di VIRGILIOMELCHIORRE
Il Diario del seduttore non è che un frammento letterario entro la distesa scrittura filosofica e religiosa di Kierkegaard. Potremmo dirne come d’un racconto di vita: uno spazio sperimentale in cui le tesi esistenziali di Kierke gaard diventano narrazione, verifica sul campo stesso della vita possibile o della scrittura propriamente estetica.
L’uomo come sintesi
Prima di percorrere le pagine del Diario, sarà bene delineare il contesto spe-culativo in cui l’estetica di Kierkegaard e la narratività che ne discende vengono a inscriversi. Siamo sul primo sentiero della geografia esistenziale, quella che si scan-disce appunto nella distinzione e nel nesso dei tre percorsi di vita: l’estetico, l’etico, il religioso. Percorsi che, nei propri modi, costituiscono la struttura essenziale del-l’u ma no inteso come spirito, ovvero come tensione incessante, come rapporto fra fi-nito e infifi-nito. Si ricordi in tal senso quel che Kierkegaard scrive all’inizio di uno dei suoi scritti più importanti, La malattia per la morte, dove l’uomo viene definito come spirito e lo spirito come rapporto, come “sintesi di infinito e finito, di tempo-rale ed eterno, di libertà e necessità”. La sintesi va poi intesa nella reciprocità di due versanti, il secondo dei quali, l’infinito, è ultimamente determinante. Così, l’uomo è “rapporto che si rapporta a se stesso, e nel rapportarsi a se stesso si rapporta a un Altro”1. Dunque, lo spirito come relazione, come tensione intrinseca a una trascen-denza che lo costituisce e lo richiama a sé. Ma, come ogni tensione, come ogni rela-zione, anche lo spirito è sempre esposto a una duplice possibilità: quella di operare la sintesi assumendo il finito dalla parte dell’infinito o, all’opposto, assumendo l’in-fi ni to dalla parte del l’in-finito. Nel primo senso si sta sulla via della trascendenza, del-l’affida men to alla potenza dell’infi ni to; nel secondo senso si cede alla pretesa di rac-cogliere l’infinito nei modi esclusivi del finito. Lo spirito, dunque, sempre al bivio
* Questo saggio è stato elaborato, in prima stesura, su invito del Festival di filosofia 2013 di Modena.
1 Sygdommen til Døden, (in seguito SD) in S. Kierkegaards Skrifter (in seguito SKS), a
cu-ra di N.J. Cappelørn, J. Garff, J. Knudsen, J. Kondrup, A. McKinnon, F. Hauberg Mortensen , Kø-benahvn 1997 ss., XI, p. 129; tr. it. di E. Rocca, La malattia per la morte, Donzelli, Roma 1999, p.15.
fra trascendenza e immanenza, fra affidamento e appropriazione, fra inveramento e contraddizione.
Anche i percorsi estetici vivono sul filo di questa tensione, sul filo di questa dualità o della scelta fra sintesi opposte. Ma procediamo per gradi cercando dapprima i modi propri della vita estetica.
La dimensione del possibile
La vita estetica viene scandita da Kierkegaard in piena fedeltà alla visione del-la Poetica aristotelica, dove – com’è noto – l’arte viene intesa come espres sione del possibile. Kierkegaard assume pienamente questa pro spettiva, ma ad un tempo la usa come presupposto per delineare quella contraddizione esistenziale che nel vissuto estetico pretende di risolvere l’intero della vita: le figure del possibile vissute come esistenze reali, non come immagini o come proiezioni di ciò che può essere ma ap-punto come dati di realtà, nell’apparenza di una decisione. L’apparenza sta nella vo-lizione che si consegna in campi per lo più istantanei, sempre disimpegnati da una qualche continuità nella rete del tempo, sempre distratti dal nesso con un proprio passato e da una promessa fedeltà nel futuro.
