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Demostene fra politica ateniese di potenza e panellenismo

Piero Treves e il suo Demostene e la libertà greca

3.8 Demostene fra politica ateniese di potenza e panellenismo

Questa necessità etica di combattere contro i sovrani macedoni, scriveva Treves, “riesce tanto più persuasiva, in quanto non si fonda su calcoli od interessi peculiarmente

198 Paolo Treves, Quello che ci ha fatto Mussolini, p. 9. Già nel suo libro su La filosofia politica di Tommaso

Campanella Paolo Treves aveva scritto: “considerare realtà, e quindi politica, unicamente quella forma sociale

cui arrida il successo dell’ora […] non avrebbe in sé nessun rigore scientifico, ma si muterebbe in una sterile e supina accettazione del fatto compiuto” (p. 194).

ateniesi, ma, anzi, appoggia sopra un substrato e un convincimento assoluto e morale, ugualmente, quindi, valevole per tutti i Greci”200. Infatti, Demostene, e l’aveva già detto Grote, punta sì all’egemonia di Atene, ma questo è un fine panellenico, non panateniese:

Gli Ateniesi sanno […] che democrazia e libertà sono […] il sostrato ideale del loro impero. Demostene è imperialista perché sa che l’Impero ateniese nacque da una guerra di libertà e per un fine di libertà: e, se oggi combatte per restaurare l’egemonia di Atene, ciò è per ben più che una generosa cupidigia o un sogno orgoglioso di cittadino. Demostene sa, in effetti, che Atene non può esistere senza libertà; che, inversamente, la libertà non può esistere senza l’egemonia di Atene. […] la guerra contro Filippo era nell’interesse di tutti i Greci, ma era possibile soltanto grazie alle triremi di Atene.201

Il particolarismo, che caratterizzava la Grecia da secoli, ne era il punto debole. Per tutto il IV secolo la Persia, fallito ormai il tentativo di un controllo diretto, aveva bloccato la forza espansiva dei Greci fomentando le lotte tra polis e polis. Ogni qualvolta che una città greca riusciva ad imporsi come egemone, ecco che l’oro persiano arrivava copioso a finanziare guerre, ribellioni e tradimenti. Dunque, erano gli stessi Greci, con le loro continue lotte interne, a facilitare l’opera dei popoli barbari. Come era successo in passato, ora, di fronte a un nuovo nemico, Atene doveva assumersi la responsabilità di superare il campanilismo greco per salvare la libertà delle poleis: il fine della politica di Demostene è “nell’opistodomo dell’edificio sacro alla dea poliade, il tesoro che tangibilmente significa la volontaria adesione, la concorde fedeltà delle poleis, obbligate ad Atene per aver ricevuto il dono più alto: la libertà e il governo a popolo”202. Significava, in altre parole, tornare ai tempi di Pericle e dell’imperialismo ateniese.

200 Demostene, Le tre orazioni olintiache, p. 6 201 Id., La seconda filippica, p. 25.

La posizione che negli stessi anni andava esprimendo Momigliano era radicalmente diversa. Quest’ultimo certo non disconosceva le capacità politiche di Demostene; come anche non negava che egli fosse il “più grande e sincero campione”203 della libertà ateniese. Della libertà ateniese, però, non di ogni libertà. Invero, il fatto che, probabilmente, fosse stato l’unico a cogliere la minaccia di Filippo, non significava che Demostene fosse riuscito ad andare oltre “la contraddizione sua fondamentale di voler Atene salvatrice della Grecia e la Grecia sottoposta all’egemonia ateniese”204.

