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Momigliano sull’ Ottaviano capoparte di Le

4.6 e sull’ Ottaviano capoparte di Le

4.7 Momigliano sull’ Ottaviano capoparte di Le

Sempre in quel 1935 anche Arnaldo Momigliano recensì i lavori dei suoi due colleghi. Il ritardo, spiegava subito lo storico di Caraglio, era dovuto al fatto che “con gli amici, e soprattutto con gli amici che lavorano in campi molto vicini, quasi identici ai nostri, o si accentuano i consensi o si accentuano i dissensi: l’obiettività è impossibile”305. Pur provenendo dalla stessa scuola, senza ombra di dubbio in questo caso si accentuarono i dissensi. Lo vedremo, invertendo l’ordine originario, partendo dal giudizio su Levi.

Il rapporto tra i due studiosi piemontesi non fu mai ottimo. A dividerli stava un differente approccio metodologico (Levi era più propenso allo studio degli aspetti politici e giuridici, mentre Momigliano preferì sempre dedicarsi alla storia culturale, religiosa e delle idee306), ma anche una profonda antipatia personale.

Sin dal 1930, in privato Momigliano usava toni durissimi verso quello che pubblicamente definiva “amico”. In una lettera di quell’anno indirizzata a De Sanctis, riportava di aver avuto una conversazione con Levi circa “l’attualità politica del

305 A. Momigliano, recensione a Demostene e la libertà greca di P. Treves ed a Ottaviano capoparte. Storia politica di

Roma durante le ultime lotte di supremazia di M. A. Levi, “Athenaeum”, N.S., 13, 1935, pp. 137-145, ora in Quinto contributo, II, pp. 936-946, 937.

Puritanesimo”. Pensando a ciò che il compagno gli aveva detto, Momigliano confessava: “mi viene da una parte gran voglia di scherzare; […] ma anche mi viene una grande vergogna di questa nostra cultura chiacchierona e asina, che parla di valori spirituali senza conoscerne il nome”307. Si era, dunque, al limite dell’insulto.

Momigliano si esprimeva analogamente in una missiva dell’anno seguente. Anche qui il linguaggio era quasi offensivo. Il destinatario era sempre De Sanctis e il giovane allievo scriveva: “ho visto pure M. A. Levi […] mi ha dato l’impressione quasi penosa di irrisolutezza contrastante con la sicurezza esteriore”.

Del 1932 era una terza lettera, spedita anche questa al comune maestro. Il giudizio severo di Momigliano non era affatto cambiato. Tre anni prima De Sanctis si era spostato dal capoluogo piemontese a Roma per succedere a Beloch sulla cattedra di Storia antica. A Torino, tramite degli incarichi provvisori e affiancato da Giuseppe Corradi, fu proprio Levi a subentrargli. Nella lettera del ’32 Momigliano stroncava senza appello l’attività dell’amico e sentenziava: “come Ella saprà ormai, a Torino hanno ammazzato la Sua cattedra”308.

Quella del 1935, poi, non era la prima recensione che Momigliano dedicava al collega. Nonostante in Roma negli studi storici italiani Levi avesse avuto parole molto positive per alcuni lavori di Momigliano (pp. 519-520), la critica di quest’ultimo era senza riserve:

Non che […] non sia accettabile l’affermazione più insistente, anzi dominante, del valore politico universale della storia romana e nello stesso tempo del suo valore particolare per la genesi della storia d’Italia. Ma è intanto da osservare che di queste affermazioni generiche, ripetute a sazietà, sarebbe bene che gli storici di professione facessero ormai a meno, per passare al compito loro, che è superfluo definire.

307 L. Polverini, Momigliano e De Sanctis, p. 13.

308 L. Cracco Ruggini, Gli anni d’insegnamento a Torino, in Arnaldo Momigliano nella storiografia del Novecento a cura di

Inoltre, nonostante fosse indiscutibile che alcuni studiosi avessero usato denigrare Roma per esaltare Atene, non si poteva in ogni caso risolvere la storia greca in una “secolare contesa di comunelli e di grosse borgate”, come faceva Levi. E questo perché “le ritorsioni non appartengono alla storiografia”309.

Il botta e risposta che seguì, con Levi che invitava il collega a leggere “qualche linea in più”310 del proprio lavoro e Momigliano che insisteva sulla necessità di “ben altra indagine”311 per uno studio come quello, ci mostra chiaramente che le relazioni fra i due allievi di De Sanctis erano caratterizzate non solo da grande franchezza ma anche da una non celata inimicizia.

