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La delimitazione della giurisdizione della Corte dei conti nel passaggio dal criterio soggettivo a quello oggettivo L’esclusione della

PARTECIPAZIONE PUBBLICA

2. La delimitazione della giurisdizione della Corte dei conti nel passaggio dal criterio soggettivo a quello oggettivo L’esclusione della

responsabilità amministrativa per l’attività di impresa.

I primi approcci interpretativi con riferimento all’estensione della responsabilità amministrativa per gli amministratori e i dipendenti degli enti pubblici economici e delle società a partecipazione pubblica sono segnati dall’avvicendamento di soluzioni interpretative assai diverse.

La Corte di Cassazione, in connessione con l’evoluzione dell’assetto organizzativo della pubblica amministrazione, ha progressivamente definito un regime di esenzione connesso al carattere imprenditoriale delle funzioni svolte.

Secondo l’impostazione originariamente accolta dalla Suprema Corte sin dalla pronuncia del 5 febbraio 1969, n. 363, la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità degli amministratori risultava delimitata dalla presenza di due elementi: sotto il profilo soggettivo, si richiedeva la natura pubblica dell’amministrazione o dell’ente al quale l’agente era legato da un rapporto di servizio, mentre il profilo oggettivo rifletteva la qualificazione pubblica del denaro o del bene oggetto della gestione nell’ambito della quale si era verificato l’evento fonte di responsabilità.

A seguito dell’intervento dell’ordinanza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 2 marzo 1982, n. 1282, l’orientamento sopra richiamato cambiò sensibilmente per restare, poi, sostanzialmente immutato per poco più di un ventennio.

Fermi restando i presupposti precedentemente individuati, la Suprema Corte, con riferimento agli enti pubblici economici, ritenne di limitare la giurisdizione della Corte dei conti alle sole ipotesi in cui il danno fosse provocato dall’esercizio di un’attività amministrativa in senso proprio.

Si riteneva, infatti, che «se il carattere generale della giurisdizione della Corte dei conti non può essere messo in dubbio, quando ricorrano i due elementi, l’uno soggettivo che attiene alla natura pubblica dell’ente e l’altro oggettivo che riflette la qualificazione pubblica del denaro, tale giurisdizione va peraltro esclusa in relazione agli enti

pubblici economici, con riguardo alle attività che si collocano nell’ambito dell’esercizio imprenditoriale che è proprio di tali enti»145.

La predetta impostazione giungeva quindi ad affermare una sostanziale incompatibilità fra responsabilità amministrativa e attività imprenditoriale.

In siffatto contesto, l’assunzione del rischio economico, connesso alla natura imprenditoriale dell’attività svolta, finiva per precludere in partenza l’adozione di scelte che potessero essere in qualche modo vincolate al rispetto delle regole della contabilità pubblica.

Si tratta di un approccio che affonda le sue radici in articolate riflessioni che riposano sull’analisi dei profili genetici degli enti pubblici economici e delle stesse modalità operative che li contraddistinguono.

Infatti, veniva espressamente rilevato che «gli enti pubblici economici svolgono funzione di regolamentazione dell’economia, e quindi perseguono finalità di carattere pubblico, attraverso un’attività di produzione per il mercato e d’intermediazione nello scambio al pari degli imprenditori privati. Essi normalmente svolgono la loro attività nelle forme del diritto privato (artt. 2093 e 2201 c.c.) e in tale svolgimento sono soggetti alla disciplina dell’imprenditore privato.

La categoria degli enti pubblici economici è, infatti, sorta proprio per la necessità di realizzare un tipo di organizzazione più idoneo allo svolgimento di attività d’impresa, svincolata dalle regole troppo rigide della contabilità pubblica e sottoposta a forme più appropriate di controllo, e per rendere possibile il conseguimento di utili attraverso la partecipazione alla vita degli affari, di regola in regime di concorrenza

con gli imprenditori privati del settore. Il conseguimento degli utili – cioè il fine di lucro – se non in chiave di pura redditività, deve essere inteso come diretto a realizzare almeno quanto occorre per compensare i fattori produttivi impiegati e, se non costituisce lo scopo ultimo della creazione degli enti pubblici economici (rappresentato dalla pubblica finalità per la quale essi vengono costituiti), deve normalmente essere soddisfatto al fine di consentire all’ente di vivere ed operare, essendo gli utili connessi al modo in cui l’attività economica viene svolta»146.

