1.2 Norma e infrazione I gialli “imperfetti” di Leonardo Sciascia
1.2.2 Todo Modo, il totem dell’ambiguità
All‘interno di Nero su nero, la raccolta di appunti redatta da Sciascia tra il 1969 e il 1979, troviamo un frammento introdotto dal seguente incipit:
«Mi sono trovato una volta, d‘estate, in un albergo di montagna dove ogni anno si riuniscono, per gli esercizi spirituali, gli ex allievi di un convitto religioso; uno di quei convitti che fanno ―classe‖ […] avevo insomma sotto gli occhi, adunati all‘insegna dello spirito, con apparente allegria
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G Benvenuti, Microfisica della memoria. Leonardo Sciascia e le forme del racconto, Bononia University Press, Bologna 2013, p.57.
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L. Sciascia, Il contesto. Una parodia, Adelphi, Milano 1994, p. 42.
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costituitisi (verbo perfettamente in taglio) alla meditazione e alla preghiera, non pochi esponenti di una classe di potere94»
Non è difficile rintracciare in questa suggestione, che attinge a un ricordo privato dell‘autore, la genesi di Todo Modo95. E infatti l‘immagine sarà riportata quasi
integralmente in una delle sequenze iniziali del romanzo, quella in cui il narratore assiste all‘arrivo dei ministri nello spiazzo antistante l‘eremo di Zafer. L‘appunto di Sciascia è importante per comprendere quale sia il nucleo da cui trae origine l‘ispirazione romanzesca e, di conseguenza, il centro attorno al quale si addensa il filo della narrazione: la connivenza, nello stesso esercizio, di potere laico e religioso96, che per l‘autore ha quasi l‘impatto di una scena primaria, per la speculazione cui si presterà nell‘elaborazione del romanzo. Non a caso Todo Modo, più di ogni altra sua opera, da forma concreta a quella che è la visione del Potere per Sciascia: selva intricata di simboli, labirinto borgesiano nel quale l‘intelletto dell‘uomo razionale si perde e si arrotola. E infatti il titolo, che riprende un‘espressione tratta dagli esercizi spirituali di Ignazio da Loyola97
, suona sarcastico in relazione allo spazio di Zafer, in cui la possibilità della ricerca del divino si traduce nella possibilità di intessere trame, accordi, affari. L‘ambientazione della storia in un luogo religioso, sottolinea la connotazione misterica del potere, quasi che la sua essenza sia dotata di una natura inaccessibile e riservata a pochi eletti. Il rapporto che c‘è tra l‘albergo e l‘eremo originario che ha sostituito è lo stesso che esiste tra il Potere e le rappresentanze delle istituzioni (ministri, magistrati, funzionari della Chiesa, ecc.): il primo termine ―ingloba‖ il secondo, a lasciar intendere la pervasività malvagia del Potere che assimila tutto, corrompendo, attraverso le sue ragnatele98. Le istanze oppositive, quali ad esempio la giustizia, vengono quindi messe fuori gioco; quello che si perde è il senso della specificità a favore di un‘ambiguità strutturale che riguarda tanto la dimensione della parola quanto quella del delitto. Di conseguenza è la categoria stessa della realtà a finire nel limbo di una nebbia persistente che annienta ogni facoltà conoscitiva ed interpretativa. L‘ambiguità della parola è infatti la chiave di accesso al mistero, ma anche il fumo che smargina i
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L. Sciascia, Nero su nero, Adelphi, Milano, 1991, pp. 63-64.
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Tale impressione è confermata anche dall‘autore che farà riferimento allo stesso episodio, arricchito di dettagli, mettendolo in correlazione con la stesura di Todo Modo, nell‘intervista rilasciata a Marcelle Padovani, La sicilia come metafora, p.67 Vd. L. Sciascia, Todo modo, Adelphi, Milano 2003.
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Mentre in Todo modo il connubio criminale tra sfera temporale e spirituale è soltanto alluso, ma non giunge allo scoperto, nell‘ultimo romanzo, Una storia semplice (1989) quest‘aspetto verrà reso esplicito ed effettivo nella trama.
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―Todo modo para buscar la voluntad divina‖.