Si pensi, in tal senso e in prima battuta, alla figura del don Giovanni mozar-tiano, ripreso da Kierkegaard in un celebre saggio, Gli stati erotici immediati,
ovve-ro il musicale eovve-rotico. Come si ricorderà, la lista delle vicende amoovve-rose, scandite
nel-la voce del servo Leporello, è ben lunga nelnel-la storia di don Giovanni. Innumerevo-li, sullo sfondo, stanno le storie di amori consumati nella fugacità degli istanti, su-bito dimessi. Ma giunge poi il tempo che dischiude la contraddizione. Una voce so-vraterrena, quella di un padre offeso e ucciso in duello, ritorna infine per reclama-re il diritto della figlia amata e tradita dall’amante: richiamo alla conversione ovve-ro alla fedeltà dell’a more. Ma, appunto, di questa ‘ripresa’ don Giovanni non sa che farsene e per questo la sua ostinazione non potrà concludersi se non con il nulla in cui si concludono le sequenze dei suoi amori: un nulla che infine deve tradursi nel-la perdizione di un nulnel-la infernale, con l’inesorabile affondo nelnel-la nientità delnel-la propria contraddizione. Alla suadente seduzione della musicalità, all’immediatezza della commedia erotica, si contrappongono infine le brevi pesanti sequenze delle ul-time note mozartiane, quelle stesse che erano risuonate come un avverul-timento all’i-nizio dell’opera: segno di una vicenda drammatica che sprofonda in se stessa, riso-nante contrappunto di un inevitabile nulla.
Come vedremo, non dissimile, di là dalle apparenze meno violente, sarà la con-clusione del nostro seduttore. La sua fuga dall’ama ta ci tornerà come icona di una contraddizione senza fine: vicenda che ripete, su un altro registro, quella del Don
Gio-vanni. Non a caso, l’opera porta in esergo una citazione dall’o pe ra mozartiana e lo
stesso nome del protagonista, Johannes, ripete il nome dell’altro protagonista. La dif-ferenza fra le due opere va cercata piuttosto sul versante delle diverse scritture. Il rac-conto del seduttore è affidato alla parola e perciò appartiene essenzialmente alla me-diazione della riflessione, dello spirito riflettente. Il racconto mozartiano è invece af-fidato alla musica e perciò vive, secondo Kierkegaard, nell’immedia tez za del senso o, meglio, dello spirito inteso nei modi della sensualità. Nei due campi, come in
al-tri scritti – ricorderei in particolare In Vino veritas –, quello che emerge è sempre una divaricazione o una falsa coniugazione del finito con l’infinito, le due componenti essenziali – come s’è detto –, costitutive dell’u ma no. In campi diversi ritorna pur sem-pre la sem-pretesa impossibile di catturare definitivamente l’infinito nel finito. Siamo ap-punto a quell’amore che sorge dalle profondità dello spirito e che deve pur sempre tradursi nei modi di una vita incarnata, ma che ora finisce per confinarsi nella sola passeggera immanenza delle forme finite.
Seguiamone dapprima il racconto. La storia procede a passi lenti, dall’incontro casuale di Johannes con Cordelia, una giovane figura della borghesia danese. Il suo portamento, la sua grazia discreta, tutt’altro che provocante, colpiscono lo sguardo attento di Johannes. E non a caso. Johannes, il seduttore, vive infatti in una sua di-mensione poetica. Per questo la sua non sarà una seduzione nel senso spregevole del-la parodel-la: è “troppo spiritualmente determinato per essere un seduttore nel senso co-mune della parola”2. La sua è una passione nostalgica, come distesa nel richiamo not-turno della luna3. Ad avvincerlo è poi il rinvio simbolico di quel volto: “non è una singola bellezza, ma una totalità”. È come se in quella singola bellezza prendessero forma tutti i modi possibili della femminilità: “un sogno in cui tutti quegli esseri fem-minili prendono forma l’un con l’altro, e tutti quei movimenti cercano qualcosa, cer-cano stabilità in un’unica immagine”4. Si direbbe che l’eros mozartiano raggiunge qui una concentrazione più esplicita, più scopertamente romantica5. Infatti, Johannes potrà persino scrivere: “L’amore è tutto, e per questa ragione, per chi ama, tutto ha cessato di avere un significato in sé e per sé, e ha significato soltanto grazie all’inter -pretazione che ne dà l’amore”6. Di quest’amo re Johannes può persino dirne come di “un ardore panteistico”, sicché al “pari degli occhi, che vedono al di là di se stes-si, così questo sguardo vede al di là di ciò che immediatamente gli appare, vede l’i-neffabile”7. Ma uno sguardo del genere – aggiunge Johannes – si dà solo nello
spi-rito, non nel possesso8.
