• Non ci sono risultati.

CAPITOLO TRE: MILD COGNITIVE IMPAIRMENT (MCI)

3.3 Declino della Memoria

Struttura fondamentale nel processo mnesico è l’ippocampo. La sua attività si lega a compiti associati alla memoria dichiarativa o esplicita. Quest’ultima coincide con il concetto più comune di memoria ovvero l’abilità di recuperare informazioni riguardo eventi e esperienze che il soggetto ha appreso o cha ha vissuto nella sua vita. Infatti la memoria dichiarativa viene distinta in:

● semantica, ovvero tutte le conoscenze che il soggetto ha appreso; ● episodica, ovvero tutte le conoscenze che il soggetto ha vissuto in

un determinato luogo e in un determinato momento. E’ strettamente connessa all’integrità del Sé del soggetto e si definisce in termine di stati mentali e di abilità linguistiche.

Tutte le informazioni, apprese e consolidate, rientrano in quella che viene chiamata memoria a lungo termine. Per poter mostrare l’evidenza di danni della MLT, e di conseguenza dell’ippocampo, le prove di riconoscimento della memoria risultano essere fondamentali. La perdita di sinapsi a livello della regione del corno di Ammone 1 del giro dentato dell’ippocampo (CA1) si associa con deterioramento mnesico che conduce a MCI e alla demenza di Alzheimer. (J. H. Morrison e al., 2013). Questa atrofia, perciò, risulta essere

un’importante discriminante tra l’invecchiamento normale e l’invecchiamento patologico.

Il costrutto della WM evolve dal concetto di Memoria a Breve Termine (MBT) e ancora oggi i due termini vengono usati in maniera interscambiale seppure esistano delle differenze. Baddeley (2012) sostiene che con il termine di MBT ci si riferisce a quelle informazioni temporaneamente immagazzinate, mentre la WM implica una componente di immagazzinamento e di manipolazione dei dati ed è descritta come la capacità di tenere a mente gli eventi e non coincide con la Memoria a Lungo Termine (J. H. Morrison e al., 2013). Il modello della memoria, che Baddeley ha cominciato a elaborare a partire dagli anni ‘70, è stato una conseguenza delle critiche rivolte al modello di Atkinson e Shiffrin (1968). Ecco che nel 1974 Baddeley e Hitch elaborano il primo modello della WM, che nel tempo ha subito ulteriori modifiche.

La WM è considerata una struttura multi-componenziale costituita da due sistemi operativi coordinati da un sistema di supervisione. Inizialmente il modello prevede la presenza di un Centrale Esecutivo (CE) che ha il compito di selezionare le strategie più adatte e di programmare le sequenze operative più corrette per quel tipo di compito (A. D. Baddeley, 1990). Le due componenti supervisionate dal CE sono il Phonological Loop, legata a stimoli di natura uditivo-verbale, e Visuo-Spatial Sketch Pad, legata a stimoli di natura visuo-spaziale. Il circuito del Phonological Loop comporta l’attivazione delle aree temporo-parietali di sinistra. Questo è costituito da due componenti il Ripasso Articolatorio e il Magazzino Fonologico. Le informazioni di natura uditivo-verbale giungono al livello del Magazzino Fonologico, che ha sede a livello parietale inferiore-temporale di sinistra, dove l’informazione viene mantenuta per poi essere elaborata e ripetuta tramite l’Articulatory Loop che coinvolge il giro frontale inferiore sinistro, il giro precentrale e l’area supplementare motoria. Il Visuo-Spatial Sketch Pad è costituito da due componenti il Visual Cache, che si lega alla componente spaziale degli stimoli ritenendo temporaneamente i dettagli visivi, e l’Inner Scribe, per la processazione spaziale. Il concetto di CE come scrive Baddeley nel 1986 incorpora il Sistema Attentivo Supervisore (SAS) descritto da Shallice e Norman. Negli anni, però, Baddeley modifica questo modello iniziale anche grazie a casi clinici importanti e noti, come quello della paziente PV. Grazie a ciò nota l’esistenza di un legame tra la WM e la MLT (Figura 3.3). La WM risulta essere costituita da un insieme di sistemi fluidi, mentre la MLT risulta essere rappresentata da conoscenze cristallizzate.

