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La recensione di Treves all’ Ottaviano capoparte

Mario Attilio Levi: un confronto

4.3 La recensione di Treves all’ Ottaviano capoparte

Difficile pensare a due persone più diverse: Mario Attilio Levi e Piero Treves. L’uno, nonostante le tardive revisioni auto-biografiche, attivamente impegnato nell’ambiente del fascismo torinese; l’altro, figlio di uno dei più importanti oppositori al regime e fervente

262 R. Syme, La rivoluzione romana con Introduzione di A. Momigliano, nuova ed. e introduzione a cura di G.

Traina, Torino, Einaudi, 2014, p. XIV.

263 A. Marcone, recensione a La rivoluzione romana di R. Syme, nuova edizione a cura di G. Traina, “Rivista

Storica Italiana”, 127, 2015, pp. 624-628, 626.

264 M.A. Levi, Ottaviano capoparte. Storia politica di Roma durante le ultime lotte di supremazia, 2 voll., Firenze, La

Nuova Italia, 1933, I, p. 252. Giudizi simili anche alle pp. 256 e 258.

antifascista egli stesso. Il primo, monarchico anche in vecchiaia266; il secondo, convinto repubblicano. Levi, nel 1933, già con un posto (seppur provvisorio) all’Ateneo torinese; Treves costretto dalle circostanze politiche a rimanere escluso dal mondo accademico.

Eppure, è interessante notare come Treves avesse parole molto positive per l’Ottaviano capoparte, descritto, nelle due recensioni che gli dedicò, come “un libro così ricco e dotto”267. Nella produzione anteriore alle delazioni arrivate a Mussolini, Levi, lo si è detto, aveva speso parole molto positive per il futuro Augusto: “egli fu l’imperator, il generale vittorioso; fu il restauratore e il salvatore di Roma e del suo impero; fu il pater patriae, il princeps

civitatis”268. Di tutt’altra natura, invece, il giudizio su Cesare. Ed era proprio tale impostazione

ad essere apprezzata da Treves, e questo per varie ragioni.

Innanzitutto, il regime politico augusteo non sarebbe mai nato se non fosse stato per il tirannicidio. Si ricorderà dal capitolo precedente l’atto beffardo con cui, all’indomani dell’attentato Zamboni, il giovanissimo Piero aveva voluto il proprio “martirio”. Ora, a sette anni di distanza, occorreva riaffermare, “più forse di quanto il Levi non abbia fatto, l’efficacia politica e il significato, contingente insieme e assoluto, del cesaricidio”. I richiami alla politica contemporanea sono evidenti e, se Treves non negava “la politica, forzatamente vessatrice, dei cesaricidi in terra d’Asia”, nondimeno la figura di Bruto assumeva i tratti solenni, eroici e quasi sacrali con cui Treves, proprio in quel 1933, descriveva anche Demostene:

Bruto scese all’azione per fedeltà all’ideale; al duplice sogno, romano e stoico, della repubblica e della libertà. Non pensò di compiere una azione politica; […] ma come un dovere morale. […] La certezza che liberi si può, e deve, essere, nella vita od oltre la vita, gli suggerì […] parole che sono viatico,

266 Id., Tradizione e “controcultura” (L'Ora dei Tradizionalisti e dei Monarchici), Palermo, Edizioni Thule, 1978, in

part. p. 13

267 P. Treves, recensione a Ottaviano capoparte di M.A. Levi, “Civiltà Moderna”, 5, 1933, pp. 198-204, 204.

Identico giudizio nella recensione apparsa in “Zeitschrift für Sozialforschung”, 2, 1933, p. 448.

268 M.A. Levi, Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano in Enciclopedia Italiana, 5, Roma, Istituto dell’Enciclopedia

“possesso perpetuo”, dell’umanità. Bruto non è un politico, un condottiero. […] è della cerchia più alta, fra i maestri di eticità e di santità.

