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DELLA CIRCOLAZIONE DEI CAPITALI NELLA COMUNITÀ ECONOMICA

Nel documento Cronache Economiche. N.004, Anno 1984 (pagine 27-33)

EUROPEA

Edoardo Greppi

P R E M E S S A

La Comunità Economica Europea, istituita con il Trattato di Roma del 25 marzo

1957, ha la finalità di promuovere «uno sviluppo armonioso delle attività economi-che (...), un'espansione continua ed equili-brata, una stabilità accresciuta, un miglio-ramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni fra gli Stati che ad essa partecipano» (art. 2).

Per conseguire questi obiettivi generali, il Trattato predispone due mezzi strumenta-li: l'instaurazione di un mercato comune e il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri.

Nucleo fondamentale del mercato comune è l'unione doganale, che comporta l'aboli-zione dei dazi doganali all'importal'aboli-zione e all'esportazione e delle tasse di effetto equivalente nonché il divieto di restrizioni quantitative e delle misure di effetto equi-valente, oltre alla adozione di una tariffa doganale comune per i rapporti di scambio con Stati terzi. Si viene così a determinare una situazione di libera circolazione delle merci nell'ambito del sistema comunitario. Tuttavia, l'elemento peculiare che caratte-rizza la CEE è costituito dal superamento del semplice schema libero-scambista, nel-l'intento di creare condizioni favorevoli alla produzione. Perciò il Trattato ha inte-grato le norme che disciplinano la libertà di circolazione delle merci con misure fi-nalizzate a garantire la mobilità dei fattori produttivi, in particolare persone, servizi e capitali.

Il sistema comunitario, quindi, supera i li-miti di una semplice unione doganale per' realizzare un unico mercato, con la libera-lizzazione di tutti i fattori produttivi. La realizzazione di una effettiva libertà di circolazione per i fattori economici non è, tuttavia, possibile ove ci si limitasse ad eli-minare gli ostacoli. Lo stadio successivo prevede l'armonizzazione della attività normativa degli Stati e il coordinamento globale delle politiche economiche. Se, in-fatti, le legislazioni nazionali rimanessero differenti e le politiche economiche fossero divergenti, sarebbero gravemente compro-messe le possibilità di realizzare il mercato comune e, quindi, di conseguire gli obietti-vi ambiziosi che il Trattato pone.

Senza una preliminare, compiuta realizza-zione del mercato comune in tutti i suoi

aspetti, è impensabile, poi, che si riesca ad operare il passaggio alla integrazione so-prannazionale della politica economica, che comporta necessariamente il trasferi-mento di alcuni elementi della sovranità economica degli Stati membri agli organi dell'unione. Mentre per l'attuazione di un mercato comune possono risultare suffi-cienti una limitata attribuzione di compe-tenze circoscritte, l'armonizzazione delle legislazioni e il coordinamento delle politi-che, una unione economica presuppone un vero e proprio trasferimento di sovranità dagli Stati alla Comunità. Essa sarebbe cioè dotata di strumenti e poteri per deci-dere ed attuare una politica comunitaria e non semplicemente investita di compiti di coordinamento di politiche decise dagli Stati nazionali.

Nei primi anni di vita della Comunità, i progressi più significativi verso la creazio-ne di un mercato comucreazio-ne sono stati realiz-zati per quanto riguarda le merci e la rela-tivamente più semplice delle libertà inte-grative: quella concernente le persone, spe-cialmente nella loro qualificazione come «lavoratori». Scarso interesse è stato, inve-ce, dedicato in quei primi anni alla libera circolazione dei servizi e dei capitali. Pro-gressivamente, in seguito, si è affermata la consapevolezza della impossibilità di rea-lizzare un mercato unico senza dare attua-zione alle liberalizzazioni di servizi e capi-tali.

N O R M A T I V A C O M U N I T A R I A E M I S U R E R E S T R I T T I V E DEGLI S T A T I

Il problema della circolazione dei capitali è complesso e delicato a causa dei suoi ri-flessi di politica economica e monetaria e per le sue connessioni con l'andamento della bilancia dei pagamenti.

Soltanto a partire dal 1981 è iniziata una elaborazione giurisprudenziale da parte della Corte di Giustizia delle Comunità eu-ropee volta a precisare caratteri e limiti di questa quarta libertà.

