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Questa • guida - ha come obiettivo la divulgazio-ne della produziodivulgazio-ne vinicola piemontese atte-nendosi ad una schematica impostazione legata alla realtà enologica pratica ed in attuazione. Non ha, evidentemente, la pretesa di illustrare dettagliatamente una produzione regionale così fortemente influenzata da emozioni e impulsi derivanti da migliaia di anni di tradizioni o abi-tudini. L'opera tende ad orientare, districandosi dalle molteplici interpretazioni della validità qua-litativa del vino piemontese, attraverso una ana-lisi del processo di evoluzione nei secoli ed una ricerca delle cause e dei motivi della attuale situazione, confermando le caratteristiche enoi-che della regione.
I vini piemontesi sono da secoli una realtà pal-pitante, ed è sembrata giusta una loro catalo-gazione ufficiale per favorirne una conoscenza ordinata a vasti settori ad essi interessati. Tracciata la storia, descritto l'ambiente, i terreni, i lavori al vigneto e di cantina, I vitigni basilari, di ogni vino a Denominazione di Origine Con-trollata vengono indicate le origini, le caratte-ristiche, la produzione, la validità nel tempo. Di ogni vino una panoramica generale, una det-tagliata raccolta di dati statistici, una esatta col-locazione nel contesto vinicolo regionale. Una successione di argomenti tecnici sfociati nella realtà delle zone di origine delimitate con la visione globale dell'insieme di quella che è la viticoltura pregiata collinare del Piemonte.
^^m ^^m Con le sue 26 lettere, precipitevolissimevolmente è la parola più
lunga della lingua italiana. Ed è curioso il fatto che il suo
^^ ^ ^ significato sia in palese contraddizione con la sua lunghezza,
volendo esprimere cosa fatta in fretta, con la massima rapidità.
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S O M M A R I O
3 Spazi e architetture della comunità nella tradizione urbana piemontese 11 L'uso privato dell'ECU nelle transazioni commerciali e la gestione
transfrontaliera delle imprese nella CEE
17 La disciplina della circolazione dei capitali nella Comunità Economica
Europea
23 I finanziamenti della CEE alle organizzazioni non governative per la
rea-lizzazione di progetti di sviluppo
27 Per le aziende che vogliono esportare in India
31 Orientamenti attuali e prospettive della politica industriale 37 Piemonte verso il futuro
41 II terziario privato per il sistema produttivo in Piemonte
Luciano Re - Maria Grazia Vinardi Enrico Salza Edoardo Greppi Giorgio Mamberto Giorgio Pellicelli Gaetano Crocellà - Giuliano Venir Bruno Cerrato 59 L'assistenza tecnico-sociale in agricoltura
67 Zone umide del Piemonte: realtà ed esigenze
77 La struttura produttiva della provincia di Torino secondo l'ultimo
censi-mento economico
83 II controllo dei flussi economico-finanziari. Lineamenti essenziali e
aspetti procedurali della programmazione economica
87 Una strada per la possibile efficienza delle U.S.L. 89 Più turismo con la valorizzazione delle feste popolari
91 La convenzione di Whashington per la salvaguardia di animali e piante 95 Economia torinese
99 Tra i libri 106 Dalle riviste
109 Indice dell'annata 1984
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Giovanni Romolo Bignami Walter Giuliano Sergio Serre Giuseppe Tardivo Aldo Pedussia Giovanni Paparo Vincenzo IMieddu - Riccardo Ricotta
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Ti" In copertina: Mario Tozzi, L'autunno (particolare) (Torino, Museo Civico).Corrispondenza, manoscritti, pubblicazioni debbono essere indirizzati alla Direzione della rivista. L'ac-cettazione degli articoli dipende dal giudizio insindacabile della Direzione. Gli scritti firmati o siglati ri-specchiano soltanto il pensiero dell'Autore e non impegnano la Direzione della rivista né l'Ammini-strazione camerale. Per le recensioni le pubblicazioni debbono essere inviate in duplice copia. È vieta-ta la riproduzione degli articoli e delle note senza l'autorizzazione della Direzione. I manoscritti, anche se non pubblicati, non si restituiscono.
Editore: Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Torino. Presidente: Enrico Salza
Giunta: Franco Gheddo, Alfredo Penasso, Giovanni Perfumo, Carlo Pipino, Enrico Salza, Giuseppe
Sca-letti, Cornelio Valetto.
Direttore responsabile: Giancarlo Biraghi Redattore Capo: Bruno Cerrato Impaginazione: Studio Sogno
Composizione e stampa: Pozzo Gros Monti S.p.A. - Moncalieri
Pubblicità: Publi Edit Cros s.a.s. - Via Amedeo Avogadro, 22 -10121 Torino - Tel. 531.009
Direzione, redazione e amministrazione: 10123 Torino Palazzo degli Affari -Via S. Francesco da Paola, 24 - Telefono 57161.
Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura e Ufficio Provinciale Industria Commercio e Artigianato
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SPAZI E ARCHITETTURE DELLA COMUNITÀ
NELLA TRADIZIONE URBANA PIEMONTESE
I Luciano Re - Maria Grazia Vinardi
CI Come ha osservato Carlo Cattaneo, la " città italiana ha, fin dall'antichità, for-mato con il suo territorio un corpo insepa-rabile, di «sola patria che il volgo conosce e sente». La presenza della città non appa-re così quella di «nave ancorata sopra lido straniero», un mero luogo di scambio ma-teriale, ma è qualificata dal fatto che in essa riconoscano la propria identità cultu-rale le popolazioni urbane e del contado che vi afferiscono.
La città nel suo insieme è quindi, prima ancora della formazione di spazi ed edifici tipologicamente e funzionalmente specifi-ci, il luogo dell'incontro civile: dell'eserci-zio di diritti e doveri, dello scambio dei beni, della festa e dell'immagine della vita della comunità: nella «civitas» costruita si immedesima la «civitas» che la costruisce. I luoghi dell'incontro civile risultano luo-ghi emblematici nella storia della città: con un processo, che recuperatosi con l'età co-munale, si può riconoscere con continuità nelle architetture e negli spazi urbani dei piccoli comuni come dei grandi centri, al-meno fino alla crisi odierna del territorio: quella in cui la transizione da città ad area metropolitana fa si che — come ha scritto Aldo Rossi — «il volto della città contem-poranea (sia) rappresentato in gran parte dalla periferia».
La scelta del sito, della sua centralità, an-che quando non topografica, sempre se-mantica, è l'elemento che nella storia ha caratterizzato i luoghi dell'incontro civile e che insieme con l'evidenza di alcune speci-fiche tipologie architettoniche, li differen-zia già in origine da altri elementi, presenti nell'immagine urbana: case-torri, campa-nili, palazzi e case private (tipi cui sono peraltro accomunati anche dalla ristretta gamma delle tecniche e dei materiali edili-zi e, almeno in Piemonte, dal loro relativa-mente limitato impegno economico, ade-guato a funzioni ancora non complesse).
EH Nell'immagine della città medioevale
™ — quale ia presentano sia la tradizione che le testimonianze iconografiche — pre-dominano entro la cinta fortificata alcune architetture caratterizzanti: la chiesa, la sede del potere feudale, le sedi dell'orga-nizzazione civile ed economica. Questi ul-timi luoghi paiono quelli maggiormente deputati all'esercizio democratico delle prerogative della Comunità; e furono effet-tivamente tali, specie là dove le istituzioni
Fig. 1 - Broletto di Novara, Palazzo dei Paratici. Fig. 2 - Broletto di Novara, scalone ricostruito nei re-stauri 1828-1932.