Altro motivo per guardare positivamente all’epoca augustea era “il fremito religioso di questa età”, fremito che “segnò la feconda gestazione di nuove fedi”269. Siamo nel 1933 e la corrispondenza con Gaetano De Sanctis ci ha rivelato l’insospettata “crisi spirituale” del giovane allievo. Due anni dopo, nel già citato articolo su La ‘Preghiera’ di Ernesto Renan, Treves avrebbe scritto che “la ‘cultura’ non è antropolatria, sì anzi avviamento al Divino, come la preghiera”270. Alla fine dell’Ottaviano capoparte Levi prometteva una continuazione dell’opera nella pubblicazione dell’Augusto Principe. Questo libro, auspicava il recensore, avrebbe dovuto insegnare

Oltre l’umano e il caduco della costruzione augustea, il valore assoluto di quell’età, provvidenziale temperie, perché tutte le anime, invano affratellate dall’unità nel nome di Roma, si sentissero, nell’appello evangelico, libere dai ceppi dell’asservimento, commiste, une, in eterno, nel Nome del Padre, nell’aspettazione impaziente dell’Avvento del Regno di Dio.

Eppure, il punto su cui i due allievi di De Sanctis si trovavano maggiormente d’accordo era proprio la concezione meyeriana, mutuata dall’insegnamento del comune maestro, da adottare nell’analisi di questo periodo storico e dei suoi protagonisti. Ed infatti, Treves scriveva esplicitamente che Levi era stato uno “dei più benemeriti e attivi, per far note fra noi le teorie di Ed. Meyer”271, mettendo in nota appunto il profilo pubblicato da

269 P. Treves, recensione a Ottaviano capoparte, “Civiltà Moderna”, passim.

270 Id., La ‘Preghiera’ di Ernesto Renan, p. 504 n. 1. Su questo punto si veda anche la recensione, sempre del

1933, a Zwei religiös-politische Begriffe, Euergetes Concordia di E. Skard, p. 520.

Formiggini nel 1929, l’articolo in “Rivista Storica Italiana” del 1924 e il giudizio di De Sanctis del 1925.

Ancora una volta storiografia e quella che abbiamo definito “politicità” si univano in Treves. Nel 1932, nei famosi colloqui col giornalista Emil Ludwig, Mussolini aveva sentenziato: “l’uccisione di Cesare fu una disgrazia per l’umanità. Io amo Cesare. Egli solo riuniva in sé la volontà del guerriero con l’impegno del saggio. In fondo era un filosofo, che contemplava tutto sub specie aeternitatis. Sì, egli amava la gloria, ma il suo orgoglio non lo divideva dalla umanità”272. In realtà il focus della propaganda di regime si stava già, lentamente, spostando verso Augusto. Nella logica di questa trasformazione vanno inserite le celebrazioni per il bimillenario virgiliano (1930), per quello oraziano (1936) e, ovviamente, per quello augusteo (1937), con l’allestimento della Mostra augustea della romanità273. Tuttavia, ha scritto bene Andrea Giardina, “pur nell’entusiasmo del bimillenario augusteo e della rinascita dell’impero nella forma romano-fascista, questa opacità dell’Augusto guerriero doveva essere chiaramente avvertita: c’era qualche difficoltà a fare di Augusto il simbolo di un’Italia bellicosa”274. Ed infatti il 6 luglio 1933, l’anno dell’Ottaviano capoparte e delle recensioni trevesiane, Mussolini definiva ancora la propria come “un’epoca che può dirsi cesarea, dominata com’è dalle personalità eccezionali che riassumono in sé i poteri dello

272 E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Milano, Mondadori, 2000 (1° ed. Milano, 1932), p. 47-48.

273 Sulla politica culturale portata avanti dal regime in occasione dei vari bimillenari, Treves era stato esplicito.

Nel 1931 parlò di “deliranti apologeti”, come anche di “panegirici occasionali” e “retorici e natimorti scritti bimillenari” (recensione a Vergilio di A. Mocchino, “Civiltà Moderna”, 3, 1931, pp. 1189-1200, 1189); similmente, nel 1939, criticò “quell’inconcludente divagare oratorio, che vanifica tanta letteratura

commemorativa e imperiale” (recensione a Augusto di AA.VV., “Nuova Rivista Storica”, 23, 1939, pp. 261- 262, 261).

