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Isocrate e Filippo il Macedone secondo Treves e Momigliano

Piero Treves e il suo Demostene e la libertà greca

3.6 Isocrate e Filippo il Macedone secondo Treves e Momigliano

Insomma, nonostante l’età, Piero Treves aveva le idee ben chiare riguardo la storiografia che l’aveva preceduto. Posto che aveva scelto apertamente un indirizzo liberale e posto che, come abbiamo visto, “la caratteristica, la ragion d’essere” del suo Demostene e la

libertà greca era sorpassare “anacronistiche soprastrutture di storiografi moderni e preconcette

apologie partigiane”171, bisogna chiedersi: riuscì il giovane storico nel suo intento?

Cominciamo col dire che chi cercherà analogie tra la figura di Filippo il Macedone e qualsivoglia personalità del XIX e XX secolo non le troverà nell’opera di Piero Treves. Nella narrazione trevesiana il re macedone è, in una parola, l’antieroe. Dotato di “lucida visione politica e accortezza strategica”, lo storico milanese riconosceva che “la sua opera quasi aveva del miracoloso, per chi ripensi la situazione tristissima in cui la Macedonia versava, quando Filippo era salito al trono”172. Nondimeno, gli apprezzamenti finivano qui.

Certo, dopo Cheronea, “Filippo non era, e non si dimostrò, nemico degli Ateniesi, e volle, anzi, instaurare un accordo stabile tra la sua monarchia e la polis”173. Addirittura, il padre di Alessandro Magno si mostrò “spiritualmente disposto ad accettare le tradizioni civili dei suoi vinti, ad accogliere l’eredità delle guerre persiane, a difendere, o a rivendicare, i diritti della nazione greca”. Ma non bisognava illudersi: quel “panellenismo, [quel] farsi greco, era l’unica arma per asservire la Grecia e permettere, tuttavia, nel contempo, quell’azione incivilitrice che la Grecia esercitava su l’ancor semibarbara Macedonia”174.

In quest’ultima frase è contenuta un po’ tutta l’idea che Treves ha di Filippo. In primo luogo, quello macedone era un popolo barbaro e il suo re non faceva eccezione. Gli oratori del partito filo-macedone compirono un madornale errore di valutazione riguardo il Re di

171 Isocrate, A Filippo, p. 5.

172 Demostene, La seconda filippica, p. 10.

173 P. Treves, Apocrifi demostenici, “Athenaeum”, N.S., 14, 1936, pp. 152-174 e 233-258, 168. 174 Id., Demostene, p. 37.

Persia: egli è “l’arbitro, ma lontano e benigno, della Grecia. […] Non interferisce nella politica interna della Grecia, nell’autonomia delle poleis”175. Era passato circa un secolo e mezzo dalle grandi battaglie di Maratona e Salamina, ormai “il vero barbaro, vicino e potente”176 era un altro, è Filippo. “La sua disfrenata cupidigia, il suo irrequieto e ambizioso bisogno di un torbido agire”177 ne sono la prova.

Fino a qui, “disfrenata cupidigia” e “torbido agire” a parte, la posizione che un altro allievo di De Sanctis, Arnaldo Momigliano, sosteneva nel suo Filippo il Macedone non era poi così distante: il far derivare il nome della dinastia macedone, gli “Argeadi”, da Argo, diffondendo così la convinzione che essi fossero signori greci di gente barbara, non era altro che un “giochetto etimologico”178.

Tutti e due gli studiosi, poi, vedevano il progetto isocrateo come un’illusione, ma su basi diverse. Da molto tempo i sovrani macedoni partecipavano ai giochi olimpici come discendenti di Eracle. Nell’immaginario greco il semidio delle dodici fatiche era l’eroe panellenico, colui che ascese al cielo per aver tenacemente tentato di instaurare omonoia ed

eirene fra gli abitanti della Grecia. Proprio questi due termini indicavano valori, quali la

concordia e la pace, ardentemente ricercati nel IV secolo a.C. e centrali nella pubblicistica di Isocrate. Ecco allora che, secondo il retore ateniese, Filippo, sulla scia del panellenismo del suo mitico antenato, avrebbe dovuto riunire le discordi poleis greche e donarle, finalmente, la pace.

Eppure, scriveva Momigliano, il progetto politico di Isocrate era contraddittorio: tutti gli Stati greci dovevano riunirsi intorno ad un egemone, ma dovevano farlo

175 Ibid., p. 122.

176 Ibid. p. 67 (corsivo nell’originale).

177 Demostene, Le tre orazioni olintiache, con prefazione, traduzione e note di P. Treves, Modena, Società

tipografica modenese, 1938, p. 7.

178 A. Momigliano, Filippo il Macedone. Saggio sulla storia greca del IV secolo a.C., Firenze, Felice Le Monnier, 1934

(ristampa anastatica con una nuova Prefazione di A. Momigliano e un'Appendice bibliografica a cura di A. Momigliano e G. Arrigoni, Milano, Guerini e Associati, 1987), p. 4.

