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VITTORIA SU OGNI ALTRA PROSPETTIVA

Nel documento Quaderni di studi kierkegaardiani (pagine 71-83)

di UMBERTOREGINA

Durante l’anno 1843, trentesimo della sua vita, Kierkegaard pubblicò Enten

– Eller, Timore e tremore, La ripetizione, e ben nove Discorsi edificanti raccolti in tre

successivi distinti volumetti; lasciò invece interrotto, al primo dei tre capitoli previ-sti per la seconda parte, il De omnibus dubitandum est, che aveva precisi intenti fi-losofici. L’interruzione sorprende il lettore: coincide infatti non con una empasse ben-sì con la scoperta di un’alternativa al dubitare di tutto. Proprio nelle due ultime pa-gine del manoscritto, Kierkegaard enuncia due concetti che risulteranno impre-scindibili per tutto il suo successivo filosofare: 1) una nuova semantizzazione dell’essere, non più come identità dell’essere con se stesso in contrapposizione con il non esse-re, bensì come inter-esse, nella valenza al tempo stesso ontologica e antropologica di questa scansione dell’etimologia latina del termine; 2) la “ripetizione” al posto di ogni “identità a sé stante”. Senza inter-esse e senza ripetizione non vi sarebbe “coscien-za” ma “disinteresse”, e conseguente vanificazione dell’“intera esisten“coscien-za”1. Invero a queste due novità concettuali Kierkegaard si era aperto la strada già tramite la cri-tica al concetto di “sostanza”, posta al centro della dissertazione su Il concetto di

iro-nia in costante riferimento a Socrate, con la quale nel 1841 egli aveva ottenuto il

ti-tolo di “Magister” da parte della Facoltà di Filosofia dell’Università di Copenaghen. Kierkegaard fa di Socrate il demolitore appunto della “sostanzialità”, il concetto fon-damentale del pensiero classico e moderno. La nona delle quindici tesi in latino pre-messe alla dissertazione, difesa poi in danese, afferma perentoriamente: “IX.

Socra-tes omnes æquales ex substantialitate tanquam ex naufragio nudos expulit, realitatem subvertit, idealitatem eminus prospexit, attigit non occupavit [Socrate sradicò dalla

so-stanzialità tutti i suoi contemporanei, i quali rimasero nudi come dopo un naufra-gio, sovvertì la realtà, intravide l’idealità di lontano, la toccò, ma non la possedette]”2. 1 Le citazioni degli scritti di Kierkegaard sono tratte da Søren Kierkegaards Skrifter (=

SKS), edizione critica di tutti gli scritti di Kierkegaard giunta ora alla conclusione, a cura del

Sø-ren Kierkegaard Forskningscenter, Gads Vorlag, Copenaghen 1997-2013. Alla sigla segue il nu-mero di volume e di pagina, e il riferimento alla traduzione italiana usata. Per il luogo qui riferito cfr. S. KIERKEGAARD, Johannes Climacus eller De omnibus dubitandum est. En Fortælling (databi-le al 1842-1843), SKS 15, 57-58; ed. it. a cura di S. Davini, Id., Johannes Climacus o De omnibus

dubitandum est. Un racconto, Pisa, ETS, 1995, pp. 119-121.

2 S. KIERKEGAARD, Om Begrebet Ironi med stadigt Hensyn til Socrates (1841), SKS 1, 65; ed. it. a cura di D. Borso, Id., Il concetto di ironia in riferimento costante a Socrate, Milano, BUR, 20022, p. 6.

A questa “idealità”, da Socrate solo “intravista”, Kierkegaard darà poi il nome di “esi-stenza”!