Ma, prima di esaminare le pronunce della Corte in materia, è opportuno dare uno sguardo alla disciplina delineata dal Trat-tato di Roma.

materia di libera circolazione dei capitali non si discosta molto dallo schema delle altre tre liberalizzazioni. Comporta, infatti, un obbligo di graduale soppressione delle restrizioni esistenti (art. 67), accompagnato da una clausola di consolidamento o di «stand-stili» per le nuove restrizioni (art. 71)'. Quindi, un primo esame indurrebbe a ritenere possibile una lettura sinottica di norme tra di loro equivalenti e volte a libe-ralizzare in eguale misura i diversi fattori produttivi.

In realtà, un esame più approfondito del-l'art. 67 ci rivela che la graduale soppres-sione di restrizioni e discriminazioni si rea-lizza soltanto «nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comu-ne». Questo inciso non è presente, invece, negli artt. 48 (circolazione dei lavoratori), 52 (diritto di stabilimento), 59 (prestazione di servizi), e anche ove è inserito nel Trat-tato (ad esempio nell'importante art. 235), si parla soltanto di «funzionamento» tout court e non di «buon funzionamento». Anche questa differenziazione terminologi-ca non è terminologi-casuale in un trattato internazio-nale negoziato a lungo e con ponderazione dalle nutrite delegazioni di abili politici ed esperti giuristi di sei tra i più avanzati Sta-ti del mondo. È stata, quindi, adottata una formulazione cauta, rispettosa della pecu-liarità di un processo di liberalizzazione che porta innegabilmente con sè delicate implicazioni e riflessi potenzialmente di-rompenti sulle politiche economiche e mo-netarie degli Stati membri. Dal momento che l'art. 104 riconosce il diritto degli Stati di attuare una politica economica finaliz-zata alla garanzia dell'equilibrio della bi-lancia dei pagamenti, al mantenimento della fiducia nella propria moneta, alla as-sicurazione di un alto livello di occupazio-ne e della stabilità del livello dei prezzi, sa-rebbe stata palesemente incompatibile una situazione giuridica che sottraesse imme-diatamente allo Stato il controllo sui movi-menti di capitali.

D'altra parte, occorreva rispettare gli obiettivi di fondo del Trattato, tra i quali è enunciato quello della eliminazione fra gli Stati membri degli ostacoli alla libera cir-colazione delle persone, dei servizi e dei capitali (art. 3, lett. c). È fuori dubbio che, senza libertà di circolazione per i capitali, verrebbe meno uno dei presupposti essen-ziali alla realizzazione del mercato comu-ne. Inoltre, se si ammettesse il permanere

di restrizioni di rilievo in questo campo, si comprometterebbe gravemente l'applica-zione di altre norme del Trattato, e, fra queste, in primo luogo quelle relative al di-ritto di stabilimento e alla libertà di presta-zione dei servizi. Esse presuppongono, in-fatti, la possibilità per gli operatori econo-mici (persone fisiche o persone giuridiche che siano) di muovere liberamente capitali da uno Stato all'altro.

La normativa comunitaria risponde, dun-que, a due opposte esigenze: da una parte la fedeltà all'obiettivo «liberista», confor-memente allo spirito e alla lettera del Trat-tato; dall'altra parte, quella non meno im-portante della salvaguardia di vitali inte-ressi nazionali e di talune sfere della sovra-nità economica che risultano particolar-mente delicate, specie nei periodi di crisi generalizzata e, per certi versi, quasi strut-turale, come quelli che viviamo in questi anni.

Di queste due opposte esigenze, mi pare che abbia finora prevalso la seconda, con un puntiglioso riguardo per le previsioni di politica economica e monetaria nazionale a detrimento del rispetto della ispirazione liberista del Trattato e delle essenziali fina-lità di attuazione di un vero e proprio mer-cato «comune», fondato sulla concreta e compiuta realizzazione delle «quattro li-bertà» di circolazione dei fattori di produ-zione.

Dal momento che il Trattato, come si è vi-sto, adottando l'espressione «misura neces-saria al buon funzionamento del mercato comune», non ne precisa i contorni, il compito di stabilire il confine tra liberaliz-zazione e salvaguardia è conferito al Con-siglio dei ministri, che è sì organo normati-vo comunitario (e, quindi, interprete di una volontà comune), ma che è anche espressione dei governi nazionali. I suoi atti, quindi, sono il risultato di una costan-te e, spesso, faticosa mediazione diplomati-ca degli individuali interessi degli Stati membri. L'art. 69 assegna al Consiglio il compito di stabilire le direttive necessarie alla progressiva attuazione delle disposi-zioni dell'art. 67. Una impostazione di questo genere è conforme al principio di «gradualità», tipico del sistema comunita-rio, preoccupato di evitare, brusche altera-zioni e dirompenti effetti sugli ordinamenti giuridici e sulle politiche economiche degli Stati.

