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3.3 L’enigma della guerra

3.3.1 Dentro e fuori il frame teatrale

La collocazione geografica nei Balcani amplifica la percezione ―tragica‖ dei conflitti dando loro una connotazione fratricida. L‘uccisione tra consanguinei infatti è uno degli elementi che maggiormente definisce i lineamenti della tragedia, perché come recita il

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M. Candito, Professione: reporter di guerra, Baldini&Castoldi, Milano, 2000, pp. 138-139.

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A. Perissinotto, L‟eredità. Il futuro del noir è passato, in Noir de noir, op. cit., p. 48.

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Coro nei Sette contro Tebe ―La morte di due consanguinei massacratisi tra di loro, non c‘è vecchiaia che giunga a lavarne la macchia‖. Il delitto interno alla famiglia è infatti anche la dominante dell‘Amleto e dei Sette contro Tebe che costituiranno, in diversa misura, l‘ispirazione e il sottotesto rispettivamente dei romanzi di Jones e Bettin. Ciò che distingue, invece, maggiormente le due opere dal punto di vista del dispositivo tragico può essere individuato nei termini di posizione del narratore rispetto al frame: in Sappiano le

mie parole di sangue496 il testo di Shakespeare si fonde totalmente nella realtà di Mitrovica e in quella dell‘autrice, costituendo la struttura profonda del romanzo più che la sua messinscena; mentre in Sarajevo, Maybe497, la tragedia di Eschilo è ritagliata dentro lo spettacolo allestito a Sarajevo del quale il narratore è uno spettatore esterno. Inoltre il sottotesto eschileo si inserisce dentro un‘altra pièce teatrale, Godot arriva a Sarajevo di Susan Sontag che è a sua volta una riattualizzazione del testo di Beckett: entrambe le opere suggeriscono il taglio attraverso cui leggere il conflitto tra serbi e bosniaci, ma l‘autore rimane dietro ai margini della scena teatrale.

Babsi Jones sin dalle prime pagine del suo ―quasi romanzo‖ dichiara Amleto come mentore e filo-conduttore della sua esperienza a Mitrovica, ma prima ancora è il titolo a rivelare il rimando alle parole del protagonista, recitate nel IV atto della tragedia (―sappiano le mie parole di sangue o non siano più niente‖). Amleto, però, è più di un riferimento testuale poichè interiorizzato dall‘autrice nella sua esperienza di reporter: diventa quindi, sia figura della ricerca della verità, ma anche metafora, per estensione, della condizione di tutto il popolo serbo. La scelta di assimilare se stessa a un personaggio fittizio, quasi a volersi spogliare della propria identità di giornalista, assume sin da subito un tono polemico nei confronti dell‘ufficialità. Nel riportare il testo tragico dentro le fondamenta della propria scrittura, Jones assimila alcuni elementi salienti dell‘opera shakespeariana, individuabili nei punti di soggetto diviso, metadrammaticità, acentricità e follia498. Il primo punto è anche quello più determinante per lo sviluppo del romanzo, perché Amleto viene colto soprattutto nella sua universalità di ―soggetto diviso‖, in quanto figura del dubbio e della scissione. Il dilemma sulla conoscibilità del mondo, la frattura tra pensiero e azione, viene tradotto nell‘atteggiamento diffidente o apertamente polemico di

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B. Jones, Sappiano le mie parole di sangue, Rizzoli, Milano, 2007

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G. Bettin, Sarajevo, Maybe, Feltrinelli, Milano, 1994

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I parametri qui indicati sono stati ripresi dall‘introduzione all‘Amleto di Sarpieri. Cfr. W.Shakespeare,

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Jones nei confronti delle versioni ufficiali della cronaca del Kosovo: l‘idea è quella che solo nella precarietà della verità è possibile formulare senza mistificazioni la storia dei Serbi e dei Balcani