Figura 3.3 Modificazione del modello originale tenendo conto del collegamento tra la WM e la MLT. Tratto dall’articolo di Baddeley dal titolo Working memory: theories, models and

controversies

Secondo questo modello la WM è costituita da sistemi gerarchicamente inferiori detti slave systems che elaborano materiale uditivo o spaziale e da un CE che coordina il loro funzionamento. Solamente nel 2000 come sistema schiavo viene aggiunto il buffer episodico, decretando l’ultima importante variazione nel modello della memoria di lavoro da lui ipotizzato. Grazie al funzionamento del buffer è possibile l’integrazione delle informazioni provenienti dai sistemi sensoriali con le informazioni immagazzinate nella MLT. Si è potuto osservare che nell’anziano i deficit della WM possono derivare da una diminuzione della capacità on-line, da limitate abilità di immagazzinare, di processare e di manipolare le informazioni. Tale indebolimento è determinato da maggiori difficoltà che coinvolgono il CE e spiega anche le difficoltà dell’anziano a passare da un compito all’altro (switching among different tasks) (D. C. Park e al, 2001).

La WM è strettamente legata all’attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale (dlPFC), che svolge anche compiti di natura esecutiva permettendo di raggiungere un obiettivo in una determinata situazione evitando di violare le regole e seguendo la sequenza appropriata. Questa area è sviluppata maggiormente negli uomini e nei primati non umani (NHPs) rispetto agli altri animali. Risulta così che la dlPFC sia una delle aree più recentemente sviluppate e più complesse a livello di circuiteria essendo adibita a compiti articolati. Per questo motivo risulta essere la regione che

per prima, a causa della vecchiaia, tende a indebolirsi diminuendo volumetricamente a differenza dell’ippocampo. La dlPFC (area 46 di Broadmann) in vecchiaia tende a perdere sinapsi nello strato 1 e 3, suggerendo come la perdita di neuropil sia responsabile dell’atrofia di questa zona. Nel tempo, poi, questa regione tende a disconnettersi dalle aree prefrontali e temporali a causa di una perdita di fibre e difetti mielinici (J. H. Morrison e al., 2013).

Di fronte a tutto ciò si può sostenere come il declino cognitivo aumenti con l’età della vecchiaia. Diversi neuroscienziati si sono domandati la differenza fra il declino in un individuo con normale invecchiamento e quello di un individuo affetto da patologie neurodegenerative come l’Alzheimer. Seppure entrambi hanno un declino della memoria, nell’invecchiamento non patologico le funzioni esecutive o le abilità visuo-spaziali o il linguaggio o la Cognizione Sociale restano intatte a differenza dei soggetti con patologie dementigene. Anche la componente genetica ha il suo ruolo nella manifestazione e nell’evoluzione della malattia. L’apporto fondamentale deriva dai vari allotipi dell’apoliproteina E (ApoE). Tra tutte queste varianti l’ApoE4 è il più forte fattore di rischio, insieme ad altri geni non identificati, nello sviluppo di patologie come l’Alzheimer (B. H. Anderton, 2012). Queste si possono presentare, anche, in forme rare e precoci a causa di mutazioni autosomiche dominanti come ad esempio l’AD che prevede il coinvolgimento dei geni per l’APP e le preseniline 1 e 2. Inoltre recentemente è stato identificato un nuovo locus sul cromosoma 10 per la patologia di AD (A. Myers et al., 2000). Seppure la genetica ha una sua rilevanza, il fattore ambientale non può essere dimenticato. Il cervello dell’essere umano non è qualcosa di passivo e di determinato, ma è attivo e sensibile agli eventi esterni. Gli studiosi della psicologia dell’invecchiamento tengono in considerazione l’interazione tra il gene e l’ambiente, che può favorire l’insorgenza di un pathological aging.