L’Ottaviano capoparte, l’abbiamo detto, fu opera certamente meno militante della rassegna apparsa nel 1934. Di riflesso, anche la recensione di Momigliano del 1935 non toccò i picchi di acredine raggiunti da quella dell’anno precedente. Purtuttavia il distacco restava netto. “L’utilità di un racconto così minuto dei fatti fra il 44 e il 31 d.C. [sic]”, iniziava Momigliano, “è indiscutibile”. Eppure, il lavoro era rimasto “a metà”: esso non portava netti miglioramenti nella conoscenza evenemenziale e nell’interpretazione di quegli anni così turbolenti; né, d’altro canto, la storia di quel quindicennio veniva inserita nella secolare vicenda della transizione dalla repubblica al principato (quella che, di lì a pochi anni, sarebbe stata chiamata la “Roman Revolution”).

Quest’ultimo punto interessava particolarmente Momigliano, sempre attento agli aspetti culturali e a ricostruzioni di più ampio respiro. Quella che invocava lo studioso di Caraglio, infatti, non era solo una cronaca strettamente giuridica o politica ma una

309 A. Momigliano, recensione a Roma negli studi storici italiani di M. A. Levi, “Leonardo”, 5, 1934, pp. 565-567

ora in Quarto contributo, pp. 657-662, 659.

310 M.A. Levi, senza titolo, “Leonardo”, 6, 1935, pp. 38-39, 38.

311 A. Momigliano, Risposta a Mario Attilio Levi, “Leonardo”, 6, 1935, p. 39, ora in Decimo contributo, I, pp. 249-

ricostruzione di lungo periodo che comprendesse anche l’analisi delle aspirazioni ideali come dei fattori economici, dei ceti dirigenti come delle masse, dell’elemento italico come di quello provinciale. Insomma, “ciò che veramente ci manca ancora è una rappresentazione compatta di tutto il moto spirituale, economico, sociale […] che rese necessaria la trasformazione politica di Roma”.

Per la verità Momigliano, che certo non doveva amare la forma del trattato monografico, fu il primo a non assolvere questo compito. Prima della voce Roma, Età

imperiale, apparsa nell’Enciclopedia Italiana nel 1936, l’unica opera di sintesi di argomento

romano doveva essere il secondo volume del pur eccellente manuale scolastico Sommario di

storia delle civiltà antiche (1934)312. Per di più, nell’intera sua produzione prebellica Momigliano

si occupò pochissimo della tarda repubblica nello specifico. Ed infatti fu proprio nella voce enciclopedica sul periodo imperiale che egli chiarì brevemente la sua posizione sul passaggio da un regime istituzionale all’altro:

Quando appunto sorge, con Cesare, l’uomo in cui la costituzione del proprio potere sulla base dell’esercito proletario e di una riduzione del distacco tra l’Italia e le province è perseguita con profonda […] consapevolezza, siamo all’Impero. […] Ottaviano fu di fatto, come volle essere, più vicino a Cesare che non a Pompeo e, in altre parole, accolse, a differenza di Pompeo, quello che più sopra definimmo le due caratteristiche dell’impero: perché da Cesare mutuò la stabilizzazione del proprio potere sull’esercito, a cui Pompeo rinunciò invece consapevolmente, e il diretto assoggettamento delle provincie, di cui Pompeo non si valse se non in misura limitatissima313.

312 Id., Sommario di storia delle civiltà antiche, II, Roma, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1934. Ora riedito come

Id., Manuale di storia romana a cura di A. Mastrocinque, Novara, UTET Università, 20162.

313 Id., Roma, Età imperiale in Enciclopedia Italiana, 29, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1936, pp. 628-

In questo modo, come ha notato giustamente Gino Bandelli, “veniva rotto il nesso meyeriano tra il «Principat» di Pompeo e il regime di Augusto”314. Torniamo così alla prima delle due principali critiche che Momigliano muoveva all’Ottaviano capoparte: l’opera non solo era “sconnessa dal flusso della storia romana”, ma mancava anche di una interpretazione nuova dei fatti tra il 44 e il 31 a.C. La prospettiva che Levi adottava nell’Ottaviano capoparte, come nel profilo del 1929 e nelle già citate voci enciclopediche su Cesare e Augusto, era tipicamente meyeriana. Ed infatti, per tale motivo, il fascista Levi e l’antifascista Treves si erano trovati d’accordo. Momigliano, invece, in questi anni preparava un superamento di questa impostazione storiografica. Superamento a cui non avrebbe dedicato studi specifici ma che, si è appena visto, era ben presente nel contributo su Roma, Età imperiale. Ecco allora come “nella tesi generale (non ripeto, nei particolari) il libro del Levi non segn[i] un rilevante progresso nella esegesi della fine della repubblica romana”315.