Anche per questo l’approccio di Johannes è quanto mai cauto, sempre con-trollato, con un attento rinvio della tensione sensibile. Procede così a piccoli passi, con astuzia e cautela. Inizia, in apparenza, come per caso: con un incontro che sem-bra fortuito, durante il passeggio di Cordelia del quale Johannes, dopo il primo
in-2 Forførerens Dagbod (in seguito FD), in Enten-Eller 1 (in seguito EE1), SKS II, p. 296; trad. it. di A. Cortese, Il diario del seduttore, in Enten-Eller (in seguito EE), III, Adelphi, Torino 1978, p. 47.
3 FD, EE1, SKS II, p. 315; trad. cit., EE III, pp. 71-72.
4 FD, EE1, SKS II, p. 320; trad. cit., EE III, pp. 78-79..
5 “A queste condizioni si può perfino essere innamorati di molte in una volta sola, poi-ché in ogni singolo caso si è innamorati diversamente. Amarne una sola è troppo poco, amarle tut-te è superficialità… Conoscere se stut-tessi e amarne il più possibile, fare che la propria anima celi in sé tutte le potenze dell’amore cosicché ognuna trovi il proprio determinato alimento, mentre pe-rò la coscienza abbraccia l’insieme, …questo è godimento, questo è vivere!” (FD, EE1, SKS II, p. 350 ; trad. cit., EE III, p. 117).
6 FD, EE1, SKS II, p. 394; trad. cit., EE III, pp. 174
7 FD, EE1, SKS II, p. 387; trad. cit., EE III, p. 166.
contro, era stato ben attento sul tempo e sui percorsi. L’occasione era poi stata of-ferta da un piccolo incidente: il servo della fanciulla era caduto e Johannes, come un passante per caso, s’era mosso con sollecita premura al soccorso del servo, guada-gnandosi così una cortese gratitudine da parte della giovane Cordelia. Seguono poi incontri, tutti all’apparenza casuali, tutti in verità cercati per studiarla attentamen-te. Viene infine la buona occasione: Johannes si accompagna all’amico Edvard, in-namorato di Cordelia, e fingendo di aiutarlo s’introduce con lui nella casa della fan-ciulla. La frequenta con discrezione, lasciando all’amico lo spazio migliore: per suo conto si dedica, in disparte, a conversare con la zia di Cordelia, guadagnadosi così la stima e la protezione della donna. Fa circolare la voce di un suo fidanzamento, sic-ché la sua ospitalità in casa della fanciulla può ben stare al riparo da ogni sospetto. Intanto consiglia all’amico titoli di libri da regalare a Cordelia. Sono libri che l’ami-co non l’ami-conosce, sicché quando Cordelia vorrà parlarne Edvard si troverà a disagio uscendo via via dalla considerazione della fanciulla: gli incontri diventeranno sem -pre più noiosi e sgradevoli, il terreno dell’ami co andrà perduto e con discrezione po-trà essere guadagnato dalla eleganza e dalla cultura di Johannes. Cordelia se ne in-namorerà. Ci sarà poi, col consenso della zia, anche il fidanzamento, un’invenzione umana, ridicola, ben lontana dall’etica, che per il momento Johannes accetta tatti-camente. Si tratta, ora, di disporre il tempo necessario per alimentare un amore pie-no: una nascita reciproca, un amore che, però, dovrà compiersi nella dimensione pu-ramente ‘estetica’. Per ora si tratta di non urtare l’etica, anche se alla fine il godimento estetico implicherà l’abbandono di un impegno etico. A che serve il fidanzamento? No, egli vuole possederla, di là da ogni vincolo e nella sua libertà, rispetto alla qua-le il fidanzamento è solo una cornice esteriore, un’occasione.