Fig. 3 - Broletto di Vercelli. Fig. 4 - Casa della Credenza ad Ivrea.
locali e le emergenti classi borghesi e arti-giane meglio riuscirono a rendersi autono-me dal potere feudale e ecclesiastico. In ef-fetti, furono ovunque almeno luoghi di me-diazione, e trovarono la loro più coerente espressione architettonica e formale nella stratificazione dei diversi edifici che costi-tuirono i Broletti, quali ritroviamo nei ca-poluoghi del Piemonte orientale.
Là infatti il riferimento culturale e politico fu in generale all'esperienza comunale lom-barda, anche se le fondamentali istanze di partecipazione furono successivamente rias-sorbite dall'affermarsi di Signorie e Vesco-vadi; mentre i territori occidentali restarono più legati all'organizzazione feudale. Il Broletto, il cui tipo edilizio ci è stato re-stituito a Novara dagli interventi di restau-ro (1928-1932), appare emblematico del-l'articolazione e della vivacità della comu-nità urbana medioevale. Originato dal tra-sferimento dei «boni homines» locali dalle case dei canonici del Duomo ad una sede propria, il Broletto cresce negli anni della libertà comunale, tra undicesimo e dodice-simo secolo, raggiungendo nell'arco di un centinaio di anni la compiutezza della sua morfologia, sulla quale tuttavia le aggrega-zioni e le trasformaaggrega-zioni proseguirono sino all'età moderna: l'interpretazione e le mo-tivazioni dei restauri paiono confermare la vitalità semantica del luogo, di là dallo stesso interesse storico-architettonico. Il Broletto di Novara si formò aggregando al primitivo edificio, che tipologicamente appare una semplice «Casa della Creden-za», una serie di fabbricati di ristruttura-zione o di nuovo impianto attorno ad una corte quadrata che venne gradatamente chiusa e porticata.
Su questa si affacciano l'Arengo o Palazzo del Comune (1285 circa), cui fu aggiunta la «camera del curio» (camera di tortura e poi prigione), e di fronte il Palazzo Nuovo o dei Paratici, sede delle corporazioni, cui si è accostata poi la Casa del Podestà. A fianco, la sede dei Consoli di Giustizia, di-venuta al tempo della dominazione spa-gnola Officio Fiscale di Referendaria, ed infine, nel secolo XVIII, la loggetta. Fun-zione pratica, ma anche emblematica, con riscontri in molti edifici coevi, avevano .il 1
pozzo e la monumentale scala coperta del-l'Arengo, che fu ricostruita per analogia nel restauro.
Il Broletto era animato da funzioni diverse, regolate minuziosamente dagli Statuti: la giustizia civile amministrata dai Consoli di Giustizia, la redazione e la conservazione degli atti notarili, le riunioni del Consiglio e la proclamazione dei bandi, le assemblee popolari, la fiera in determinati giorni, l'ammasso delle granaglie, la riscossione delle imposte.
Nella restituzione attuale, il Broletto di Novara si presenta come l'aggregazione di stilemi architettonici tardomedioevali con un fondamentale riferimento al gotico lombardo, e strutture più recenti fino al tardo barocco. Oltre alle tipologie edilizie che vedremo ricorrenti in altri e successivi esempi (quali il portico, la loggia, lo scalo-ne), lo caratterizzano i rapporti volumetri-ci degli edifivolumetri-ci, uniformati dal prevalere dei portici al piano terreno, ma differenziati nei corpi soprastanti. La loro massa com-patta è scandita da regolari ritmi di finestre e da un apparato decorativo ad affresco policromo, stratificato nell'addizione di emblemi e di storie ad una ordinata riqua-dratura.
Caratteri analoghi doveva presentare il Broletto di Vercelli, di cui si conserva, do-minato dalla torre civica, l'impianto edili-zio: oggi ancora in stato di degrado, dopo la decadenza nel secolo scorso a mercato del pesce. Del complesso, oltre all'edificio porticato del lato ovest, si leggono ancora, sotto gli intonaci, le tracce dei regolari par-titi edilizi originari, attorno alla conchiusa e oggi desolata piazza.
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Le architetture delle sedi civili della città medioevale, anche là dove — come nei centri minori — non si articola-no intorarticola-no ad una corte, mantengoarticola-no alcu-ne costanti tipologiche: l'organizzazioalcu-ne su due piani, con portico al piano terreno e sala del consiglio al primo piano, sovente la scala esterna e la torre. Così è costituita, ad esempio la trecentesca, piccola Torre della Credenza a Caramagna, o la immagi-ne del Pretorio di Castelnuovo Scrivia, al-meno nel carattere medioevaleggiante della restituzione stilistica dei restauri, in larga misura d'integrazione. Più semplice ancora è quanto resta della Credenza d'Ivrea, ora quasi in rovina e circondata dai nuovi edi-fici ospedalieri (in sè non privi di interesse' « • i r i w
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Fig. 8 - C. Rovere, Palazzo comunale e piazza di Bra.
Fig 5 - C. Rovere, L'Università di Orta nella piazza del Porto. 1847.
Fig. 6 - C. Rovere, Torre civica e chiesa di San Do-menico a Sa/uzzo, 1843.
Fig. 7 - Municipio di Santhià.
architettonico, ma con i quali non appare finora risolta la congruenza ambientale, tanto più nel degrado della piazza, ridotta a parcheggio).
Nel riscontro di queste analogie è però da tenere presente che ciascuna area geografica del Piemonte articola la tipologia architetto-nica delle sedi civili con le proprie peculia-rità culturali e storico-politiche. Di ciò può essere espressione il Palazzo Comunale dì Saluzzo, tra gotico e rinascimentale, a tre piani con loggia a pianterreno, oggi tampo-nata, e magnifica torre ad altane sovrappo-ste. La sua ubicazione sulla ripida salita al Castello pare connotare la stretta dipenden-za dalla Corte marchionale.
La tipologia architettonica derivata dalle «Case della Credenza» e dai broletti me-dioevali trova una sintesi specifica, tra mandatasi con continuità dei secoli, nell'a-rea culturale della montagna e dei laghi del novarese.
In un insieme qualificato anche dal Brolet-to di Arona e dal Parrasio di Cannobio, tre esempi emblematici, collocati cronologica-mente nell'arco di cinquecento anni, sono costituiti dal Palazzo Pretorio di Vogogna (1348, con successive trasformazioni), dal Palazzo dell'Università (o Pretorio o Co-munale di Orta (1582), dal Palazzo Preto-rio o Comunale di Pallanza, nel suo attua-le assetto ottocentesco.
Il primo, costruito per ordine dell'Arcive-scovo di Milano Giovanni Maria Visconti dal suo vicario Giovanni di Lissone, pre-senta la tipologia caratterizzate di un im-pianto rettangolare, costituito da un unico piano a blocco su un portico passante este-so all'intera superficie.
re-lazione paesistica e funzionale con la sua piazza, luogo deputato all'incontro civile. Un'analoga misura, ma in un più conte-gnoso decoro ottocentesco, pare infine con-notare il Palazzo Pretorio di Pallanza, la cui compatta volumetria — in realtà frutto di stratificazioni — domina l'affaccio della città sul lago.
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La collocazione urbana delle sedi co-munali era sovente posta in evidenza dal riferimento visivo della torre civica, elemento talora preponderante, se non ad-dirittura totalizzante, della consistenza del-l'edificio pubblico.La torre civica, che gareggia con i campa-nili e con le torri delle famiglie più potenti, non ha solo una motivazione simbolica, ma adempie a funzioni pratiche: non tanto quelle della difesa, ma quella della raccolta di documenti, di beni e di imposte.
Le campane, spesso più di una e con speci-fiche funzioni, chiamavano a raccolta le adunanze e segnalavano gli eventi singola-ri, la festa e il pericolo. Concludevano la cuspide i simboli della comunità e dei Pa-troni.