La specificità della disciplina della

circola-zione dei capitali è confermata anche dal l'art. 71 che contempla una clausola c.d. di «stand-stili». La formulazione qui adotta ta è molto attenuata e circoscritta, rispetto a quelle scelte per le norme affini in mate ria di diritto di stabilimento e di prestazio ne di servizi. Anzitutto si limita a fare rife rimento esplicito soltanto alle «restrizioni

di cambio pregiudizievoli ai movimenti dei

capitali e ai pagamenti correnti relativi a tali movimenti» e lascia, quindi, agli Stati la facoltà di introdurre restrizioni diverse (per esempio in materia di investimenti) In secondo luogo, la scelta terminologica induce a ritenere che l'art. 71, a differenza degli artt. 53 in materia di stabilimento e 62 in materia di servizi, non ponga un vero e proprio obbligo giuridico di non intro-durre nuove restrizioni. La formulazione adottata è, infatti, più blanda: «gli Stati membri procurano di non introdurre...» («s'efforcent», «shall endeavour to», «werden bestrebt sein»). Gli artt. 53 e 62 usano, invece, la più perentoria locuzione «non introducono...».

La cautela terminologica è, anche qui, specchio di una significativa cautela nor-mativa. Si tratta di una «non binding stand stili obligation», di una dichiarazione di intenzioni avente valore di indirizzo politi 1

co, finalizzata ad orientare le scelte degli Stati membri.

Accanto a queste norme (artt. 67 e 71) i! Trattato pone una clausola di salvaguardia (art. 73): nei casi in cui certi movimenti di capitali «provochino turbamenti nel funzio-namento del mercato dei capitali di uno Stato membro», lo Stato può essere autoriz-zato dalla Commissione ad adottare « misu-re di protezione». Anche in questo caso, come si vede, il Trattato oscilla tra la fon-damentale ispirazione liberista e il riguardo per le preoccupazioni protezionistiche. Da quanto detto finora, si ricavano ele-menti per una prima approssimativa con-clusione: il quadro normativo delineato dal trattato è caratteristico per la sua singolari-tà, per le peculiarità che lo differenziano da quelli relativi agli altri fattori produtti-vi. Inoltre, per la formulazione che non presenta i necessari caratteri i chiarezza e precisione, l'art. 67, n. 1 è privo di effica-cia diretta e non può essere fatto valere di-nanzi ai giudici nazionali2. In altre parole, se la norma dell'art. 67 non viene tradotta dal Consiglio in direttive di attuazione che ne precisino i caratteri e le conferiscano il

connotato della obbligatorietà, non c'è spa-zio per situaspa-zioni giuridiche soggettive di-rettamente in capo ai singoli. Il Trattato, non contemplando in materia norme diret-tamente applicabili, conferisce invece al Consiglio un esclusivo potere discrezionale di determinare, mediante direttive, le mo-dalità di attuazione, i tempi e i contenuti della azione liberalizzatrice3. Se il Consi-glio non esercita questo suo potere, la libe-ralizzazione non progredisce. D'altra par-te, nelle sue poche pronunce in materia, la Corte ha, a sua volta, palesemente rifiutato di sostituirsi al Consiglio, ed è stata molto cauta, deludendo le aspettative di quanti auspicavano una presa di posizione più netta in senso liberalizzatore.

Non è, tuttavia accettabile una interpreta-zione troppo riduttiva della disciplina del Trattato, quasi che ogni limitazione da parte degli Stati in materia possa essere considerata lecita. In realtà, sussiste pur sempre l'obbligo posto dall'art. 5 del Trat-tato, ove si afferma che «gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere gene-rale o particolare atte ad assicurare l'esecu-zione degli obblighi derivanti dal presente Trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità. Essi facilitano quest'ultima nell'adempimento dei propri compiti. Essi si astengono da qualsiasi mi-sura che rischi di compromettere la realiz-zazione degli scopi del presente Trattato». Premesso che non vi è dubbio che la libe-ralizzazione dei capitali rientri negli scopi del Trattato (art. 3 lett. c), da questa nor-ma fondamentale consegue, evidentemen-te, che uno Stato che deliberatamenevidentemen-te, per-sistentemente adottasse ed applicasse mi-sure restrittive, incorrerebbe nella contra-rietà all'obbligo generale di cooperazione sancito dal citato art. 5. Soltanto una pro-gressiva adozione di direttive può, quindi, precisare la normativa del Trattato istituti-vo ed orientarne lo sviluppo. Le direttive emanate dal Consiglio vanno ad integrare l'art. 67, ne determinano i contenuti, pre-cisano la nozione di «buon funzionamento del mercato comune» e la linea di demar-cazione tra questa e i poteri lasciati agli Stati con l'art. 104. Ecco, dunque, che l'art. 67, in sè e per sè privo di efficacia di-retta, viene ad acquisirla gradualmente man mano che il Consiglio emana direttive ex art. 69 che ne precisano i lineamenti e rendono concreta la portata normativa. Direttive di attuazione dell'art. 67 sono