L’autore delle Filippiche fu senz’altro tra quegli intellettuali che intuirono fin da subito che la minaccia macedone non poteva essere sconfitta se non vincendo le continue discordie che caratterizzavano la penisola greca. Occorreva dunque unire le forze e creare legami di solidarietà, ma anche oltrepassare il particolarismo esasperato. E Demostene avvertì quest’ultimo aspetto, ma, scriveva Momigliano, non più che “confusamente”205. Ad oltre un secolo di distanza, l’oratore ateniese riproponeva l’egemonia di Atene: come nel V secolo, toccava a lei mettersi alla testa delle poleis e difendere l’altissima civiltà greca dall’invasione barbara. Eppure, faceva presente lo studioso piemontese, il periodo pericleo non fu vissuto positivamente da tutti i Greci e questo perché

In Atene non fu sentito mai un problema dell’Impero se vogliamo intendere con questo termine la coscienza di dover salvaguardare interessi collettivi superiori a quelli di Atene. Si badava solo a tutelare e ad accrescere il benessere, la ricchezza, il privilegio che, grazie all’Impero, Atene si era procurato. […] Tutti concordavano nel non sentire la necessità di dare all’Impero un’organizzazione che ne

203 A. Momigliano, Demostene in Enciclopedia Italiana, 12, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1931, pp.

605-609, 608. De Sanctis, all’epoca direttore della Sezione Antichità Classiche,probabilmente affidò la voce enciclopedica sull’oratore ateniese a Momigliano e non a Treves perché quest’ultimo ultimò la propria tesi di laurea (da cui nacque il Demostene e la libertà greca) solo negli ultimi mesi del 1931 (vedi infra). La collaborazione di Treves all’Enciclopedia Italiana inizierà nel 1933.

204 Id. Filippo, pp. 110-111.

205 Id., Contributi alla caratteristica di Demostene, “Civiltà moderna”, 3, 1931, pp. 711-744, ora in Quinto contributo,

assicurasse l’unità spirituale e quindi la stabilità. Si cercava insomma l’interesse di Atene, non quello dell’Impero206.

Paradigmatico era stato l’episodio di Melo, i cui abitanti, che nel 416 a.C. volevano mantenere una posizione di neutralità rispetto agli eventi della Guerra del Peloponneso, furono in parte uccisi e in parte deportati dall’esercito ateniese.

Ecco allora la contraddizione: si voleva rispondere ad un dominio con un altro dominio. Demostene aveva a cuore la libertà della sua Atene più che quella generale della Grecia. O meglio, non riusciva a concepire una libertà greca che non fosse libertà di Atene. La sua politica, scriveva Momigliano, “rivela nella sua genuinità il sovrapporsi continuo della esigenza panatenaica e quella panellenica”.

Ciò era stato evidente proprio nel 335 a.C. con la già citata distruzione di Tebe da parte del giovanissimo Alessandro Magno. Se, da un lato, Treves aveva messo in luce il valore etico di quell’insurrezione, dall’altro Momigliano ricordava come Demostene in quell’occasione mise in campo tutta la sua scaltrezza politica per evitare ad Atene la tragica sorte di Tebe. L’obiettivo immediato fu raggiunto e Atene fu salva, eppure per lo storico di Caraglio questo episodio era la riprova “di quanto fossero fragili le basi di una cooperazione, che non imponeva alcuna solidarietà per i suoi membri. […] Atene pensava precisamente solo a se stessa”207.

Il ventitreenne collaboratore dell’Enciclopedia Italiana, riassumeva la sua idea a riguardo in poche, nitide righe nella voce dedicata all’oratore ateniese:

206 Id., Le cause della spedizione di Sicilia, “Rivista di Filologia e di Istruzione Classica”, N.S. 7, 1929, pp. 371-377,

ora in Quinto contributo, I, pp. 229-234, 232-233. Su questo argomento si veda anche Id., La spedizione ateniese in

Egitto, “Aegyptus”, 10, 1930, pp. 190-206, ora in Quinto contributo, I, pp. 211-228.