La tipologia della torre civica, che trova il-lustri riscontri oltralpe, pare raggiungere le sue espressioni più raffinate in Piemonte con il Rinascimento. Antiche torri a pianta quadrata vengono sopraelevate con un co-ronamento classicheggiante a loggie so-vrapposte concluso da lanterne ottagonali, cui non pare estraneo l'esempio bramante-sco della torre del Castello di Vigevano. Si completano così nel primo Cinquecento le torri civiche di Saluzzo, Savigliano, Casale Monferrato, che rinnovano il profilo urba-no e l'evidenza della città nel suo territo-rio. Talora queste strutture prendono nome, come a Casale, dalla nuova macchi-na dell'orologio, che sostituisce le meridia-ne, che abbiamo indicato in esempi prece-denti come elemento ricorrente per utilità e decoro: l'orologio diventerà infatti pre-senza caratterizzante le facciate dei muni-cipi sei-settecenteschi.
Le istituzioni comunali si riorganizzano e diventano più complesse nella gerarchia dei ruoli controllati dallo Stato assoluto dell'età Barocca. Ciò sollecita la trasforma-zione o la ricollocatrasforma-zione delle sedi munici-pali, sempre più specializzate nelle loro funzioni anche in quanto alcune tra quelle già compresenti nei Broletti trovano altri luoghi ed edifici per il loro espletamento:
come la giustizia, la festa, il mercato. Il primo esempio di sede municipale moder-na, significativamente, è quella della capi-tale Torino. La costruzione originaria di Francesco Lanfranchi, pure nella sua ri-dotta dimensione (limitata alle cinque campate centrali del portico), aveva una dominante evidenza rispetto alla piazza delle Erbe ancora «borghigiana e medioe-vale» (secondo l'icastica definizione che ne ha dato Pier Giovanni Bardelli) sino a metà Settecento; tanto che il suo ulteriore ampliamento e la sua integrazione nella ri-costruzione della piazza ad opera di Bene-detto Alfieri pare averla ridimensionata verso i nuovi canoni urbani di compassata uniformità.
In realtà il volume originario del Munici-pio di Torino era tutto formato dalla ri-strutturazione di preesistenze, ed all'inter-no di esso predominava lo scalone: quasi sproporzionato nella sua aulicità, se non considerato come elemento di innesco del-le successive stratificazioni edilizie. Con l'occasione della sistemazione del palazzo, era stata anche completata la Torre civica, che sorgeva ad ingombro della contrada di Dora Grossa (oggi via Garibaldi) e il cui proposito di rinnovo costituì argomento per le invenzioni architettoniche torinesi tra barocco e neoclassico.
L'impostazione compositiva del Palazzo di Città di Torino fu di stimolo per la realiz-zazione dei municipi settecenteschi dei
centri minori piemontesi. Elementi tipolo-gici caratterizzanti nella più parte di questi edifici, dalla presenza chiara e misurata nelle cittadine, sono lo spicco dell'asse centrale di simmetria, che segna il balcone, l'affaccio, il fastigio con l'orologio, o so-vente la cella campanaria, la struttura su tre piani (piano terreno, generalmente con portico; primo piano, per le sedi di rappre-sentanza; piano superiore per gli uffici). Esemplari di questo indirizzo appaiono i palazzi comunali di Vigone (1734, Ales-sandro Emanuelis), di Ivrea (1753, Pietro Felice Bruschetti; 1758, Gian Battista Bor-ra), di Santhià (1719, Carlo Antonio Ca-stelli; ampliato verso la metà del secolo scorso), di Moncalieri (1788, Pietro Anto-nio Mosso). Uno spicco particolare hanno i tre palazzi comunali realizzati su proget-to di Bernardo Anproget-tonio Vitproget-tone. Il primo, cronologicamente, è quello di Bra (1730), motivato dal raddoppio verso la piazza di un preesistente edificio e risolto con la creazione di un corpo cilindrico prominen-te sull'asse della facciata, di memoria gua-rdiana. L'effetto spaziale era in origine tanto più vivace, in quanto il portico era aperto.
Vittone ebbe poi a risolvere un analogo problema di raddoppio di un edificio
pree-Fig. 9 - Palazzo civico di Montanaro tB.A. Vittone). Fig. 10 - C. Rovere, Vecchio Palazzo civico di Chieri (M.L. Quarini su disegni di B.A. Vittone).
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-sistente e della sua riqualificazione monu-mentale nel municipio di Montanaro. L'inserimento vittoniano rompe il tessuto continuo e minuto della vecchia via porti-cata del paese, con l'imponente effetto di fuori scala della distesa facciata, non porti-cata, ma ad affacci di botteghe.
Una misura delicata e minuta è scelta in-vece da Mario Ludovico Quarini, ma pre-sumibilmente in esecuzione di un'idea vit-toniana. come ritiene Bruno Queysanne, per la facciata laterale del vecchio Munici-pio di Chieri (oggi Isituto Sant'Anna), giu-stapposta al preesistente edificio.
L'opera più impegnativa nelle serie dei mu-nicipi settecenteschi, che per complessità e incidenza nella struttura urbana precorre il nuovo secolo, è costituita dal palazzo co-munale di Alessandria (1775, Giuseppe Ca-selli). Gli elementi tipologici e distributivi caratterizzanti sono qui integrati in un volu-me compatto che comprende tutta la com-plessa articolazione funzionale, come l'isti-tuzione ormai richiedeva, secondo nuove esigenze che maturarono durante il periodo della dominazione francese.
Le forme neoclassiche paiono interpretare nella loro essenza consolidati ruoli gerar-chici e burocratici; ed anche successiva-mente, nel corso del secolo, le prerogative di aulicità del lessico classico vengono con-ferite agli edifici delle istituzioni civili. Lo documentano il Municipio di Vercelli (1838-40, Antonio Malinverni, realizzato come ristrutturazione del convento dei Do-menicani), che vede il coinvolgimento to-tale della piazza e del mercato nella uni-formità dei colonnati del nuovo Foro Fru-mentario, e la Casa Comunale di Villano-va d'Asti.
Significava anche la costruzione del nuovo Palazzo di Città di Racconigi (1840, Rai-neri), soprattutto come scelta di sito: di fronte al Castello, dove era in origine pre-visto il secondo cortile d'onore per la resi-denza regia, la piazza diventa invece espressione delle prerogative della munici-palità.
Lo spazio «civile» della nuova città neo-classica si afferma nella sistemazione del-l'ingresso di Novara alla provenienza da Torino: scelta non casuale, in considera-zione del consolidamento nel Regno Sa-baudo di una città le cui tradizioni cultura-li e i cui momenti storici determinanti si erano invece sempre riferiti alla Lombar-dia. L'accesso al nucleo antico è segnato
R 11 Palazzo del Mercato di Novara, sor-" to significativamente in adiacenza al tradizionale Prato della fiera e che i con-temporanei avevano visto come «l'edificio [...] più vasto e magnifico della città [...;] mole stupenda, unica per certo in Italia, la quale non solo offre allo sguardo un sito di traffico, ma un vero foro frumentario», 1 2
come lo descrisse Goffredo Casalis (ma oggi purtroppo del tutto trasformato nel-l'interno da un intervento recente), testi-monia la fase più evoluta di un'altra tipo-logia architettonica qualificante la città, anch'essa originata dai siti medioevali del broletto e della corte: il portico del merca-to, o «ala» («halle», «hall»).