Non più sostanzialità ma edificazione

Quale il segreto della prodigiosa intensità di scrittura dell’anno 1843? Qua-le il nesso, se questo c’è, fra concetti tanto nuovi e la successiva produzione? L’“Ul-timatum”, l’ultima delle tre lettere che formano la seconda parte di Enten – Eller, offre la traccia del percorso che mi accingo a proporre. L’“Ultimatum” è costituito da una finta predica che lo pseudonimo giudice Wilhelm dice di aver ricevuto da un finto amico divenuto finto pastore di un’immaginaria parrocchia nello Jutland. Quante finzioni! Ma per Kierkegaard si trattava di introdurre la figura dell’“edifi-cante” conferendole funzione filosofica portante, dunque in senso diametralmente opposto all’uso strumentale che ne aveva fatto Hegel nella Fenomenologia dello

Spi-rito tramite la contrapposizione di edificazione e “fatica del concetto”.

La predica che Kierkegaard pone al termine di Enten – Eller è intitolata

L’e-dificante che giace nell’avere sempre torto davanti a Dio. Essa si conclude con

un’af-fermazione di grande impegno filosofico: “Solo la verità che edifica è verità per te”. Raggiungere l’edificante non è servirsi di “fantasmi” (così in Hegel) per schivare la fatica del “concetto”, bensì argomentare indefessamente con tutte le forze della ra-gione per riuscire a “desiderare di avere sempre torto davanti a Dio”:

Allorquando ti si vieta di venire a contesa contro Dio, allora con ciò si indica la tua per-fezione, e non affatto che tu sia un essere di poco conto, senza alcuna importanza per Lui. Il passerotto cade a terra, esso ha in un certo qual modo ragione di fronte a Dio, il giglio secca, esso ha in certo qual modo ragione di fronte a Dio, solo l’uomo ha torto, a lui uni-camente è riservato ciò che venne negato a tutto, d’aver torto davanti a Dio3.

Desiderare di avere sempre torto davanti a Dio è per l’uomo l’unico modo per avere a che fare con una verità conforme al suo essere uomo; cioè vuol dire non de-sistere mai dal cercare le ragioni del proprio aver torto. L’edificante è allora giusto l’opposto di quel prospettivismo insito nella massima del “si fa quello che si può”, con la quale polemizza il pastore di Enten – Eller. Chi si basa su questa regola si ren-de succube di prospettive strategicamente perren-denti in quanto lasciate alla mercé ren- del-l’arbitrio, proprio e altrui. Non solo, costui si rende anche schiavo di insuperabili dub-bi, frutto di pigrizia intellettuale e di ignavia morale. Insomma: o l’edificazione che

3 S. KIERKEGAARD, Enten – Eller (1843), SKS 3, 324; ed. it. a cura di A. Cortese, Id.,

En-ten – Eller, Milano, Adelphi, 1989, V, p. 261. Un’analoga valutazione dell’aver torto davanti a Dio

viene espressa in La ripetizione a proposito della protesta di Giobbe davanti di Dio: “Giobbe ot-tenne dunque torto? Sì! e per sempre, poiché non c’è una corte superiore a quella che lo ha giu-dicato. Giobbe ottenne ragione? Sì, e per sempre, in quanto ha ottenuto torto davanti a Dio” (S. KIERKEGAARD, Gjentagelsen. En Forsøg in den experimenterende Psychologie af Constantin Constantius (1843), SKS 4, 79; ed. it. e cura di D. Borso, Id., La ripetizione. Un esperimento psicologico di

si prende a cuore l’esistenza dell’esistente, oppure l’astrazione da questa, l’alienazione dell’umano, come Climacus stigmatizzerà nel Poscritto a proposito del professore “spe-culante”:

Mentre un uomo reale, composto di finito e di infinito, ha precisamente la sua realtà nel mantenere questa sintesi, infinitamente interessato all’esistere, invece un pensatore astrat-to ha una natura doppia: da una parte, una natura fantastica che vive nell’essere puro del-l’astrazione, e dall’altra una grama figura di professore; ecco che l’essere astratto butta in un canto il professore come in un canto si mette il bastone. Quando si legge la vita di un simile pensatore (poiché i suoi scritti possono essere importanti), viene da rabbrividire al pensiero di quel che è l’essere uomo. [Prosegue in nota nella stessa pagina]. L’essere con cui il pensiero si identifica, non è certamente l’essere uomo4.