“spontaneamente, cioè per intrinseca persuasione, che è l’unico mezzo lecito fra Greci”. Ma allora, faceva notare lo storico di Caraglio, “in questo concetto di un egemone, a cui tutti devono aderire spontaneamente, non ci sarebbe bisogno di nessuno che trascinasse gli altri, che è poi […] il compito che Isocrate assegna all’egemone”179. Quello del retore ateniese, insomma, era “un programma contraddittorio, di cui non era riconosciuta la contraddittorietà e quindi irrealizzabilità, sicché ci si poteva illudere sempre di trovare qualcuno che lo sapesse infine realizzare”180.

Se, dunque, Momigliano aveva sottolineato l’incoerenza dell’ideale isocrateo e l’illusorietà della sua attuazione, per Treves “L’illusione di Isocrate” (così si intitolava il primo capitolo del Demostene e la libertà greca) stava nella scelta sbagliata dell’egemone. Quando nel 346 a.C., con l’orazione dedicata A Filippo, Isocrate aveva invocato l’intervento del re macedone nelle vicende greche, egli fu vittima di “un gigantesco abbaglio”181. Infatti, credeva Treves, quanto più si studia il periodo che va da quel 346 a.C., anno della pace di Filocrate, al 336 a.C., anno della morte di Filippo, tanto più “si vede impallidire l’aureola radiosa del panellenismo e infittirsi la rete oscura delle cricche e degli intrighi”182. Nella realtà, quella del re macedone non era altro che una politica “meschina, propugnatrice di una oscura vita laboriosa e pacifica, simigliantissima ad un effettivo, se pur non parvente, asservimento”183.

Su questo punto, il disaccordo con Momigliano era totale. Nella sua produzione degli anni ’30, lo storico di Caraglio mise in luce innanzi tutto l’abilità di Filippo nell’inserirsi nel mondo greco attraverso il meccanismo delle paci comuni, le koinai eirenai.

179 Id., Isocrate in Enciclopedia Italiana, 19, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933, pp. 634-636, 635. 180 Id., Filippo il Macedone, p. 187, corsivo mio.

181 Isocrate, A Filippo, con introduzione e commento di P. Treves, Milano, C. Signorelli, 1933, p. 22. 182 P. Treves, recensione a Der König der Makedonen di F. Hampl, “Rivista di Filologia e di Istruzione classica”,

63, 1935 pp. 258-264, 263.

In secondo luogo, Momigliano non negò che quella portata avanti dal padre di Alessandro Magno fosse una politica “di coercizione e di espansione”184. Nondimeno, fu Filippo, sopprimendo uno dei due termini, a comporre il paradosso greco fra attaccamento alla libertà e necessità di concordia. Questo, però, per lo studioso piemontese non significava l’instaurazione di una tirannide: l’Argeade, infatti, sentì “la convenienza e nello stesso tempo l’esigenza morale di contrapporre al valore della libertà che comprimeva un altro valore: che non poteva non essere la fine delle reciproche oppressioni, la pace”. A questo punto emergeva come indiscutibile non solo “la sua comprensione del disagio politico della Grecia”, ma anche “la sua capacità di formularne una soluzione in termini greci, se anche, ora, imposti ai Greci”185.

Da un punto di vista diametralmente opposto, l’altro allievo di De Sanctis sì riconosceva che il re macedone era riuscito a far propri i topoi elaborati dall’oratore ateniese, ma questo al fine di usarli contro i Greci stessi. Già al tempo della terza guerra sacra la pietas di Filippo era solo un “torbido, astuto e scaltro instrumentum regni, del quale usa Filippo, a illudere, e a deprimere, i suoi alleati”. Ma proprio quel conflitto era “il segno e l’inizio della comune servitù, il remoto preannunzio del dominio macedone, il precorrimento di quel regime nuovo ed insanguinato, che sarebbe sorto nella Grecia”186. Con la sua politica “scaltra, negativa e distruggitrice”187 colui che si spacciava per difensore del santuario delfico mirava in realtà ad un accordo con le poleis in cui fossero “un tutt’uno il testo della pace, la formula della servitù”188.

184 A. Momigliano, Teopompo in Enciclopedia Italiana, 33, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1937, pp.

532-533, 533.

185 Id., Filippo il Macedone, pp. 165-172, passim.

186 P. Treves, Per la critica e l’analisi del libro XVI di Diodoro, “Annali Scuola Normale Superiore Pisa”, S. 2, Vol.

6, 1937, pp. 255-279, 275-276, passim.

187 Id., Le Olintiache di Demostene, “Nuova Rivista Storica”, 22, 1938, pp. 1-19, 10. 188 Id., Demostene, p. 122.

La valutazione che Treves dava del re macedone non poteva essere più chiara, e più negativa. Il barbaro Filippo, proprio in quanto barbaro, non poteva instaurare che un regime anti-democratico. Il popolo che intendeva asservire, però, era ben più civile di quello da cui proveniva. Ecco dunque che, per raggiungere il proprio bieco scopo, era necessario impadronirsi degli strumenti culturali elaborati dagli Greci per ritorcerglieli contro.