La collocazione urbana delle «ali» di mer-cato, presenti in Piemonte già dal medioe-vo, è in origine direttamente connessa ad altri siti centrali, quali la torre civica e la
casa comunale. 13 Ne è esempio l'«ala» di Revello, una tra le
più antiche conservate, la cui struttura a travate lignee su pilastri in muratura colle-gati da uno zoccolo continuo trovava ri-scontro in quella quattrocentesca di Saluz-zo, demolita agli inizi del nostro secolo. Un altro esempio antico è costituito dal Foro Frumentario di Dronero, in forme singolari per la costruzione integralmente muraria e l'impianto ottagonale (confron- 1 4
tabile con la demolita «cappella», loggia di governo, nella piazza vecchia di Savi-gliano) e che resta a testimoniare la raffi-nata cultura edilizia del tardo medioevo nel Piemonte sud-occidentale, segnata dal-lo splendore feudale di Saluzzo.
La maggior parte delle «ali» esistenti risa-le però ad epoche più recenti, dall'età ba-dalla sequenza del viale di platani, dei pro-pilei dorici carloalbertini (1837, Antonio Agnelli), del palazzo del mercato ( 1817-1842, Luigi Orelli) e del Teatro Cac-cia (1888, G. Oliverio), in luogo del sette-centesco Teatro Civico. Tutti questi edifici (cui si innesta la ristrutturazione del centro urbano con le nuove residenze porticate neoclassiche, dette «il portico nuovo», 1837) qualificano l'articolato sistema degli spazi pubblici con architetture formalmen-te concluse nella loro regolarità e posformalmen-te in relazione da una maggiore ragione, che si esprime nello spazio urbano come nell'i-deologia della città: così come nel compi-mento Schinkeliano della Unter den Lin-den di Berlino.
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Fig. 11- C. Rovere, Palazzo di città di Alessandria (G. Caselli). 1845.
Fig. 11-bis - C. Rovere, Piazza Carlo Alberto e Torre civica a Casale, 1849.
Fig. 12 - Municipio di Vercelli (1838-40, A. Ma/inverni). Fig. 13 - C. Rovere, Casa comunale di Viiianova d'A-sti, 1849.
Fig. 14 - C. Rovere, Porta Vercelli (oggi Porta Torino) a Novara con l'edificio del Mercato, 1844.
Fig. 14-Bis - Porta Torino e l'antico Mercato a Novara,
oggi-Fig. 15 - «Aia» di Carmagnola.
Fig. 15-Bis - Foro Boario di Alessandria IL. Valizzone), 1848.
Fig. 16 - «Ala» di Savigliano 11857, M. Buia). Fig. 17 - «Ala» di Savigliano, interno.
rocca in poi, anche in relazione alle tra-sformazioni strutturali settecentesche del-l'agricoltura. I fabbricati, nel loro schema tradizionale, presentano un impianto ret-tangolare delimitato da un muro perime-trale aperto in una regolare serie di arcate su pilastri, rilevati o no da paraste. La co-pertura è realizzata a tettoia con carpente-ria in legno a capcarpente-riate o a falsi puntoni ap-poggiati su pilastri intermedi. Tra le «ali»
di questo tipo ricordiamo gli esempi di Chiusa Pesio, San Damiano, Dogliani, Carrù, Castagnole.
Generalmente l'«ala» non sorge isolata: almeno da un lato essa è adiacente ad altri edifici: sedi comunali, posti di guardia del gabelliere, pesi pubblici. Singolare il caso della vecchia «ala» di Carmagnola, costi-tuita da un lunghissimo porticato addossa-to alle mura medioevali della città (l'edifi-cio è stato oggetto di un recente intervento di rinnovo, che tuttavia non pare recupe-rarne i valori architettonici e i significati funzionali originari).
I fabbricati delle «ali» sei-settecentesche hanno un carattere spoglio e utilitario, che li apparenta ai rustici agricoli, ma non ne mortifica l'evidenza spaziale e l'articola-zione all'ambiente urbano. Queste sono
in-fatti da riferire essenzialmente a un carat-tere tipologico, indipendente dal trattarsi o meno di architetture «firmate».
Nell'Ottocento la tipologia si esprime in realizzazioni di intensa connotazione ar-chitettonica, specializzate per tipi funzio-nali: paralleli alle «ali» del mercato sono i mercati coperti e i fori boari (di cui furono esempio le oggi scomparse opere di Giu-seppe Caselli e Leopoldo Valizzone in Alessandria). Tra i fori boari, la cui tipolo-gia si riconnette più strettamente a quella delle «ali», rilevante è quello costruito a metà secolo in fregio alla Piazza Nuova («del Popolo») di Savigliano, dove il porti-co rettangolare si artiporti-cola nella gerarchia di tre navate con notevoli effetti spaziali determinati dalla regolarità delle scansioni degli archi, dalla struttura laterizia e dalla complessità della carpenteria in legno del tetto (1857, Maurizio Eula, con modifiche di G. Trossarelli).
Altre «ali» ottocentesche significative fu-rono costruite a Carmagnola, Cavaller-maggiore, San Benigno Canavese, Leyni, Racconigi. Realizzazione di eccezionale in-teresse è l'ala di Vinovo, costituita da un preesistente perimetro ad arcate scandito da un ordine dorico a semicolonne, cui Crescentino Caselli sostituì nel 1894 la fa-tiscente copertura in carpenteria di legno con una raffinata struttura muraria ad ar-coni incrociati e voltine di quarto, integral-mente laterizia (lo stesso manto è sostenu-to da un tavellonasostenu-to su gambette, su cui sono cementate le tegole). Non solo è eli-minato ogni elemento in legno, infiamma-bile o deteriorainfiamma-bile; ma tutto il tema è as-sunto da Caselli come un campo di verifica di quella intensa ricerca tecnico-tipologica che caratterizza tutta la sua opera ed è ri-volta, in sviluppo alle esperienze antonel-liane, a perfezionare, agli albori della pro-duzione industriale nell'edilizia, l'uso dei materiali e delle tecnologie tradizionali, at-traverso una loro rigorosa e spregiudicata verifica funzionalista.
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Fig. 18 - «Ala» di Vinovo. da C. Caselli, Saggi di Tetti
a struttura laterizia, Torino 1895. Tav. XIX. disegno di
M. Caradini.
Fig. 19 - «Ala» di Vinovo (1894, C. Caselli). Fig. 20 - Foro Boario di Bra.
Fig. 21 - C. Rovere, Il vecchio Teatro di Novara 11776). 1845.
Anche se qualche «ala» in muratura viene costruita ancora in seguito, come a Racco-nigi (1894), mediandovi con quelle tradi-zionali le tipologie costruttive dei capan-noni industriali a serie di tetti a capanna, motivi tecnici, funzionali, di collocazione urbana facevano sì che nelle nuove costru-zioni si introducesse l'uso di strutture me-talliche, soluzione diffusa e tipologicamen-te appropriata alla funzione dai celebri esempi delle parigine Halles Centrales di Baltard. Più simili tuttavia alle pensiline ferroviarie, nella loro carpenteria piuttosto schematica (anche se oggetto di specifica attenzione decorativa), sorrette da esili pi-lastri, orlate da lambris e aperte ugualmen-te su tutti i lati, le ali del mercato in strut-tura metallica si diffondono in Piemonte (Bra, Carignano, Saluzzo) sul volgere del secolo, per alcuni decenni, fino al genera-lizzarsi della costruzione in calcestruzzo armato; anche se poi mai del tutto sop-piantate da questo, per le ragioni di conve-nienza costruttiva che le avevano fatte af-fermare, e che sono ulteriormente accen-tuate successivamente dall'eliminazione di modellazioni e parti decorative. Esempi più complessi di queste costruzioni sono costituiti dalle tettoie di mercato di Porta
Palazzo a Torino (1917) e Piazza Virginio a Cuneo.