«Volevi che io ti dicessi dei miei Balcani, Direttore? Corso per corrispondenza di incoerenze, di precariato geografico, di duelli, di tafferugli e di antitetiche bandiere. Queste potranno essere le mie parole: potranno sapere di sangue e poco altro. Dentro ogni eroe c‘è un bambino che gioca a Ulisse […] nelle accademie improvvisate i sedicenti saggi sradicano una pagina del grande libro della Storia con la certezza di riscriverla migliore, e le Nazioni Unite sputano, come una palla di cannone, un‘altra risoluzione499

»

La scissione di Jones/Amleto non è solamente tra le sue posizioni filoserbe e antioccidentali da una parte e le posizioni della Nato e dell‘opinione pubblica dall‘altra, ma si svolge anche dentro la condizione ―ambigua‖ della reporter, serba per nascita ma occidentale per formazione, quindi allo stesso tempo dentro e fuori il conflitto. Amleto, è quindi, contemporaneamente, un atteggiamento intellettuale di chi si muove in un mondo privo di referenzialità certe, dubitando e mettendo tutto in discussione, ma è anche un modello formale: nel mondo scomposto e in frantumi dei Balcani bisogna assumere la forma degli ultimi, dei vinti, per avere qualcosa di vero da raccontare500. E infatti Jones trascorre l‘ultima settimana del conflitto in un condominio fatiscente insieme alla sua gente resa derelitta dalla guerra. In un certo senso Jones/Amleto si riporta al centro della scena divenendo ―vittima‖: la voce del reporter non basta più per ―narrare una storia su cui grava da decenni un‘ipoteca di indicibilità501‖, è necessario mettere in gioco il corpo, con tutta la sua materialità. È interessante dalla nostra prospettiva rilevare nella figura della protagonista una sovrapposizione di buono/cattivo: che da una parte è spia di una condizione ambientale osmotica, ma dall‘altra connota il personaggio-narratore secondo parametri che appartengono tanto al ―cattivo‖ (schizofrenia, aggressività, violenza verbale) quanto al ―buono‖, nella condizione di vittima.

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Sappiano, p.36

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Il giornalismo di guerra ha sempre visto la presenza in prima linea del reporter, dando priorità negli ultimi anni non solo al valore di testimonianza ma alla sua presenza nella comunità come individuo che condivide gli spazi e l‘esperienza di guerra (alcuni esempi sono costituiti dai reportage di Edoardo Albinati, Barbara Schiavulli, Pino Scaccia) La presenza, però, del reporter come dramatis personae è il vero elemento di originalità del ―quasi-romanzo‖ di Babsi Jones.

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La tragedia prende così spessore anche attraverso le emozioni e i malesseri di chi riporta il racconto, diventando a tutti gli effetti, quello del narratore, un Io complesso, tragico, lontano dall‘impersonalità del reporter. La narrazione prende quindi la forma di un monologo, modalità del discorso che più di tutte è espressione dell‘Io. Questo si salda alla ―forma interrogativa502‖, propria dei monologhi di Amleto, rivolgendosi ad un interlocutore muto che è il Direttore della testata presso cui lavora. Ed è qui, in particolar modo, che la narrazione prende una piega riflessiva, per provare a scoprire il senso della sua missione a Mitrovica:

«E se il vero e il falso non fossero poi così distinguibili, Direttore? Ti chiedo solo di esercitare la facoltà del dubbio: cosa intendi, esattamente, quando pronunci ad alta voce Realtà e Verità? Sto, stai, stiamo cercando la Verità Assoluta, Arca dell‘Alleanza che ogni potente brama per imporre Una Singola Storia su tutte le potenziali e imprevedibili storie, oppure sto, stai, stiamo narrando, e narrando cosa? Il mondo? E sia503»