state effettivamente adottate nei primi anni del mercato comune: la prima l'Il.V. 1960 (in Gazzetta Ufficiale delle Comunità Eu-ropee L43 del 12.VII.1960) modificata dal-la seconda del 18.XII.1962 (in G.U.C.E. L9 del 22.1.1963). Poi, più nulla, a confer-ma della difficoltà per gli Stati membri di trovare un accordo per realizzare un mer-cato unico anche per i capitali.

Le due direttive del 1960 e del 1962, in li-nea con l'art. 71, concernono soltanto le restrizioni di cambio e portano in allegato una lunga elencazione di differenti fattispe-cie soggette ad un diverso grado di libera-lizzazione.

Una prima categoria (elenco A: investi-menti diretti, moviinvesti-menti di capitali di pri-vati, movimenti collegati con gli scambi di merci) è quella dei movimenti collegati con l'esercizio delle altre libertà fondamen-tali, ed è oggetto di liberalizzazione com-pleta; le relative autorizzazioni sono atti dovuti.

Una seconda categoria (elenco B: operazio-ni su titoli negoziati in borsa) prevede l'e-missione da parte degli Stati di «autorizza-zioni generali».

Per una terza categoria (elenco C: emissio-ne e collocamento di titoli sui mercati fi-nanziari, concessione e rimborso di crediti e prestiti a medio e lungo termine, cauzio-ni), molto ampia, gli Stati accordano un'autorizzazione di cambio, salvo incom-patibilità con gli obiettivi nazionali di poli-tica economica.

La quarta categoria, residuale, (elenco D: movimenti di capitali a breve termine, in-vestimenti a breve in titoli, accensione e alimentazione di conti correnti, concessio-ne e rimborso di crediti e prestiti a breve, prestiti personali, movimenti di titoli o al-tri mezzi di pagamento e di oro) è costitui-ta da movimenti che sono esenti da libera-lizzazione.

Dalle direttive emerge senz'altro il ricono-scimento della facoltà dei soggetti degli or-dinamenti degli Stati membri a fare valere dinanzi ai giudici nazionali il proprio dirit-to ad ottenere le audirit-torizzazioni necessarie, nonché ad esercitare in concreto le opera-zioni liberalizzate (con le diverse gradazio-ni A, B e C).

Gli Stati conservano il diritto a «verificare la natura e la realtà delle transazioni o dei trasferimenti» e di adottare «le misure in-dispensabili per impedire infrazioni alle leggi e ai regolamenti degli Stati stessi»

(art. 5 direttiva del 1960). L'art. 6 della di-rettiva riprende la dizione dell'art. 71 del Trattato, affermando che gli Stati membri «procurano di non introdurre (...) nuove restrizioni valutarie pregiudizievoli ai mo-vimenti dei capitali liberati alla data del-l'entrata in vigore della presente direttiva e di non rendere più restrittive le norme esi-stenti ».