Tra le costruzioni in cemento armato non ancora mortificate da una adozione acriti-ca ed utilitaristiacriti-ca della struttura (come è avvenuto sovente in seguito, ed in ispecie — ma non necessariamente — con l'uso delle strutture prefabbricate), ricordiamo i Mercati Generali di Torino (1930, Umber-to Cuzzi), opere tra quelle emblematiche dell'introduzione nell'architettura torinese degli indirizzi razionalisti, e il mercato co-perto di Cuneo (1927, Cesare Vinai inge-gnere capo dell'Ufficio Tecnico Comuna-le), espressione della diffusione di quella sperimentazione tipologico-funzionalista delle strutture in cemento armato e del loro rapporto con le connotazioni decora-tive, che caratterizzò la transizione dal Li-berty all'architettura del «Novecento».
n L'ultimo, tra i luoghi dell'incontro ci-^ vile a trovare una sua specifica espres-sione architettonica, ma la cui rapida for-tuna, nel Sette e Ottocento, lo rese subito tra le istituzioni qualificanti la città nella transizione tra società aristocratica e socie-tà borghese, è il teatro.
La moda (cultura, costume; e non esclusi-vità elitaria) del teatro nell'Italia di quegli anni impressionò i viaggiatori stranieri. Des Brosses, Goethe, Stendhal, nel descri-vere i teatri italiani ci testimoniano la cen-tralità nella vita sociale di questo luogo d'incontro, dove «regna[va]no modi di grande naturalezza e una dolce allegria, ma soprattutto nessuna solennità», e dove, come felicemente osserva Antonio Pinelli, «la rappresentazione del rito borghese del vedere e dell'essere visti, spettacolo nello spettacolo [...], tende a sovrapporsi e quin-di a prevalere sull'azione centrale». In Piemonte non rimangono più testimo-nianze della fase di evoluzione della tipo-logia del teatro antecedente al consolida-mento del teatro all'italiana: non dunque teatri di corte come a Sabbioneta o Parma, né teatri accademici come l'Olimpico di Vicenza: solo la memoria di «effimeri» teatrali legati a feste e a cerimonie di Cor-te, civili e religiose; ovvero della polivalen-za di spazi deputati alla festa e all'incontro (come il «Trincotto rosso», che precedette il teatro Carignano, sorto come sala per la palla corda). Tuttavia la costruzione del Regio di Torino (inaugurato nel 1740, su progetto di Benedetto Alfieri a seguito di una prima idea di Filippo Juvarra, e in so-stituzione del precedente teatro, collocato nel Palazzo di San Giovanni) apparve su-bito un esempio decisivo nell'architettura dei teatri.
P r r r r
Fig. 22 - Teatro di Ivrea.
Fig. 23 - C. Rovere, Arco sulla piazza delle Erbe a Chieri, 1839.
Fig. 24 - Ghiacciaia di Vigorie («La Rotondali. G.
Ta-lucchi, 1830 c.l
soluzione del Regio di Torino, a ovale aperta, per ragioni di visibilità e di acusti-ca, costituì una proposta discussa e apprez-zata dai contemporanei, in un'epoca non solo di vivace dibattito teorico (Patte, Mili-zia, Algarotti) e di famosi esempi (l'Argen-tina di Roma, di G. Theodoli, le opere dei Bibiena a Bologna e Mantova, la Scala di G. Piermarini a Milano, 1776/78, e la Fe-nice di G. A.Selva; a Venezia 1790/92), ma di attualità e di vivace richiesta di que-sti edifici, universi barocchi dell'unità
nel-la molteplicità, come li ha definiti Manfre-do Tafuri.
In generale, i teatri piemontesi esistenti ri-flettono piuttosto la continuità e le trasfor-mazioni di questa tipologia nell'Ottocento: a documentare in modo schietto il tipo set-tecentesco rimane soltanto il Teatro di Ca-sale (1786-91, Agostino Vituli), ora in cor-so di restauro.
Il tipo ottocentesco, dove gli ordini supe-riori dei palchi sono trasformati in loggioni e dove lo spazio di platea acquisisce distin-zione di posti (per il diverso contenuto de-gli spettacoli, ma anche per il nuovo atteg-giamento di attenzione un po' filistea e di compunta educazione del pubblico borghe-se, di contro allo spregiudicato costume preromantico), è testimoniato dall'assetto attuale, frutto di trasformazioni, del teatro Carignano in Torino. Nella stessa linea si collocano i teatri di Novara (1776, sostitui-to nel 1888), Vercelli (1785, Nervi; rifatsostitui-to nel 1809 nel sito attuale, rammodernato nel 1843 e ricostruito nel 1931), Asti (1852-60, Svanascini) e Cuneo, (1828, Ba-mbino) e i molti teatri dei centri minori (Alba [1836, Busca], Bra [1865, Olivieri], Pinerolo [1836, Onofri], Savigliano [1836, Eula], Ivrea [1829, Storero], Novi Ligure [1837/39, Becchi], Mondovì [1847/52, Gorresio], Biella [1828, Sevesi], Ciriè [1805, Tosatti], Tortona [1836/39, Perni-gotti]) o addirittura minimi, come il teatri-no recentemente rinteatri-novato di Vigone (1845, Berruto), sorto per iniziativa privata dopo che già nel 1818 un primo teatro era stato ricavato in due sale al piano terreno del ricordato palazzo comunale, quelli di Moncalvo e di Verduno, o i progetti di P.M. Cantoregi (1798) e A. Tappi (1865) per il teatro di Carignano. Di altri resta solo la memoria in toponimi urbani, come la «via del Teatro» a Polonghera. Questa diffusione testimonia più che un costume una radicata cultura, che vide impegnati nella realizzazione e nella gestione dei tea-tri amministrazioni comunali, società di nobili e di privati, imprenditori e addirit-tura confraternite (come è nell'esempio settecentesco per il primo progetto di Cari-gnano).
Accanto ai teatri all'italiana, nell'Ottocen-to si hanno interessanti esempi di sale da concerto e sale di spettacolo di diversa concezione, accomunati dalle forme archi-tettoniche neoclassiche: basti ricordare a Torino l'Odeon della Società Filarmonica
di Torino di Giuseppe Talucchi e la sala della Società Filodrammatica (oggi Teatro Gobetti) di Giuseppe Leoni.
Il patrimonio di queste strutture, un tempo copioso, ha subito danni irreparabili, so-prattutto nel nostro secolo: la decadenza del loro uso e malintesi ammodernamenti e trasformazioni in sale cinematografiche non solo hanno distrutto molti edifici, ma hanno rarefatto e smagliato la loro struttu-ra territoriale. Solo recentemente pare de-starsi una maggiore attenzione e una diver-sa organizzazione dello spettacolo teatrale, che ripropone in termini di partecipazione e domanda sociale l'acquisizione di spazi specializzati. Quanto resta del patrimonio del passato potrebbe rispondere a questa esigenza, riqualificando al tempo stesso edifici e luoghi urbani, nell'attenzione alla struttura e alle forme architettoniche, con appropriati interventi di conservazione. Superate le mode di un esasperato speri-mentalismo nell'azione scenica, gli spazi limitati di questi vecchi teatri, alieni dagli standards di un astratto efficientismo tec-nologico, e le cui misure sono «adeguate alla vista e all'udito della media degli spet-tatori», possono infatti ancora conferire allo spettacolo quell'«armonia con l'insie-me, del quale l'ambiente è parte precipua» (come ne scrisse G retry).