Nell‘inseguire la tragedia Jones sceglie una prosa frammentaria, disordinata, volutamente eccentrica. Quest‘ultimo aspetto riguarda soprattutto i livelli temporali che si sovrappongono, scomponendo in schegge la linearità della storia. Quest‘ultima trova infatti un equivalente nella linearità discorsiva, del giornalismo occidentale, con i suoi nessi consequenziali e la sua visione manichea delle parti in conflitto. Se la follia in Amleto si esplicita in ―un insieme esploso di parole‖, arriva attraverso il disordine linguistico che testimonia l‘incapacità di saper dare ordine al mondo e a sé stesso in rapporto al mondo, come avviene nel secondo atto durante il dialogo tra Polonio e Amleto, così la prosa-fiume di Jones è assimilabile ad un flusso di coscienza, a tratti sconnessa e verbosa, che affastella associazioni di nomi, cose, ricordi:

«Cos‘era la mia vita, in tempo di pace? Amici ipocriti, e vigliacchi, padri cancerosi, madri emorragiche, puttanieri del weekend, fratelli rinnegati, cascamorto, traffichini, plichi bambini ombrelli treni perduti, debitori e creditori, e gli inetti, i predicatori, gli ingenui, i violenti; le case che non smettevano di mai di venir ripulite e imbrattarsi di nuovo […] Quella solitudine farcita di gesti indistinti, era già una guerra504»

502 Amleto, op.cit., p. 18. 503 Sappiano, p.89 504 Ivi, p.100.

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Con la stessa schizofrenia ogni linearità viene infranta in un‘alternanza continua di digressioni tematiche e flashback temporali. È in questo spazio che si inserisce il mito di fondazione della Serbia, con la battaglia del Kosovo contro i turchi del 1389 che motiva le rivendicazioni dei nazionalisti serbi e il mito della Grande Serbia.

Anche la testimonianza di Bettin sulla guerra nella ex-Jugoslavia, raccoglie il principio secondo il quale la materia caotica della guerra deve rispecchiarsi in una narrazione erratica, frammentaria, in cui è possibile cogliere a sprazzi l‘orrore senza che si possa giungere ad un‘appropriazione totale e definitiva dell‘esperienza e del senso della guerra. A differenza del reportage in senso stretto, le condizioni e le cause geo-politiche del conflitto non vengono sviscerate preliminarmente, ma il racconto della guerra nasce dalla riflessione digressiva sul Male, quale figura eterna e uguale a sé stessa:

«Il Male di cui sto parlando è qualcosa che ciascuno di noi si porta dentro. Si impadronisce del singolo individuo, nel privato, nella famiglia stessa, e sono proprio i bambini a farne più le spese […] i ―demoni della distruzione‖ di Matvejevic, come i cani neri di McEwan […] Oggi è questo l‘angolo d‘Europa dove sono tornati: le ―condizioni adatte‖ hanno ricreato, qui, lo spazio e il tempo per quelle bestie addestrate alla ferocia, alla caccia infame, allo stupro, allo sterminio505»

Se tale premessa amplifica la percezione di tragedia, facendo ricorso a principi universali ai quali soggiacciono le ragioni storiche e politiche, questa mostra anche come al centro della scena di Sarajevo non ci sia solo una guerra ma il male stesso. Anche nel romanzo di Bettin tra le ragioni del racconto campeggia la polemica sull‘inadeguatezza del mezzo televisivo poiché ―la guerra è un evento che va oltre tutte le tecniche di riproduzione506‖. Ma il romanzo di Bettin si presenta sin dall‘inizio più ―tradizionale‖, mantenendo, per quanto precaria, la separazione tra il suo ruolo di attore fisico, presente sul campo, e la realtà dei veri protagonisti della guerra. Sotto la guida di D. giunge a Sarajevo all‘inizio di un lungo assedio, nel 1992, partecipa al corteo per la pace capeggiato da don Tonino Bello, auspica l‘intervento dell‘ONU. La presenza dell‘amico, D., del quale non verrà mai fatto il nome, rimane sullo sfondo, ma è presente come guida silenziosa: la sua presenza tanto quanto la sua successiva scomparsa rimarranno come traccia su cui si dipana la narrazione. Al centro della scena invece c‘è l‘Europa e per tutte le pagine del reportage serpeggia l‘inquietudine sulle responsabilità dell‘Europa, spettatrice passiva davanti al massacro. È in

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Sarajevo, Maybe, pp. 41-42.

