art. 2059 cod. civ.33 Venne così ad affermarsi nella giurisprudenza di legittimità la tesi che ricostruiva il danno alla salute come tertium genus rispetto al danno patrimoniale e al danno morale.

Tale impostazione venne poi recepita anche dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 184 del 198634 con la quale il danno biologico venne ricondotto ad un tertium genus in virtù del combinato disposto