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1 luoghi dell'incontro civile nella tra-dizione urbana piemontese non si esa-uriscono ovviamente nelle tipologie qui descritte: essi appaiono come emergenti nell'organizzazione di sistemi più comples-si di opere, comples-sia rivolte alla comples-significazione e all'abbellimento della città, sia ad usi pra-tici. Citiamo — come casi limite — da un lato gli archi civici, che restano a testimo-niare non solo la connotazione delle porte urbane, ma spesso la pratica celebrativa di eventi e personaggi mediante l'addobbo delle vie, nel maggior numero dei casi ri-solto come «effimero», Tra queste archi-tetture ricordiamo gli archi di Moncalieri (1619), di Chieri (1580 con interventi di Pellegrino Tibaldi nel 1586, Vittone, 1761, e Quarini, 1785), di Savigliano (Ripa,ghiac-ciaia civica diventa pretesto per un edificio di ritrovo di classica evidenza architettonica.
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La continuità dei principi tipologici nelle architetture dell'incontro civile entra in crisi già dal secolo scorso in ordine alle diverse posizioni culturali e ai mutati fabbisogni rispetto alla unitarietà della concezione urbana classica. Le nuove esi-genze funzionali dell'Ottocento sollecitano l'espansione delle strutture preesistenti ed una ulteriore loro specializzazione. Molte volte ciò ha determinato la loro sostituzio-ne, come è avvenuto per i teatri (Novara, Vercelli); per i municipi invece si registra frequentemente il trasferimento in altre sedi, nei termini che oggi definiremmo di «riuso». Il palazzo nobiliare o il castello è quello che più utilmente era fornito di spa-zi capienti ed aulici (Riva di Chieri, Salug-gia, Masserano, San Damiano d'Asti, Go-vone, Magliano Alfieri); spesso però le sedi comunali si ricollocano anche in strutture già di ordini religiosi, a seguito delle leggi di esproprio (Vercelli, Fossano, Cuneo, Chieri).I fabbricati dismessi persero la loro identi-tà, assorbiti nella complessità del contesto urbano, o furono oggetto di interesse «arti-stico», nei casi emergenti. Questo ha por-tato spesso a restauri essenzialmente rivolti al recupero di un'immagine privilegiata della storia, cancellando le stratificazioni e limitando la possibilità di uso pratico degli edifici, se non in termini di museificazione il (che è il limite dell'intervento al Broletto di Novara). La dispersione della tradizione tipologica delle sedi civili e della loro cor-relazione agli spazi urbani si accentua nel nostro secolo: gli edifici recenti spesso si li-mitano infatti a rispondere a criteri di uso pratico, nei termini di quella che si intende comunemente (ma con una accezione im-propria del termine) come «funzionalità», senza definire il rapporto tra edifici e strut-ture urbane.
I caratteri distributivi hanno così sostituito la tipologia, che assicurava la funzionalità semantica delle architetture; non solo, ma l'incentivo determinato da alcune leggi di finanziamento ha talvolta portato, specie nel caso dei Municipi, a ricollocazioni e trasformazioni che dimostrano l'estempo-raneità e la fretta con cui vennero realizza-te. La stessa pratica del recupero ur-bano ha talvolta (già in passato — come s'è visto —) comportato la ricollocazione di
funzioni pubbliche in edifici di diversa ori-gine e diversa significazione. Il rischio è la perdita di quella stretta connessione con la struttura urbana, di quella identificabilità delle sedi civili, che ne aveva in passato guidato l'evoluzione tipologica, e la ridu-zione delle complesse motivazioni dell'ar-chitettura della città a decoro di facciate, o ad «arredo urbano», a superfici e non più sostanza, con interventi irreversibili. Di contro a facili soluzioni suggerite da contingenze pratiche e dalla disponibilità di «contenitori» edilizi da restaurare, l'in-dagine per tipologie e rapporti con la for-ma urbana si profila non solo come oppor-tuna dal punto di vista conoscitivo, ma es-senziale per la valutazione di presenze-risorse e la qualificazione dei nuovi pro-grammi di intervento.
L'USO PRIVATO DELL'ECU NELLE TRANSAZIONI
COMMERCIALI E LA GESTIONE TRANSFRONTALIERA
DELLE IMPRESE NELLA CEE
Enrico Salza
A Bandol, in Francia, ai primi di ottobre si è svolta la 56" assemblea plenaria della Conferenza permanente delle Camere di Commercio della Cee. Le pagine che seguono riportano integralmente la relazione tenuta per la delegazione italiana dal presidente dell'istituto camerale torinese.
1. LA VALUTA DI F A T T U R A Z I O N E DELLE T R A N S A Z I O N I
C O M M E R C I A L I C O N L'ESTERO
La scelta della valuta di fatturazione — unitamente ad altre decisioni quali le mo-dalità di credito commerciale, il grado e tipo di copertura a termine, il ricorso al fi-nanziamento in valuta — è una delle va-riabili cruciali per un'impresa che operi in transazioni commerciali - merci e/o servizi — con l'estero.
Benché l'importanza delle pratiche di fat-turazione sia ormai evidente, il dibattito su tale tema è ancora nella fase iniziale. Vorrei, quindi, da un lato formulare alcu-ne riflessioni sui risultati finora emersi, dall'altro suggerire alcune indicazioni in merito alle scelte valutarie degli operatori, con particolare riferimento alle potenziali-tà di un futuro sviluppo dell'ECU come valuta di fatturazione.
1.1 Scelta della valuta e regime dei cambi
Uno scambio commerciale tra operatori appartenenti a diversi paesi e aree valuta-rie può essere fatturato nella valuta nazio-nale dell'esportatore o venditore, in quella dell'importatore o compratore, oppure in una valuta terza — generalmente indicata come «veicolo» — o in una valuta-paniere-veicolo quale l'ECU o l'SDR. In generale, nell'ambito di un regime di cambi fissi, quali di queste alternative ven-ga adottata è relativamente poco importan-te dal punto di vista microeconomico, os-sia delle decisioni d'impresa. La rigidità dei tassi di cambio, infatti, annulla quella parte di incertezza sul reddito futuro del-l'impresa che è legata al rischio di cambio, ossia alla possibile divergenza tra tassi di cambio che si realizzano sul mercato al momento del pagamento della transazione commerciale e quelli anticipati dagli ope-ratori al momento della fissazione del prezzo. Annullando l'incertezza dovuta al rischio di cambio, un regime di cambi fissi minimizza quindi il ruolo della scelta della valuta di fatturazione quale variabile nella
funzione obiettivo delle imprese.
Anche in un regime di cambi fissi la pre-senza di costi di transazione nei pagamenti internazionali può condurre ad una parti-colare struttura dei regolamenti valutari e, in particolare, all'utilizzo più ampio di alcune valute in qualità di valute terze; tut-tavia la scelta della valuta di fatturazione non ricopre il ruolo strategico che essa svolge invece nell'ambito di un sistema monetario internazionale caratterizzato da cambi flessibili.
L'analisi delle decisioni d'impresa e del-l'interscambio internazionale può, quindi, in regime di cambi fissi, essere sviluppata come se, di fatto, le transazioni avvenisse-ro in un unico numerario.
In regime di cambi flessibili, invece, agi-scono una serie di elementi che attraverso gli effetti del rischio di cambio sul reddito futuro delle imprese, tendono a fare della scelta della valuta di fatturazione una va-riabile di estrema importanza per gli ope-ratori impegnati in transazioni commercia-li con l'estero. Per citarne solo alcuni, tacommercia-li elementi sono: le differenti velocità di ag-giustamento dei mercati reali rispetto a quelli finanziari e valutari, l'effetto asim-metrico di una variazione del cambio sui costi e ricavi di un'impresa, il diverso gra-do di indicizzazione al cambio dei prezzi dei prodotti e del costo dei fattori, l'incer-tezza presente nel processo di formazione di aspettative del tasso di cambio futuro. A conferma del legame ipotizzato tra va-riabilità dei tassi di cambio e importanza della scelta della valuta di fatturazione si può citare il fatto che solo nel corso degli anni '70, dopo l'abbandono del sistema dei cambi fissi, l'attenzione degli studiosi e de-gli operatori si è concentrata più puntual-mente sul tema delle scelte valutarie nel commercio internazionale. Ne è derivato uno sforzo analitico volto da un lato ad evidenziare quali siano le determinanti di tali scelte, sia a livello di singola impresa che in relazione alla struttura dei mercati; dall'altro ad analizzare le conseguenze per gli operatori di variazioni dei tassi di cam-bio e le possibilità di copertura a termine delle posizioni nette in valuta.