L’uomo che desidera di avere sempre torto davanti a Dio non fa astrattamente “quello che si può”; fa invece quello che realmente egli stesso può fare, ed è molto. Non desidera affatto dar sempre ragione a Dio, perché ciò sarebbe pur sempre un fare astrazione dal proprio esistere, ma vuol riuscire egli stesso a desiderare di ave-re sempave-re torto davanti a Dio. Non è la stessa cosa! Nel primo caso il singolo esi-stente non prende in seria considerazione il suo aver torto, lo dà per scontato, si de-responsabilizza e, se fa appello a Dio, lo strumentalizza. Di fatto non si affida né a Dio né a se stesso, ma al fare astrazione da sé e da Dio. Se invece l’esistente deside-ra di avere sempre torto davanti a Dio, allodeside-ra proprio questo desiderio è un atto di amore reso possibile dalla convinzione della libertà sia dell’uomo sia di Dio. L’uo-mo non deve diL’uo-mostrare che Dio ha sempre ragione perché allora si “costringereb-be” da sé ad avere sempre torto chiudendosi nel suo ragionare, nell’immanenza. Egli deve invece desiderare di avere sempre torto; non deve mai cessare a un certo pun-to di desiderare, se intende restare attenpun-to al proprio esistere davanti a Dio: “Que-sto desiderio è un proprio dell’amore e perciò della libertà, e tu, dunque, non sare-sti affatto costretto a riconoscere che hai sempre torto. Non ti sarebbe dunque mo-strato che hai sempre torto per via di considerazioni, ma in ciò giace la certezza che sei edificato”5.

L’edificazione è la vittoria dell’“esistenza” sulla “sostanza”, dell’inter-esse su ogni disinteresse, della “ripetizione” su ogni “reminiscenza”. Il desiderare di avere sempre torto davanti a Dio, infatti, è edificante in senso fondante e al tempo stesso elevante, e ciò vale per tutte le implicazioni esistentive che a questa dimensione esi-stenziale possono essere ricondotte. L’uomo potrà così esistere davanti a Dio, a tu per tu con lui:

“Questo fatto che tu di fronte a Dio hai sempre torto non è una verità che devi di neces-sità riconoscere, non una consolazione che lenisce il tuo dolore, non una compensazione per qualcosa di meglio, ma una gioia nella quale tu vinci su te stesso e sul mondo, il tuo

4 S. KIERKEGAARD, Afsluttende uvidenskabelig Efterscrift til philosophiske Smuler (1846),

SKS 7, 275; tr. it. e cura di C. Fabro, Id., Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia,

, in Opere, Firenze, Sansoni, 1972, p. 424.

atto di culto, una testimonianza [en Beviisning] che il tuo amore è felice come solo è l’a-more con cui si ama Dio”6.

Fede in Dio e nell’esistente

L’edificante, in quanto desiderio di avere sempre torto davanti a Dio, fa sì che l’uomo viva costantemente e incondizionatamente nell’inter-esse per sé e per Dio. Con Dio l’esistente non potrà mai avere un rapporto che imploda nella sostanzialità, per-ché ciò implicherebbe il fare di sé, di Dio o di ambedue, degli “accidenti” del tut-to. Con Dio si può avere un rapporto solo nella fede, che è fede in se stessi in quan-to esistenti integralmente interessati al proprio esistere, e per quesquan-to impegnati a vi-vere secondo prospettive che siano di per sé vittoriose su ogni condizionamento che riduca l’esistenza a prospettiva autoreferenziale. Si vive in modo edificante solo se la propria prospettiva è una fede vittoriosamente antiprospettica. Si tratterà allora di avere fede al tempo stesso in Dio e nella propria esistenza. È l’argomento del pri-mo dei Due discorsi edificanti del 1843, recante il titolo La prospettiva della fede, del quale tratterò tenendo presenti le anzidette novità concettuali introdotte da Kier-kegaard rispetto alla concettualità antica e moderna.