La giurisprudenza successiva, escluse alcune sporadiche eccezioni147, si è tendenzialmente uniformata al principio espresso

nell’ordinanza n. 1282/1982, premurandosi, talvolta, di offrire un più articolato approfondimento delle ragioni che depongono per l’esclusione della giurisdizione della Corte dei conti.

In particolare, l’ordinanza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 21 ottobre 1983, n. 6178, ha incentrato il proprio apporto motivazionale sull’analisi della nozione di “contabilità pubblica” per

146 Così, Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza 2 marzo 1982, n. 1282.

147 Per ragioni di completezza, appare opportuno sottolineare che l’orientamento

espresso dalla Suprema Corte non è stato da subito oggetto di un pacifico accoglimento da parte del giudice contabile. A ridosso dell’ordinanza n. 1282/1982 la Corte dei conti, Sez. I Giur., 26 aprile 1982, n. 53, ha, infatti, affermato la sussistenza della propria giurisdizione sulla responsabilità di un funzionario dipendente da un ente pubblico economico. Nella pronuncia della Corte dei conti, Sez. I Giur., 16 settembre 1972, n. 103, invece, è stata sostenuta la giurisdizione contabile nei confronti di un ente di gestione delle partecipazioni statali, adducendosi la maggior incidenza dei profili pubblicistici che contraddistinguerebbero tali tipologie di enti al cospetto dei normali enti pubblici. L’epilogo della vicenda è stato poi segnato dalla pronuncia della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 14 dicembre 1985, n. 6328 – sulla quale v. infra questo Capitolo - che ha confermato l’orientamento dell’ordinanza n. 1282/1982 più volte menzionata.

negarne la riferibilità all’attività posta in essere da soggetti preposti all’esercizio di funzioni imprenditoriali.

Secondo quanto chiarito dalla Corte in tale ultima pronuncia, infatti, «la nozione di contabilità pubblica, certamente differenziata, quand’anche legislativamente non definita, non può invero intendersi se non con riferimento al costituito sistema normativo pubblicistico che, per lo Stato e per altri enti Pubblici, territoriali e non, tipicamente regola i modi di acquisizione, gestione, impiego e conservazione dei mezzi finanziari mediante i quali l’ente pubblico persegue e realizza i propri fini istituzionali, nonché i controlli sui comportamenti e le attività al riguardo dovuti o concretamente posti in essere dai soggetti che quei mezzi, sotto i profili e per i fini indicati amministrano».

In altri termini, in assenza di un modello comportamentale sufficientemente dettagliato, per gli enti pubblici economici difetterebbero quei parametri a cui poter rapportare la legittimità dell’attività imprenditoriale posta in essere.

Infatti, si ritiene che «costituisce ulteriore e indeclinabile presupposto per affermare la giurisdizione della Corte dei conti in ordine ai giudizi di responsabilità l’esistenza di norme del sistema da cui nei sensi chiariti si deduce la nozione di contabilità pubblica che prefigurino uno schema di comportamento, nell’esercizio della propria funzione, del soggetto sottoposto a giudizio.

Ciò è certamente per lo Stato e per gli Enti pubblici non economici (…) per la diretta immediata realizzazione degli istituzionali fini di interesse generale, con attività per ogni aspetto tipicamente e precisamente regolata, e rigidamente sottoposta a controllo; e invece

non è per gli enti pubblici economici, al riguardo dell’attività imprenditoriale esercitata che, per le proprie caratteristiche strutturali e funzionali, esula dalla materia della contabilità pubblica, e non è, e non può ritenersi regolata dal menzionato sistema normativo a quella pertinente».

Tali profili sono stati oggetto di analisi anche nella coeva pronuncia della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 21 ottobre 1983, n. 6179, che si è soffermata maggiormente sulle caratteristiche essenziali che consentono di contrapporre l’attività amministrativa a quella imprenditoriale, con le conseguenti differenziazioni in ordine all’applicabilità di relativi regimi di responsabilità differenziati.

Secondo quanto affermato dalla Corte in tale pronuncia, «l’azione amministrativa infatti deve essere conforme a specifici precetti ed il suo esercizio è subordinato alla sussistenza di determinati presupposti nonché all’osservanza di particolari forme e limiti; la «discrezionalità amministrativa» peraltro non è libertà ma solo facoltà di scelta per l’organo pubblico tra i più possibili provvedimenti, scelta che deve essere in ogni caso operata – come ha osservato la dottrina – in relazione all’interesse pubblico generico, nonché a quel concreto interesse pubblico per la cui realizzazione il potere è stato conferito, riguardo al che ancora la dottrina ha sottolineato la netta differenza rispetto all’autonomia privata.