2. E V I D E N Z A E M P I R I C A
Prima di scendere in maggiori dettagli sul tema delle «cause e conseguenze» delle scelte valutarie e sul potenziale ruolo del-l'ECU come valuta-veicolo dotata di mag-giore stabilità, può essere utile una breve rassegna dell'evidenza empirica finora ela-borata sul tema della valuta di fatturazio-ne.
Purtroppo non esistono rilevazioni statisti-che continue nel tempo e omogenee per i vari paesi che permettano di evidenziare in modo completo la distribuzione per valute di fatturazione del commercio estero e la ulteriore disaggregazione per aree geografi-che e gruppi merceologici. Tuttavia dai numerosi studi sviluppati negli ultimi anni è possibile ricavare, almeno per quel che riguarda i maggiori paesi industriali, alcu-ne «regolarità» empiriche di un certo inte-resse.
2.1 Fatturazione degli scambi tra paesi in-dustriali
Gli scambi commerciali tra i paesi indu-striali di prodotti manufatti finiti tendono ad essere fatturati nella valuta nazionale dell'esportatore o dell'importatore, con una netta prevalenza della prima, e solo in misura minore vengono fatturati in moneta terza.
Tale «regolarità», evidenziata per la pri-ma volta in uno studio di Grasspri-man del
con-dotte nei principali paesi industriali per-mettono di trovare una conferma alla tesi avanzata da Grassman: in media i paesi europei denominano la metà delle proprie esportazioni in moneta nazionale, oltre 1/3 nella valuta dell'importatore e meno di 1/5 in dollari. Dal lato delle importazioni in-vece la quota fatturata in moneta naziona-le appare in genere minoritaria mentre prevale la moneta del venditore. Poiché circa il 70% del commercio dei paesi indu-striali è rappresentato da scambi intra-area, i dati relativi alle importazioni sono speculari rispetto a quelli osservati dal lato delle esportazioni. Alle «regolarità» enun-ciate fanno però riscontro alcune eccezioni che sono costituite dall'Italia e dal Giappo-ne: per entrambe i paesi la quota di espor-tazioni fatturate in moneta nazionale (nel
1983 32% in Italia e 39.3% in Giappone) è minoritaria rispetto alla quota fatturata in Dollari e nella valuta del paese importato-re. Eccezioni meno rilevanti sono costitui-te da piccoli paesi industriali europei (Ir-landa, Finlandia e Belgio) che tendono a fatturare le loro esportazioni nella moneta dell'importatore.
Eccezioni alle «regolarità» prima enuncia-te esistono anche dal lato delle importazio-ni: Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Francia e Svizzera fatturano prevalente-mente in moneta nazionale; Italia e Giap-pone in dollari (nel 1983 43% dell'import italiano e 93% di quello giapponese sono stati fatturati nella valuta americana). Tenendo conto delle situazioni «atipiche» osservate possiamo quindi concludere che nello scambio di manufatti:
— i paesi industriali maggiori tendono a fatturare i loro scambi con l'estero preva-lentemente in moneta nazionale;
— i paesi industriali minori denominano per lo più le esportazioni in moneta nazio-nale e le importazioni nella moneta del venditore;
— il dollaro, con le eccezioni degli scambi commerciali italiani e giapponesi, non ri-copre un ruolo rilevante nella fatturazione degli scambi intraeuropei.
Poiché nostro obiettivo, in questa sede, è quello di evidenziare casi e situazioni in cui la fatturazione in ECU possa essere convenientemente sostituita a quella in al-tre valute, e in ciò gli operatori europei sono ovviamente i nostri più importanti interlocutori, può essere utile soffermarsi su alcune ulteriori caratteristiche della
fat-turazione del commercio dei paesi europei. Abbiamo visto che, per quel che riguarda gli scambi intraeuropei, la maggior parte di essi viene fatturata nella moneta di uno dei due partners. Alcune valute, in particolare il marco, hanno però registrato una quota di utilizzo notevolmente più elevata, altre valute, quali la lira, una quota significati-vamente più bassa. Una possibile interpre-tazione di questa tendenza è che gli interes-si contrapposti degli esportatori e degli im-portatori a fatturare nella moneta naziona-le, abbiano potuto trovare un punto di in-contro nella scelta della valuta relativa-mente più forte, in questo caso il marco. Si tratterebbe quindi di una situazione in par-te connessa ad un'altra delle «regolarità empiriche» indicate nella letteratura sulla fatturazione, e cioè il fatto che se un paese ha un tasso inflazionistico più elevato e, soprattutto, più instabile dei suoi partners commerciali, c'è una tendenza a non usare la sua valuta per fatturare gli scambi con l'estero. Un caso tipico potrebbe essere quello dell'Italia che fattura in lire una quota relativamente bassa non solo delle importazioni ma anche delle esportazioni. Va osservato però da un lato che la più re-cente evoluzione dello SME e della CEE in termini di riavvicinamento dei differenziali inflazionistici e delle politiche monetarie ha agito nel senso di stabilizzare i cambi delle valute comunitarie, dall'altro che gli influssi dei movimenti oscillatori di capita-li speculativi internazionacapita-li dal marco ver-so il dollaro, hanno ridotto il connotato del marco come «la» valuta forte dell'area europea. L'insieme di questi due elementi dovrebbe ridurre gli incentivi che hanno in passato determinato le particolari scelte valutarie degli operatori europei, prima descritte; tuttavia tali spostamenti nella scelta della valuta di fatturazione non si realizzeranno, verosimilmente, in tempi brevi dato che la consuetudine e le abitudi-ni di mercato degli operatori giocano un ruolo molto importante in questo campo. Per quel che riguarda gli scambi dei paesi comunitari con paesi extraeuropei dobbia-mo distinguere tra paesi industriali con i quali, come si è già detto, è prevalente l'u-so della moneta nazionale di uno dei due partners, da quelli in via di sviluppo e da quelli socialisti le cui monete sono per lo più non convertibili. In questi due ultimi casi le esportazioni europee sono denomi-nate per lo più nella moneta
dell'esporta-tore, mentre le importazioni sono preva-lentemente denominate in dollari oppure nella valuta dell'importatore europeo. L'u-tilizzo del dollaro raggiunge valori partico-larmente elevati nel caso delle importazio-ni dall'Opec e dall'America Latina.
2.2 La distribuzione merceologica delle va-lute di fatturazione
Quest'ultima considerazione ci porta ad af-frontare il problema della fatturazione da una ulteriore angolatura, e cioè dal punto di vista della distribuzione merceologica delle valute di fatturazione.
Nell'esaminare l'interscambio tra paesi CEE ci siamo di fatto occupati prevalente-mente di scambi di manufatti finiti e ab-biamo visto come per questi la valuta di fatturazione sia in genere quella di uno dei due partners. La situazione muta però quando si consideri l'interscambio di pro-dotti semilavorati e, soprattutto di materie prime. In questi due ultimi casi infatti ten-de a prevalere la fatturazione in valuta ter-za, generalmente in dollari.
Per inciso è interessante notare che proprio la struttura merceologica delle transazioni potrebbe spiegare una delle anomalie ri-scontrabili a livello europeo e cioè il mag-gior uso della moneta statunitense nelle importazioni di Italia, Francia e Germania dal Regno Unito: in quest'ultimo paese hanno infatti sede legale molte compagnie petrolifere. L'ampio uso di dollari potreb-be quindi dipendere dalla fatturazione nel-la moneta americana dell'import di petro-lio.