Complessivamente, quindi, dall'esame di questa direttiva e dei relativi allegati emer-ge che sono liberalizzati tutti quei movi-menti che si verificano a fronte di una for-nitura di merci o servizi, nonché quei tra-sferimenti a cui gli Stati non attribuiscano carattere speculativo o suscettibili di creare ripercussioni perniciose sull'equilibrio del-la bidel-lancia dei pagamenti, suldel-la fiducia nel-la moneta, sull'occupazione e sull'infnel-lazio- sull'inflazio-ne nazionali. Nella difficoltà di determina-re con pdetermina-recisione la nozione di «capitali» e, quindi, di circoscrivere il relativo potere di controllo spettante agli Stati, risulta complessivamente evidente la preoccupa-zione della Comunità di non pregiudicare la circolazione di merci, persone e servizi. In questo senso dispone l'art. 106, n. 1, se-condo il quale «ciascuno Stato membro s'impegna ad autorizzare che vengano ef-fettuati, nella valuta dello Stato membro nel quale risiede il creditore o il beneficia-rio, i pagamenti relativi agli scambi di merci, di servizi e di capitali, come anche i trasferimenti di capitali e di salari, nella misura in cui la circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone è li-beralizzata tra gli Stati membri in applica-zione del presente Trattato. Gli Stati mem-bri si dichiarano disposti a procedere alla liberalizzazione dei loro pagamenti oltre quanto previsto dal comma precedente, nella misura in cui ciò sia ad essi consenti-to dalla situazione economica generale e, in particolare, dalla situazione della loro bilancia dei pagamenti». Il terzo paragrafo dell'art. 106 impone poi un vero e proprio obbligo giuridico di «stand-stili» che, a dif-ferenza dell'art. 71, presenta innegabilmente il carattere della diretta applicabilità. Dunque, il Trattato ha voluto rispettare la specificità della disciplina relativa ai capi-tali ed ha introdotto una categoria, in certo qual modo residuale, complementare ri-spetto alle quattro liberalizzazioni fonda-mentali: i pagamenti. Ne emerge una disci-plina che configura l'esistenza di una «quinta libertà», che pone un obbligo (art.

106, n. I) di consentire pagamenti e trasfe-rimenti in certo qual modo automatico e conseguente alla liberalizzazione del rap-porto sottostante (circolazione di merci, prestazione di servizi...). Il Trattato ha vo-luto, dunque, operare una serie di distin-zioni (ripresa poi dalle direttive di attua-zione) sulla base dei diversi motivi che stanno alle origini dei singoli trasferimenti: capitali in senso stretto, nelle loro diverse modalità concrete; pagamenti o, in senso più lato, trasferimenti di valuta operati a seguito di una prestazione, di un movi-mento sottostante di altri fattori.

La distinzione fondamentale tra capitali in senso stretto e pagamenti correnti scaturi-sce dal complesso delle norme del Tratta-to, anche se, in realtà, esso non definisce chiaramente cosa debba intendersi per «movimento di capitali». È, quindi, inevi-tabile che spetti alla Corte di Giustizia l'at-tività interpretativa nei casi in cui è chia-mata a dirimere controversie o a precisare i contenuti di singole norme.

D'altronde, mi sembra che la dicotomia pagamenti-capitali, con la conseguente li-beralizzazione dei primi e facoltà per gli Stati di mantenere restrizioni ai secondi, si riveli sempre più inadeguata a fronteggiare la complessità dei problemi del mondo contemporaneo.

Dai lavori preparatori, dal Trattato istitu-tivo e dagli atti derivati emerge la preoccu-pazione costante di garantire almeno l'o-biettivo minimo della effettiva liberalizza-zione dei trasferimenti corrispondenti a pa-gamenti correnti. E questo obiettivo, come vedremo, è altresì presente nelle pronunce della Corte.

Rimane, a mio parere, irrisolto un proble-ma di fondo. L'attuale assetto norproble-mativo comunitario (in parte rispecchiante quello universale del GATT e del Fondo Moneta-rio Internazionale) è largamente inadegua-to nella attuale situazione di interdipen-denza delle economie degli Stati. Se da una parte, infatti, rimane concettualmente pos-sibile mantenere distinti i movimenti di ca-pitali determinati dalla necessità di pagare operazioni e transazioni internazionali cor-renti da quelli aventi finalità di investi-menti, diretti o indiretti o comunque carat-terizzati da elementi di autonomia, è d'al-tra parte sempre più arduo, in un contesto di internazionalizzazione crescente dell'e-conomia e nell'ottica neo-liberista delle or-ganizzazioni economiche internazionali

del dopoguerra, conservare sistemi rigidi di controllo sulla natura, di per sè non sem-pre univoca o chiara, dei singoli movimen-ti senza pregiudicare i flussi di beni e di servizi e, più in generale, l'esercizio di atti-vità economiche complesse.

LA G I U R I S P R U D E N Z A DELLA C O R T E DI G I U S T I Z I A DELLE C O M U N I T À EUROPEE

Nel persistente silenzio dell'attività norma-tiva del Consiglio, su questi problemi si è andata sviluppando una interessante giuri-sprudenza della Corte di Giustizia a parti-re dalla sentenza 11.XI.1981, in causa 203/80, Casati. Questa «pronuncia pregiu-diziale» rappresenta un punto di riferi-mento importante, pur nei limiti della

Nel documento Cronache Economiche. N.004, Anno 1984 (pagine 27-33)