Intanto Johannes comincerà a scriverle per trarla nell’ingan no dell’amore: con-fesserà di sentirsi interiormente mutato dal suo affetto, un affetto del quale non è lui il precettore perché ora ne è soltanto il discepolo. “Mentre la guardo – scrive Johannes – nel mio intimo mi faccio allo stesso tempo religiosamente solenne e tuttavia pie-no di desiderio”9. Questa conversione di sentimenti assumerà via via il tono di una risonanza trascendentale. “Amare te – scrive ancora Johannes – non è amare un mon-do?”10. Non è amare di là da ogni tempo? “Ciò che è stato visto ieri lo scaglio mi-gliaia d’anni all’indietro, e lo ricordo come se fosse stato vissuto ieri. […] Dunque, ora e per tutta l’eternità parlerò di te con me”11. E ancora, con una confessione che sta fra il massimo della verità e il culmine dell’infingimento – non è facile decidere – Johannes può anche dire:
Sono innamorato di me stesso, e perché? In quanto sono innamorato di te, perché io ti amo. Te sola e tutto ciò che t’appartiene veramente, e così, in tal modo, io amo me stesso, poi-ché questo mio io t’appar tiene a tal punto che qualora cessassi d’amare te cesserei d’ama-re me stesso. Dunque quello che ai profani occhi del mondo è espd’ama-ressione del più grande egoismo, al tuo sguardo di iniziata è espressione della più pura simpatia, quello che ai
pro-9 FD, EE1, SKS II, p.384; trad. cit., EE III, p. 161.
10 FD, EE1, SKS II, p.387; trad. cit., EE III, p. 165.
fani occhi del mondo è espressione della più prosaica autoconservazione, alla mia vista con-sacrata è espressione del più entusiasmato annichilimento di se stessi. […] Non posseggo nulla perché soltanto appartengo a te, non sono, ho cessato di essere, per essere tuo12.
Intanto, Johannes si alimenta con la lettura del Fedro platonico, una lettura che lo elettrizza e della quale può dirne come d’un “magnifico preludio”13. Ma, in-sieme, la strategia dell’intelletto non viene mai meno: si finge distaccato, non ha oc-chi per lei, nasconde o riduce lo slancio erotico, sollecitando così la buona Corde-lia a una rincorsa, sino a premerlo con una crescente carica erotica, di là dai confi-ni dell’ordinario. Ed è questo per lui l’essenziale: si possono ormai oltrepassare i con-fini del fidanzamento e delle convenzioni. Cornelia ora si rammarica del fidanzamento e confessa che il loro incontro non ha bisogno di questa esteriorità. Lui l’ammira e finalmente può ben dire che “la nostra unione esteriore è per se stessa soltanto una separazione”14.
“È veramente magnifico che Cordelia si scandalizzi di un fidanzamento”15. Adesso si tratterà di dirigerla nel modo che perda di vista lo stesso matrimonio, che è, certo, un’istituzione degna di rispetto, sebbene comporti la noiosità di godere nel-la giovinezza di quel rispetto che spetta alnel-la vecchiaia.
“Adesso si tratterà di dirigerla in modo che nel suo volo ardito perda di vista il matrimonio e, sia quel che sia […] annulli una forma imperfetta umana per slan-ciarsi verso qualcosa che di fatto è più alto del comune umano”16. Ciò che conta è raccogliere nell’uno le parti dell’inte ro. Di nuovo Johannes spinge il suo ardimento verso un orizzonte metafisico: non contano le leggi del tempo, conta un respiro dis-teso di là da ogni condizione finita, mortale.
Una volta maturata anche quest’ultima condizione di libertà Johannes può pre-disporre il luogo della passione assoluta. Cordelia ne parlerà alla zia come d’una gi-ta in campagna per far visigi-ta a un’amica. Nel suo intimo si prepara ingi-tanto a perde-re la perde-reputazione delle persone dabbene: la sua anima pura non si chiuderà nella pri-gione del finito, nel compromesso più proprio della borghesia. E Johannes potrà in-fine scriverle:
… A che dovrei paragonare la tua anima pura, profonda, priva di qualsiasi rapporto con il mondo, se non a una fonte? E non ti ho detto d’essere io come un fiume che si è inna-morato? E, ora che siamo separati, non mi getterò sotto il mare per congiungermi a te? Sot-to il mare Sot-torneremo ad incontrarci, perché unicamente in codesta profondità formiamo veramente un unico corpo17.
Johannes può ora disporre l’ambiente, anche il paesaggio, di là dalla stanza d’amore, dev’essere pron to, come un rinvio sull’infinito: ogni cosa deve ripetere
l’in-12 FD, EE1, SKS II, pp. 392, 393-394; trad cit., EE III, pp. 171, 173.