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questa riflessione che agisce l‘altro grande sottotesto del romanzo, Aspettando Godot di Beckett e la rivisitazione di Susan Sontag, Godot arriva a Sarajevo. Il tema dell‘attesa infatti assurge a emblema della condizione della popolazione in guerra che attende la fine e il miracolo dell‘intervento europeo che viene continuamente procrastinato. Bettin, rispetto al romanzo della Jones, da un‘impostazione di tipo dialogica al suo romanzo-reportage non solo riportando le riflessioni e le voci di altri protagonisti, ma anche lasciando attraversare il testo letterario da stralci di canzoni e da personaggi della cultura televisiva e musicale che riportano la febbrilità del dibattito, a livello mondiale, sul conflitto nei Balcani. Inoltre l‘autore si sposta volutamente dal centro della narrazione seguendola attraverso l‘amicizia e le vicende personali del suo compagno di viaggio e guida, misteriosamente scomparso. Della dilatazione discorsiva partecipa anche la tragedia di Eschilo che immette la cronaca in una dimensione corale, spostando il focus dalla soggettività della condizione esistenziale (Amleto) alla collettività di quella etico-politica (la città di Tebe e lo scontro tra Eteocle e Polinice). I Sette contro Tebe ha la funzione di metaforizzare la condizione degli attori, agenti o non, nel conflitto:

- Eteocle (ragioni della guerra)

- Coro (ragioni umanitarie e dei civili)

- Dei indifferenti al destino di Tebe (Europa)

Le ragioni maschili di Eteocle e quelle femminili del Coro, riportate nella realtà di Sarajevo e dell‘Europa, emblematizzano anche lo scontro ideologico tra due diverse anime che attraversano il continente: da una parte le spinte nazionalistiche e antieuropeiste, dall‘altra l‘aspirazione democratica ad un mondo senza confini dove la guerra non ha ragione di essere. È interessante vedere come i testi di Beckett e Sontag e quello di Eschilo s‘intersechino nel motivo dell‘assenza: la tragedia antica della latitanza degli dei si sovrappone a quella moderna della mancanza del senso, rivelandosi nell‘assurdità della guerra. Il testo di Eschilo riesce dunque a drammatizzare le parti in causa del conflitto e ad assegnar loro una posizione precisa che sintetizza, al di là del fragore mediale e reale, il ruolo e le relazioni tra gli attori sul mappamondo storico e geografico della contemporaneità. La tragedia dei Balcani si fonde quindi con quella della ―stirpe maledetta‖ discendente da Laio e lascia intendere anche che questa guerra non avrà vincitori, perché tutti, in diversa misura avranno rinnegato l‘appartenenza allo stesso

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territorio e a secoli di multiculturalità, in nome di una bieca volontà di potenza. Il rimando alla stirpe di Laio sembra un‘ammissione della maledizione che grava sui Balcani: un fatalismo oscuro che resiste alla modernità e riesce a sopraffare ogni istanza razionale. Ma la sconfitta delle vittime rappresenta anche il fallimento dell‘Europa e apre interrogativi sulla questione dell‘identità stessa del continente. L‘aver permesso un tale eccidio evidenzia, come suggerisce Susan Sontag, che i Balcani non vengono percepiti come parte dell‘Europa pacificata e civile sorta all‘indomani della seconda guerra mondiale, da cui nasce ―Una nuova definizione dell‘Europa: il luogo in cui le tragedie non avvengono507‖. Dentro questa nuova Europa la tragedia con il suo carico di sangue e di orrore può realizzarsi solo nella marginalità: è quindi testimonianza tanto del regime di inferiorità che grava sui popoli balcanici, quanto di una realtà culturale e politica europea disomogenea e impossibile a dirsi compatta, nata per interessi estranei all‘inviolabilità dei valori condivisi.