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contorni delle cose e della comprensione. Un esempio emblematico è dato dalla dichiarazione di un testimone potenzialmente utile alla risoluzione del primo omicidio. Il testimone, successivamente ucciso a sua volta, secondo il procuratore potrebbe aver utilizzato un messaggio in codice per ricattare l‘omicida:
«Molto probabilmente lui non ha visto niente: si è inventata quell‘impressione, ha finto di avere un vago ricordo, in base a un calcolo che avrà immediatamente fatto, di fronte alla ricostruzione che noi stavamo facendo […] ha calcolato che dicendo di avere avuto quell‘impressione, di qualcuno che si fosse insinuato tra lui e Michelozzi, quel qualcuno, conoscendolo, avrebbe fatto di tutto per fermare la sua memoria99»
Il dubbio del procuratore mette in evidenza un tratto peculiare della costruzione del giallo di Sciascia: lo schema abduttivo, con l‘accumulo di ipotesi, viene continuamente smontato per l‘assenza di riferimenti certi, non confutabili, che costituiscano la base per formulare successive deduzioni. Mentre il giallo classico100 procede alla progressiva scrematura delle ipotesi attraverso la somma dei dettagli e la ricomposizione logica del quadro delittuoso, in
Todo Modo avviene esattamente il contrario: i dubbi, legittimi, moltiplicano le ipotesi che
a loro volta moltiplicano i dubbi. Anziché ricomporsi in un‘immagine unitaria, la realtà si parcellizza in una serie di possibilità tendenti all‘infinito ed è questa matrice viziata dall‘ambiguità, soggiacente alle storie, che decreta il fallimento della detection sciasciana. La stessa investigazione è anomala, in Todo modo, poiché la ricerca inizia prima del delitto, dall‘inquietudine del pittore che inizia il suo vagabondaggio per il desiderio di ―un atto di libertà‖ e che, grottescamente, lo condurrà al labirinto dell‘eremo di Zafer. Nel romanzo un‘ironia maligna pervade la casualità, ma anche le scelte dei personaggi, per cui è facile scivolare da una cosa al suo opposto: da questa inversione prende avvio l‘avventura del protagonista, ―uomo libero‖ che inciamperà nella bolgia del Potere. L‘eremo di Zafer funziona quindi come un totem delle ambiguità, per la fusione grottesca di laico e religioso, ma anche per l‘apparente sincretismo cui si presta la lettura dello stesso nome («E in quanto a Zafer, santone musulmano o cristiano?101»). Un‘immagine tra le più
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Ivi, p.84.
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Tuttavia, fermandosi all‘osservazione dello schema formale, il romanzo sembra simile al classico giallo d‘analisi per diversi elementi: lo svolgimento dell‘azione in un unico luogo che funge da testo entro cui muoversi per la comprensione dei delitti, la presenza di un numero limitato di sospetti, due testimoni. Non è da escludere che il richiamo allo spazio dell‘interiéur sottenda un intento ironico e parodistico.
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rappresentative è quella della processione dei ministri durante gli esercizi spirituali, nei quali la lingua delle orazioni diventa forza fattiva che traghetta oltre la parola:
«non più metafore ma eventi che stavano realizzandosi, che si realizzavano, in quel posto al confine del mondo, al confine dell‘inferno, che era l‘hotel di Zafer. E in quel momento anche chi, come me e come il cuoco, li vedeva nell‘abietta mistificazione e nel grottesco, scopriva che c‘era qualcosa di vero, vera paura, vera pena, in quel loro andare nel buio dicendo preghiere: qualcosa che veramente attingeva all‘esercizio spirituale: quasi che fossero e si sentissero disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto di una metamorfosi102
».
A rinforzare la catena di significanti che si regge attorno al concetto di ambiguità, interviene l‘espressione di ―confine‖. Approfondendo il nesso tra i due termini, è possibile vedere nel confine la concretizzazione spaziale e simbolica dell‘ambiguità. Entrambi somigliano, anzi sono l‘inferno, proprio perché rappresentano stadi non valicabili: l‘ambiguità poichè non permette l‘uscita logica- non risolve, infatti, i paradossi ma li radicalizza- così come fa perdere di distinzione il vero dal falso; e il confine perché gode di questa liminarità contribuendo alla confusione, aumentando la vertigine. Questo statuto spaziale, proprio per la mancanza di nitore ontologico, oltre che fisico, è un luogo naturalmente adatto alla metamorfosi. Il confine funziona quindi anche come confusione- termini peraltro molto affini etimologicamente e che rimandano alla sovrapposizione- che nel caso specifico riguarda anche le categorie di fisico e metafisico103. L‘aspetto più grottesco e straniante del mondo che si crea intorno a Don Gaetano e al suo eremo deriva dal riportare gli oggetti in un ordine di cose differente rispetto a quello originario, per cui il metafisico viene privato della sua distanza sacrale ma incorporato nella vita del potere: l‘aura di impenetrabilità è l‘unica cosa che sopravvive al mistero della religione. Sarebbe plausibile ipotizzare che l‘ironia di Sciascia agisca proprio tramite questa sovrapposizione: il Potere assume gli stessi attributi di immobilità ed eternità della res cristiana. Mentre, infatti, rimangono intatti gli altari della religione e il sistema dottrinale che ne è emanazione, cambia il volto della divinità trasfigurato nell‘ingranaggio statale. Un esempio è dato dal modo in cui viene ricondotto il discorso dottrinale, assimilando il diavolo a «un
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Ivi, 46.