Orbene, allorquando il dipendente di un ente pubblico economico (o comunque la persona ad esso legata da rapporto di servizio) deve adottare determinate iniziative, proprio perché esse attengono alla gestione di un’impresa la quale opera completamente

nell’area di diritto privato (…), non può mai configurarsi l’uso da parte sua di un potere di “discrezionalità amministrativa” nel senso sopra indicato, bensì solo l’esercizio di quelle facoltà rientranti, per l’appunto, nel potere d’iniziativa economica privata che – essendo il dipendente tenuto ad agire ovviamente, non nell’interesse proprio, bensì in quello dell’ente a cui appartiene – dovrà in ogni caso essere conforme a quei criteri di correttezza, diligenza e fedeltà che presiedono alla materia delle obbligazioni (…).

Mentre pertanto per gli enti pubblici non economici si giustifica - ai fini della valutazione delle responsabilità dei preposti ai propri organi - una giurisdizione specializzata quale è quella della Corte dei conti, nei riguardi degli enti pubblici economici non vi è ragione alcuna di derogare alla giurisdizione del giudice ordinario che è quella istituzionalmente investita per giudicare in materia di responsabilità conseguente a violazione delle norme del diritto privato.

Richiamando peraltro quanto sopra argomentato circa la distinzione ontologica e funzionale fra l’apparato della pubblica amministrazione e l’impresa pubblica nonché i distinti settori di operatività dell’uno e dell’altra sia pur nella prospettiva per l’uno e per l’altra dell’interesse generale, si osserva ancora come non possa condividersi l’opinione secondo cui gli enti pubblici sarebbero legati da un rapporto di servizio verso lo Stato, come tale giustificante, nella materia di che trattasi, la deroga alla giurisdizione ordinaria».

In conformità a quanto già affermato nelle precedenti sentenze nn. 4244, 5184, 6009 del 1979 e n. 2 del 1980, si è infatti ritenuto che la giurisdizione contabile sia configurabile «nell’esclusiva ipotesi di

sussistenza di un “effettivo rapporto di servizio” in senso tecnico- giuridico nei confronti dello Stato-amministrazione, con riferimento peraltro alle pubbliche funzioni da esso svolte – ancorché attraverso altri enti di ciò investiti – e non già ai compiti di natura economica che lo Stato-comunità assume in un determinato momento storico nel modo che si è in precedenza evidenziato».

A conclusioni analoghe si perveniva con riferimento al regime di responsabilità applicabile nel caso di danni direttamente cagionati all’organizzazione di appartenenza da parte di amministratori e dipendenti di società per azioni in mano pubblica. In particolare, nella pronuncia della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 14 dicembre 1985, n. 6328, l’incompatibilità fra responsabilità amministrativa e il modello operativo societario è stata addotta come argomento per giustificare la permanenza della giurisdizione ordinaria sulla responsabilità degli amministratori degli enti pubblici di gestione delle partecipazioni statali (fino ad allora non direttamente investiti da alcuna pronuncia della Suprema Corte).

Infatti, si rilevava che «Le società operative sono soggette interamente al diritto privato e la responsabilità dei loro amministratori è quella di cui agli artt. 2392 e ss. c.c.. Gli amministratori degli enti di gestione quali organismi di mediazione fra i soggetti che assumono le decisioni politiche e le società operative, hanno un rapporto di carattere pubblicistico col Governo (…) ma il loro operare non può essere ispirato a criteri diversi da quelli a cui devono obbedire le società partecipate, a pena dell’irrealizzabilità del criterio dell’economicità e cioè dell’equilibrio fra i fattori di produzione ed i costi – da un lato – ed i

ricavi dei beni o dei servizi prodotti – dall’altro; criterio che garantisce il mantenimento in vita dell’impresa»148.

La soluzione è rimasta pressoché immutata per lungo tempo, sino a quando la stessa Corte di Cassazione ha modificato radicalmente la precedente percezione del problema, estendendo la configurazione di una tale responsabilità anche in capo agli enti pubblici economici e alle società per azioni a partecipazione pubblica.

3. L’approdo al criterio della natura delle risorse impiegate

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