13 FD, EE1, SKS II, p. 405; trad. cit., EE III, 189.
14 FD, EE1, SKS II, p. 413; trad. cit., EE III, p. 199.
15 FD, EE1, SKS II, p. 415; trad. cit., EE III, p. 201.
16 FD, EE1, SKS II, p. 415; trad. cit., EE III, p. 202.
timità d’uno sguardo sull’eterno, l’alloggio stesso dovrà disporre d’una finestra che sia come un’apertura sull’infinito. E infatti, questa è la sentenza suprema: “Che co-sa ama l’amore? Infinitezza. Che coco-sa teme l’amore?...Limiti”18. E poco dopo: “ogni cosa finita e temporale è dimenticata, solo l’eterno resta, la potenza dell’amore, il suo struggente desiderio, la sua beatitudine…”19.
L’in te ro ambiente, con il suo pianoforte, con i suoi mobili, dovrà essere pre-disposto così, come una progressiva dischiusura sull’infinito.
Ma infine che cosa resta di questo incanto supremo, una volta che l’incontro d’amore sia stato consumato? A cose fatte, le parole che concludono la storia sono quanto mai deludenti: l’incanto dell’eros è cessato e il cavaliere dell’infinito deve ri-mettersi in marcia, verso altri passi, forse verso altri amori, come l’insaziabile, mo-zartiano don Giovanni. Le ultime parole di Johannes sono come un foglio straccia-to dall’incanstraccia-to:
Per ora la storia è finita e non desidero vederla mai più… Allorquando una fanciulla ha donato tutto, allora ha perso tutto; infatti l’innocenza, che nell’uomo è un momento ne-gativo, nella donna è il valore essenziale… Ora ogni resistenza è impossibile e solo finché questa sussiste è bello amare, ma cessata che sia, è debolezza ed abitudine. […] L’ho ama-ta, ma d’ora in poi non potrà più impegnare l’anima mia20.
E così, evitando inutili scene di pianto, scene che, in fondo “non significano alcunché”21, Johannes attende con impazienza la sua carrozza e fugge: “Odo uno schiocco di frusta, è il mio cocchiere… Avanti, avanti, più in fretta, per la vita e per la morte! Crollino pure i cavalli, ma non un attimo prima che siamo arrivati laggiù”22.
Che sarà mai questo anonimo “laggiù” del quale non è dato alcun senso? E questa fuga precipitosa, proprio nel suo essere così precipitosa, non è infine un grot-tesco tentativo per rimuovere la contraddizione di fondo: la pretesa di catturare l’in-finito nel l’in-finito? Quando mai il l’in-finito avrebbe potuto darsi come l’inl’in-finito stesso e non soltanto come sua profezia o come vissuta prossimità del suo esserci? Di que-sta contraddizione si farà a suo modo testimone più consapevole un altro Johannes, quello di cui Kierkegaard scriverà poco dopo aver immaginato la storia del nostro seduttore23. A suo modo, dicevo, perché la contraddizione o la seduzione sarà allo-ra espunta, in allo-radice, dalla responsabilità dell’uomo per essere attribuita a un inge-gnoso stratagemma della creazione. Gli dei – si dice nel nuovo testo e sul filo di un’an-tica leggenda – hanno bisogno di umiliare la superbia dell’uomo, ma non ne sono capaci. Finiscono così per affidarsi alla bellezza femminile, finzione di un fascino in-finito: finzione che, non appena abbia raggiunto il suo scopo, cambia natura e
im-18 FD, EE1, SKS II, p. 429; trad. cit., EE III, p.221.
19 FD, EE1, SKS II, p. 431; trad. cit., EE III, p.223-224.
20 FD, EE1, SKS II, p. 432; trad. cit., EE III, pp. 224-225.
21 FD, EE1, SKS II, p. 432; trad. cit., EE III, p. 225.
22 FD, EE1, SKS II, p. 432; trad. cit., EE III, p. 224.
23 Mi riferisco allo Johannes di In vino veritas pubblicato nel 1845 di poco successivo al
prigiona nella prolissità del finito24. La donna, dunque, come ingannevole portatri-ce di una universalità che in effetti essa non ha: “che altro è la donna se non sogno, e al tempo stesso la suprema realtà? In tal senso la capisce e la conduce l’erotico, e viene da lei condotto, nell’istante della seduzione, fuori dal tempo, nella patria di lei e dell’illusione”25. L’erotico, però, ritornerà presto in se stesso.
C’è forse, in quest’altra figura della seduzione, una differenza rispetto al testo