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Anche in questo caso per l‘interpretazione viene in sostegno quanto dice lo stesso Sciascia in Nero su
Nero: «che cosa resta del Cristianesimo senza il pensiero della morte, della fine del mondo? Soltanto
un‘ideologia del pauperismo abbastanza confusa, abbastanza contraddittoria. Tanto confusa, tanto contraddittoria, che coloro che la professano dimenticando la morte e la fine del mondo, ansiosamente tendono a fonderla in altra più precisa, più conseguente, più scientifica ―ideologia‖», p. 66.
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fatto puramente burocratico, di una circolare ministeriale104». Ma soprattutto Don Gaetano lascia intendere che la forma della Chiesa è la stessa del Potere, per cui è inevitabile la coincidenza di intenti tra i due:
«Una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà. Quelle che in ogni altra cosa mondana non sarebbero che apparenze, a nascondere o a mistificare, nella Chiesa e in coloro che le rappresentano sono le interpretazioni o le manifestazioni visibili dell‘invisibile. E cioè tutto…105
».
Inoltre l‘intero svolgimento della narrazione, sin dall‘incipit, è segnato da una suggestione, quasi religiosa, e che ruota attorno al numero tre: tre sono i giorni di vagabondaggio del protagonista prima di approdare all‘eremo, tre gli alberghi costruiti da Don Gaetano; infine, dopo l‘ultimo delitto, il commento del procuratore che suggella anche la fine delle indagini è ―omnia bona trina106‖ e che rovescia sarcasticamente il senso dell‘immagine trinitaria. Ma l‘espressione è anche una parodia del linguaggio mistico e astratto di Don Gaetano, quasi a intendere che sia rimasto vittima proprio della ragnatela intessuta con le sue mani.
Rispetto al giallo classico la complessità degli strumenti intellettuali messi in campo, principalmente le intelligenze del pittore e di Don Gaetano, non aiuta a risalire alla catena indiziaria ma sembra disperdersi nel discorso attorno alla natura dell‘eremo, nel tentativo del protagonista di dare un nome all‘intuizione di quella realtà criptica e perturbante. Sembra infatti che le energie dei vari investigatori (il pittore, il procuratore, il commissario), finisca per ridursi in un braccio di ferro con Don Gaetano: polo oscuro e indecifrabile, erudito maligno e oracolare. La dispersione centrifuga dell‘investigazione, volge dunque sull‘ermeneutica del dettaglio che ha come fine il dettaglio stesso, non quindi come elemento incanalato in funzione logica del delitto e pertanto finalizzato allo svelamento degli omicidi. Un esempio è dato dallo spazio narrativo dedicato agli occhiali di Don Gaetano: identici a quelli del diavolo, rappresentato nel dipinto che ritrae il santo Zafer in compagnia del diavolo che gli fornisce gli occhiali per poter leggere.