Sarebbe errato ritenere che perciò Demostene abbia sorpassato definitivamente i limiti dell’imperialismo ateniese: il suo centro è sempre Atene, non la Grecia. Di una confederazione o comunque di un raggruppamento, che abbia per base la rinuncia all’espansione illimitata ed egoistica di ogni città senza riguardo agli interessi delle altre non è parola mai in Demostene. […] [Egli] non sa distaccarsi da quello che alle città greche parve un elemento costitutivo della loro libertà politica, la libertà di espandersi illimitatamente e quindi di sopraffare chi vi si opponesse. […] L’imperialismo di Demostene non contraddice al suo amore della libertà, ma ne è parte integrante.208

Insomma, proprio nel momento in cui sentiva l’esigenza di andare oltre la polis, l’oratore ateniese riproponeva i vecchi schemi politici del V secolo. Ecco perché Demostene fu solo un “vagheggiatore della libera vita delle poleis”209: egli capì i nuovi pericoli, ne intravide una soluzione panellenica e, però, non fu capace di uscire dalle ristrettezze dell’ambizione panateniese.

È interessante notare come Momigliano, che tanto aveva imparato da Droysen (dal

primo Droysen), si esprimesse in maniera così negativa su una forma di imperialismo, quello

ateniese, che Treves, il quale si rifaceva esplicitamente a Grote e alla tradizione liberale, accettava in toto. Questo poteva succedere per un motivo ben preciso: mentre Momigliano focalizzava la sua attenzione sull’ultima parte del IV secolo a.C, quando Atene perdette la Guerra del Peloponneso anche a causa del malessere che serpeggiava fra le poleis alleate e su cui faceva leva Sparta; invece Treves, facendo proprio il punto di vista demostenico, vedeva in Atene quella città che a Maratona e a Salamina, per far fronte al comune nemico persiano, aveva unito intorno a sé tutti i Greci, salvaguardandone l’autonomia.

208 Id. Demostene, p. 606. 209 Id., Contributi, p. 250.

Ecco allora che parole come “unità, impero”, specificava Treves, “non debbono trarre […] a fraintendimenti; suggerire anacronistici termini di paragone”. Certo, “a noi imperialismo suggerisce l’universale dominazione, l’asservimento livellatore di Roma. Significa, oggi, per noi, conquista ed armi”. Ma, assicurava lo storico milanese, “Demostene non mira a conquiste, a imperi, nel senso che la storia di Roma ci suggerisce”210. Infatti, secondo Treves, l’impero di Atene sorse “dallo spontaneo concorrere delle poleis, immuni, anche, da vessazioni e da tributi; sorse nell’interesse di tutti, per il bene di tutti, per l’universale libertà di tutta quanta la penisola. Per l’unificazione di tutta la Grecia in una unica patria ideale”211.

Da un lato, dunque, il termine “impero” non doveva far pensare al dominio di Roma (e qui il riferimento, implicito ma innegabile, era a certa romanolatria fascista); dall’altro, i termini “unità” e “patria” non erano da intendere con il metro nazionale tipico dell’Ottocento. Come abbiamo già visto, questo era l’anacronismo in cui cadevano gli storici come Droysen e Beloch. Ciò per cui Demostene spendeva tante energie, invece, era

Il primato di una polis, cui la maggior forza politica e la sua tradizione civile fanno degna d’ “esser preposta” (è il termine greco usato a significare l’egemonia) alle altre città, per guarentirne il vivere autonomo e libero. Come Pericle […] fondò l’Impero, e legittimò nel benessere, nella pace, nella concordia internazionale la sua egemonia, così Demostene volle, dopo un secolo e per le stesse vie e al medesimo fine, rifondare l’Impero di Atene.212

Riassumendo, tanto nel pensiero di Demostene quanto nella ricostruzione storica di Treves, non c’era nessuna incompatibilità tra una politica panellenica ed una panateniese.

210 Demostene, L’orazione per la corona, p. 15.

211 Isocrate, Panegirico, con introduzione e note di P. Treves, Torino, G.B. Paravia, 1932, p. 21. 212 P. Treves, Demostene, p. 177.

Come ai tempi delle Guerre Persiane, l’imperialismo, solo quello di Atene ovviamente, e la libertà, potevano coesistere; anzi, l’uno era il presupposto necessario dell’altra.