Cosa determina la particolare distribuzio-ne merceologica delle valute di fatturazio-ne? Una risposta completa richiede sia l'e-same a livello microeconomico del com-portamento degli operatori, sia lo studio della struttura dei mercati e quindi del po-tere contrattuale dell'esportatore e dell'im-portatore. Ritorneremo con maggiori det-tagli sul tema delle funzioni di comporta-mento dei singoli operatori. Ci serve tutta-via anticipare fin da ora alcune assunzioni che sono in generale valide. Esse sono: a) l'operatore in transazioni commerciali con l'estero è avverso al rischio;
reddito che l'operatore realizzerà in valuta nazionale a compimento della transazione. Per quel che riguarda invece la struttura dei mercati, supponiamo per semplicità che i beni commerciati possano essere di-stinti in beni del tipo A e del tipo B. Beni del tipo A sono quelli di cui l'impresa produttrice può controllare il prezzo di mercato. Si tratta di manufatti quali ad esempio macchinari, mezzi di trasporto, beni di investimento, beni di consumo di qualità ecc., ossia di beni dotati di un certo grado di sofisticazione e/o di caratteristi-che caratteristi-che li distinguono gli uni dagli altri, anche solo per la marca di appartenenza. Per tali tipi di beni il livello di differenzia-zione del prodotto consente la presenza di prezzi di mercato diversi per prodotti simi-li, garantendo con ciò un certo potere di mercato all'impresa produttrice. Il vendi-tore dei beni di questo gruppo riesce quin-di, generalmente, ad «imporre» la fattura-zione nella propria valuta coprendosi così dal rischio di cambio.
I beni del tipo B — in cui rientra la mag-gioranza delle materie prime — sono inve-ce altamente standardizzati. In genere han-no un vasto mercato ed un prezzo interna-zionale soggetto alle variazioni di doman-da e offerta a livello mondiale. Per tale gruppo di beni l'utilizzo della moneta, ge-neralmente il dollaro, in cui ne è fissato a livello internazionale il prezzo è la soluzio-ne che minimizza sicuramente i costi d'in-formazione — se non i rischi di cambio — e tende, quindi, ad essere accettata sia dal venditore che dall'acquirente.
Beni intermedi, ossia semilavorati, vengo-no fatturati sia nella moneta dell'acquiren-te o del venditore sia in valuta dell'acquiren-terza, a se-conda del loro grado di omogeneità e del potere di mercato dei due partners com-merciali.
3. LE SCELTE DEGLI OPERATORI: R I S C H I O DI C A M B I O E P A N I E R E DI V A L U T E DI F A T T U R A Z I O N E
I (
L'individuazione di potenzialità per la so-stituzione dell'ECU ad altre valute nella fatturazione degli scambi commerciali con l'estero, richiede un esame di quali ele-menti determinino la scelta della valuta di fatturazione. Si è già visto il ruolo giocato dalla struttura dei mercati: la scelta della
valuta è influenzata infatti da elementi quali il relativo potere contrattuale del produttore e del compratore, l'intensità della competizione nell'industria, le di-mensioni delle imprese. A queste vanno aggiunte altre variabili quali il grado di fa-miliarità con le diverse valute, abitudini e tradizioni, il tipo di contratto di vendita, il credito commerciale accordato, e altre an-cora.
Quelli prima citati sono in un certo senso «vincoli» degli operatori, ma è utile soffer-marsi anche sul problema di quali siano i loro obiettivi. Se individuiamo nel rischio di cambio uno dei problemi centrali della fatturazione in valuta, possiamo definire quale sia il paniere ideale per un operato-re. Nel caso di un esportatore, ad esempio, tale paniere ideale sarà quello che pesa le valute di fatturazione delle merci esportate in base alle quote delle stesse valute — estere e nazionali — in cui sono denomina-ti i suoi cosdenomina-ti correndenomina-ti e il suo indebitamen-to. Tale paniere ideale è quindi quello che minimizza, al limite annulla, le posizioni nette in valuta e, di conseguenza, il rischio di cambio. Nel caso più semplice di un esportatore i cui costi correnti e i cui fi-nanziamenti siano interamente denominati in valuta nazionale, il rischio di cambio può essere interamente eliminato fatturan-do le esportazioni nella stessa valuta. Ana-logo ragionamento può essere fatto per l'importatore o più in generale per un ope-ratore che sia, a un tempo, importatore di certi beni, ad esempio materie prime, ed esportatore di altri, ad esempio semilavo-rati o manufatti finiti.
Il paniere di fatturazione ideale raramente può essere raggiunto per varie ragioni, pri-ma fra tutte il fatto che le preferenze dell'e-sportatore e dell'importatore normalmente non coincidono e, anzi, sono spesso oppo-ste. Ne deriva che in ogni transazione com-merciale con l'estero almeno uno dei due partners, e a volte entrambi, è più o meno esposto al rischio di cambio.
In linea di principio l'impresa può coprirsi dal rischio di cambio alternativamente comprando o vendendo valuta sul mercato a termine. Notevoli difficoltà limitano però, di fatto, l'utilizzo di tali strategie di difesa dal rischio di cambio. Vediamone alcune:
• un esteso mercato a termine esiste solo per alcune valute e, inoltre, il farvi ricorso in modo sistematico può rappresentare un
costo notevole soprattutto per le imprese piccole e dislocate territorialmente lontano dai grandi centri finanziari;
• la possibilità di coprire le posizioni aperte con operazioni sui mercati a termi-ne dipende dalla conoscenza esatta del mo-mento in cui il pagamo-mento della transazio-ne commerciale verrà effettuato. Spesso tuttavia vengono concesse forme di credito commerciale — la più diffusa delle quali è costituita dagli «open accounts» — ossia clausole che consentono al compratore di pagare nell'ambito di un arco di tempo, anziché ad una data prefissata. Venendo a mancare il pagamento puntuale della mer-ce, le possibilità di copertura sui mercati a termine si riducono notevolmente;
• poiché l'incertezza sull'andamento dei tassi di cambio è generalmente crescente quanto più ci si allontana nel futuro (e ciò viene scontato nel differenziale tra tasso a pronti e a termine), il costo della copertura sui mercati forward è crescente quanto più è lungo l'arco temporale rispetto a cui essa va effettuata. Ad un certo punto nel tempo tale costo è così elevato da rendere preferi-bile una posizione scoperta, anche se sog-getta al rischio di cambio.
Queste e altre ragioni spiegano perché, in effetti, proporzioni elevate delle transazio-ni internazionali fatturate in valuta estera rimangono scoperte.
Il rischio di cambio non è l'unica determi-nante nella scelta della valuta di fatturazio-ne. Il rischio di prezzo — ossia quello rela-tivo alla possibile divergenza tra ricavi net-ti previsnet-ti e quelli realizzanet-ti — può in effet-ti indurre pareffet-ticolari scelte valutarie. Per fare un esempio, consideriamo un contrat-to per consegna di un bene a medio o lun-go termine e supponiamo che l'esportato-re-produttore ritenga possibile e probabile un incremento dei costi di produzione dopo la fissazione del prezzo del prodotto. In tal caso, se egli valuta che il differenzia-le inflazionistico del suo paese abbia uno stretto nesso causale con la svalutazione della propria moneta, preferirà fatturare le esportazioni nella divisa dell'importatore o in una terza valuta «forte». In questo caso particolare il rischio di cambio non agisce nella direzione da noi prima indicata di determinare la preferenza per la fatturazio-ne fatturazio-nella valuta nazionale.