104 To mo, p.34. 105 Ivi, p.35. 106 Ivi, p.120.
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L‘inquietudine del protagonista107
alla vista delle lenti deriva dal parallelismo inconscio tra il diavolo e Don Gaetano: quest‘ultimo infatti riesce a trasfigurare la spiritualità nel torbido della politica, al pari della seconda lettura che il diavolo offre con i suoi occhiali a Zafer108. La figura di Don Gaetano diventa quindi presenza demoniaca, perché condivide con il diavolo la fine intelligenza, la dialettica, l‘imponenza. È interessante notare però come la proiezione di qualità diaboliche in questa figura letteraria venga costruita sulla variazione del tema romantico dell‘‖angelo caduto‖ e come tale manipolazione si misuri proprio sulla riconfigurazione del dettaglio degli occhi. Riprendendo l‘analisi di Praz109, sull‘introiezione di caratteristiche demoniache nell‘eroe maledetto e su come questo abbia sempre ―occhi indimenticabili‖, sarà utile a titolo di esempio il confronto tra questo stralcio del romanzo di Ann Radcliffe, Italian, or The Confessional of the Black Penitents (1797) in cui viene descritto il monaco Schedoni:
«Portava le tracce di molte passioni, che sembravano aver fissato quei lineamenti che ora aveva cessato d‘animare. Mestizia e severità abituali predominavano nelle profonde linee del suo volto, e i suoi occhi erano così intensi, che, con un solo sguardo parevano penetrare nel cuore degli uomini, e leggervi i segreti pensieri; pochi potevano tollerare la loro indagine, o perfino sopportare di incontrarli una seconda volta110»
e l‘inespressività degli occhi di Don Gaetano:
«Levò gli occhi dalle carte, dicendo -Avanti-. Gli occhi e gli occhiali: chè levando dritto lo sguardo, gli occhiali appinzati a metà del naso, con lo sguardo non stavano più in linea ma sembravano assumerne altro meno freddo e impassibile. Curioso effetto, e veniva dalle rifrazioni della luce colorata che gli stava accanto: una lampada dalla coppa in pasta di vetro, di quelle che al principio del secolo venivano da Nancy e da Vienna e che oggi ovunque si rifabbricano, ovviamente più brutte. Pagliettata di verde, di giallo e di blu, e predominando il viola, la luce si rifrangeva nelle lenti mobilmente, come animandole, mentre spenti restavano gli occhi di Don Gaetano111».
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È evidente come uno dei possibili rimandi letterari riguardo al dettaglio feticistico degli occhiali e l‘effetto perturbante che ne deriva sia da rintracciare nel racconto L‟uomo della sabbia di E.T.A.Hoffmann. Vd,
L‟uomo della sabbia e altri racconti, Milano, Fabbri, 1997.
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P.29
109
Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo, Sansoni Editore, Firenze, 1988.
110
Ivi, p. 62.
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Alla vacuità degli occhi del prete corrisponde anche l‘impressione sugli occhi di chi guarda, perché la figura si imprime sulla retina, (―una silhouette tutta in nero, un solo punto bianco al centro, si guardava fissamente quel punto bianco contando fino a sessanta; poi si chiudevano gli occhi o si guardava al cielo: e si continuava a vedere la silhouette, ma bianca, ma diafana112‖) che persiste con il suo alone anche quando non è più presente, conferendogli una sinistra ubiquità (―la sua immagine persisteva come negli occhi chiusi o nel vuoto; sicchè non si riusciva a cogliere il momento preciso, reale, in cui si allontanava113‖). Don Gaetano non conserva nulla della potenza titanica che traspare chiaramente nel personaggio di Radcliffe, pur preservando per sè il mistero e l‘inaccessibilità allo sguardo dell‘uomo comune. L‘essenza demonica in Sciascia non ha nulla dell‘endiadi romantica del bello e terribile, mostrando di liquidare tutta l‘estetizzazione del demoniaco della cultura romantica. E infatti il male non trova corrispondenza nella colpa e nel conseguente tormento interiore che disegna ―profonde linee‖ sul viso, ma tutto viene trasposto sul piano mentale, della fredda intelligenza e del cinismo calcolatore. Il soffermarsi sui particolari degli occhi e degli occhiali impronta una netta connotazione metaforica e metainvestigativa all‘indagine, perché l‘autore mette in primo piano il discorso sugli inganni e gli enigmi del Potere, di cui Don Gaetano è il più emblematico rappresentante.
La tensione, quindi, invece di volgere al disvelamento dei delitti prende altre direzioni: non viene detto nulla di significativo riguardo alle vittime e alle loro attività, o rispetto ad altri dettagli della detection classica come l‘arma del delitto, la ricostruzione balistica, l‘interrogatorio dei sospetti. Anche laddove sopravvive l‘impalcatura poliziesca, questa assume un valore residuale e volutamente ironico, come nella descrizione della scena in cui è avvenuto il secondo delitto: «[…] c‘erano poliziotti nello spiazzale, automobili grigioverdi della polizia; e dove l‘onorevole Michelozzi era caduto, c‘era una sinistra sagoma disegnata col gesso e una macchia di un rosso terroso, nella posizione e forma dei polmoni, dentro la sagoma114». La ricostruzione, ripresa sommariamente dall‘alto del punto di osservazione del narratore-protagonista, non aggiunge particolari utili né segna l‘avvio di una ricerca scientifica di cui è possibile seguire le tappe. Ma anche l‘investigazione viene smembrata tra più attori che non collaborano tra di loro ma appaiono