Gino Bandelli data il passaggio dal paradigma cesariano a quello augusteo tra il 1935 e il 1936 (Le letture mirate, pp. 392-393); Filippo Cassola, invece, al 1936 e, soprattutto, al 1937 (Pasquali e la storia antica in Giorgio Pasquali

e la filologia classica del Novecento, Atti del Convegno Firenze-Pisa, 2-3 dicembre 1985, a cura di F. Bornmann, Firenze,

L.S. Olschki, 1988, pp. 159-177, 168).

274 A. Giardina, L’impero di Augusto in AA.VV., I volti del potere, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 23-70, 55. Per un

tentativo di esaltazione congiunta di Cesare e Ottaviano si veda, fra gli altri, E. Pais, Roma dall’antico al nuovo

Stato, per il bene del popolo, contro i parlamenti, così come Cesare marciò contro l’oligarchia senatoriale di Roma”275.

Nel 1934 il figlio dell’ex deputato socialista pubblicherà un saggio intitolato

Interpretazioni di Giulio Cesare. Innanzitutto, la narrazione del regime intorno alla figura del

dittatore romano era “una vera mania”, correlata da una “enorme, fastidiosissima pubblicistica”. Poi Treves passava, come sempre, ad esaltare chi si era opposto al potere: “non intendere Bruto significa […] precludersi la comprensione di molta parte, della miglior parte anzi, della storia di Roma”. E, per finire, Cesare era definito come “un proconsole indisciplinato e, probabilmente, nel torto. […] Quando e dove l’anarchia è permanente, il tentativo sedizioso di bande armate agli ordini di un capo, che impropriamente si chiama rivoluzione, acquista, quasi, un carattere di frequenza e di normalità tradizionale”276. I riferimenti alla marcia del 1922 e alla scena politica coeva contenuti nell’articolo furono così palesi che il fascicolo de “La cultura” dov’era pubblicato venne subito sequestrato dalla censura fascista e rimesso in circolo solo dopo essere stato privato del saggio trevesiano.

L’anno precedente, nella recensione all’Ottaviano capoparte, il tono era stato meno militante, ma l’impostazione era la stessa. Cesare aveva tentato di instaurare una monarchia assoluta di stampo orientale ma, facendo ciò, si era scontrato con una tradizione repubblicana che a Roma era vecchia di oltre quattro secoli e mezzo. Anche colui che ne aveva colto più direttamente l’eredità, Antonio, era incorso nello stesso errore di Cesare. Ad entrambi, sosteneva Treves, mancava “il senso del passato, il nome di Roma”277. Se si tiene conto di questo e di ciò che si poteva leggere sulla “Zeitschrift für Sozialforschung” (“Er [Antonio] ist aber mit dieser Politik elend gescheitert, genau so wie sein Vorläufer Caesar den Dolchen

275 B. Mussolini, Opera Omnia, XXVI, p. 21.

276 C. Franco, Piero Treves: “Interpretazioni di Giulio Cesare”, pp. 119-123, passim.

277 P. Treves, recensione a Ottaviano capoparte, “Civiltà Moderna”, p. 201. Si veda anche: Id., L’imperialismo di

der Verschworenen erlegen war”278), appare chiaramente la consonanza fra Treves e il Levi che giudicava l’opera di Cesare come “antistorica” e il pugnale di Bruto come vendicatore dei “diritti d’una tradizione secolare” (vedi supra).

In quest’ottica, quella terminata ad Azio non era stata affatto una guerra civile ma una guerra contro un nemico “straniero”: Antonio. L’interesse di Ottaviano, invece, “perfettamente coincideva con l’interesse di Roma, e, più ancora, con la tradizione di Roma”279. Una volta vinti Antonio ed i suoi progetti assolutistici, il figlio adottivo di Cesare avrebbe dato vita ad un regime politico che non bisognava confondere con l’Impero successivo ma che Treves definiva “autocrazia repubblicana”280 e che Levi, similmente, aveva chiamato “principato repubblicano”281. Per concludere, il merito di Ottaviano Augusto era stato quello di unire insieme

Le due res olim dissociabiles, il nome di Cesare e la tradizione di Roma. […] E così fu vincitore. Se anche non per dialettico superamento e sintesi risolutrice, ma per compromesso e contaminatio dei due programmi contrastanti: il repubblicanesimo puro di Bruto, l’oligarchismo senatorio di Cicerone da un lato; il dionisismo autocratico di M. Antonio, dall’altro282.