112 Ivi p. 102. 113 Ibidem 114 To mo p. 64.
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reciprocamente diffidenti115, proseguendo ciascuno per la sua strada. Probabilmente il vero detective, seppur conduca l‘indagine in maniera personale e ufficiosa, è il pittore116: questi rispetto al commissario e al procuratore ha intuito che tutto l‘eremo di Zafer va letto come un testo cifrato e che la chiave per accedere alla sua comprensione è Don Gaetano. E infatti il narratore crede che la soluzione del giallo sia sotto gli occhi di tutti ma ben mimetizzata, come ne La lettera rubata di Poe. Il canovaccio dei delitti viene dunque suggerito da un romanzo, così come il viaggio si apre con una riflessione letteraria e filosofica, sul «diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad un‘infinita possibilità musicale117» del mondo descritto da Pirandello come equivalente della «catena di causalità118» che regola il mondo di Kant: questo accostamento sembra suggerire il passaggio da un universo dominato dalla legge razionale a quello emblematizzato nella figura di Pirandello, in cui la causalità viene sostituita dall‘aleatorietà e dalla frammentazione. L‘intuizione sugli omicidi, però, avviene nel pittore poco prima di addormentarsi, in uno stato di torpore, a sottolineare che tutto il procedere delle ricerche corrisponda ad un graduale indebolimento della lucidità, a un venir meno delle forze intellettuali. Anche questa volta la congettura rimane sospesa, senza verifica, ma soprattutto il narratore mette a fuoco il meccanismo senza accedere al contenuto specifico (il nome dell‘assassino non verrà mai pronunciato, né verrà mai verificato). Questa supposizione è avallata dallo stato di torpore che sopraggiunge in diversi momenti, potenzialmente decisivi e rivelatori per i personaggi e per gli omicidi. Così, ad esempio, in diversi momenti si incontrano i personaggi in uno stato di torpore, proprio quando più occorrerebbe la loro lucidità. È emblematico, in tal senso, che una delle guardie poste a vigilare le camere dei ministri non ricordi di aver visto l‘assassino del secondo omicidio percorrere il corridoio, proprio perché annebbiato dalla sonnolenza indotta dal vino. La morte di Don Gaetano con cui si conclude il trittico dei delitti infittisce il mistero e moltiplica i sospetti: ancora una vittima innocente o l‘ennesimo tentativo di depistaggio del diavolo? Questa volta è il pittore che offre la chiave di lettura, sia lasciando la pistola
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La compresenza di più attori nello svolgimento dell‘investigazione contraddice anche la nona regola del già citato S.S. Van Dine: «Ci deve essere nel romanzo un solo poliziotto, un solo ―deduttore‖, un solo deus ex
machina. Mettere in scena tre, quattro, o addirittura una banda di segugi per risolvere il problema significa
non soltanto disperdere l‘interesse, spezzare il filo della logica, ma anche attribuirsi un antipatico vantaggio sul lettore. Se c‘è più di un poliziotto il lettore non sa più con chi stia gareggiando: sarebbe come farlo partecipare da solo a una corsa contro una staffetta». Cfr. Le venti regole del giallo.
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È possibile che questa figura richiami ironicamente al private eye del romanzo giallo e noir.
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To mo, P. 3.
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vicino al corpo di Don Gaetano, con un chiaro ―eccesso di evidenza‖, sia denunciando se stesso come responsabile dell‘ultimo delitto119, come emerge dal dialogo con Scalambri:
E tu- a me- tu dici di essere andato…Dov‘è che te ne sei andato? -A uccidere don Gaetano- dissi
-Lo vedi dove si arriva quando si lascia la strada del buon senso?- disse trionfalmente Scalambri.-Si arriva che tu, io , il commissario diventiamo sospettabili quanto costoro, e anche più e senza che ci si possa attribuire una ragione, un movente…[…]120
Il parossismo dell‘eremo di Zafer si conclude, dunque, con una rifrazione infinita delle possibili verità che nullifica anche la stessa ammissione di colpa. È interessante che la narrazione si concluda con il riferimento intertestuale ai Misteri del Vaticano di Andrè Gide, cioè spostando il lettore fuori dalla trappola del ―contesto‖. Questo tipo di finale ―a sorpresa‖ sembra indicare che la verità può essere compresa solo dall‘esterno, fuori da quel