Ma non è forse proprio la fede la prospettiva in cui l’uomo ha meno fede in se stesso? Nietzsche, quasi mezzo secolo dopo Kierkegaard, diede della fede una de-finizione secondo la quale ogni forma di “tener per vero” è miscredenza nei confronti della pienezza della vita: “Che cos’è una fede? Come si forma? Ogni fede è un tener

per vero […], un’illusione prospettica, la cui origine è in noi (avendo noi costantemente bisogno di un mondo ristretto, abbreviato, semplificato)”7. Nel Discorso, la fede non è un “tener per vero” qualcosa, bensì il non voler “distrarsi” dal proprio esistere8. Proprio per prevenire la tentazione di distrarsi, Kierkegaard prescinde da ogni ri-ferimento ai contenuti della fede in quanto cristiana; reputa, non senza fondamen-to, che essi potrebbero essere l’occasione, come nel caso delle cristologie della sua

6 Ibid., SKS 3, 328, tr. it. cit., V, p. 269. In Gli atti dell’amore Kierkegaard, chiarisce an-che su base etimologica, an-che nell’“edificante” – come da lui inteso in base all’uso an-che ne fa lo stes-so Nuovo Testamento – convergono elevazione e fondazione: “Edificare è allora erigere qualcosa in altezza a partire dal fondamento [fra Grunden af opføre Noget i Høiden]. Questo “in su” [op] indica manifestamente la direzione verso l’alto; ma si può parlare di edificazione solo se l’altezza è al tempo stesso altezza rovesciata, profondità. […] Che strano! Questo op [in su] nella parola

at opbygge [edificare] indica altezza, ma indica altezza alla rovescia, come profondità; giacché

edi-ficare è costruire a partire dal fondamento” (S. KIERKEGAARD, Kjerlighedens Gjerninger. Nogle

chri-stelige Overveielser i Talers Form, SKS 9 214; ed. it. a cura di U. Regina, Id., Gli atti dell’amore. Alcune riflessioni cristiane in forma di discorsi, Brescia, Morcelliana, 2009, p. 235.

7 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, tr. it. di S. Giametta, in ID., Opere, a cu-ra di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1971, vol. VIII/2, p. 15, fcu-ram. 9 [41].

8 “Si può essere distratti o diventare distratti [distrait] per il continuo commercio con il pensiero puro; ma questa non è una cosa che possa riuscire , anzi fallisce completamente […]. Io posso astrarre da me stesso, ma il fatto che io faccio astrazione da me stesso significa precisa-mente che nello stesso tempo esisto” (KIERKEGAARD, Afsluttende uvidenskabelig Efterscrift til

epoca, per sacrificare la propria esistenza a nient’altro che a idoli, come ci si può ac-certare dal fatto che, se si tratta di idoli, allora in essi si può aver fede solo “fino a una certa misura [til en vis Grad”9]:

Quando tutto cambia, quando il dolore fa svanire la gioia, allora gli uomini vengono me-no, perdono la fede, o meglio – non confondiamo le parole – manifestano di non averla mai avuta. Tu, mio uditore, non hai fatto così. Quando hai capito di essere stato cambia-to dal fatcambia-to che atcambia-torno a te tutcambia-to era cambiacambia-to, allora hai detcambia-to: “Confesso, ora lo comprendo, che ciò che chiamavo la mia fede era solo un’illusione. […] Non edificherò me stesso con un parlare impudente e insignificante, non dirò che ho perso la fede, non farò ricadere la colpa sul mondo o su uomini, né accuserò persino Dio”10.

Ma chi potrà mai garantire il credente che il futuro non lo indurrà ad ab-bandonare come illusoria qualsiasi fede, persino quella nel suo stesso essere interessato al proprio esistere? Perché allora non sottrarsi alla brutte sorprese di cui è gravido il futuro, e decidere di vivere alla giornata? Kierkegaard oratore non concede ai suoi “pii uditori” questa scappatoia:

Se non ci fosse alcun futuro, non ci sarebbe nemmeno alcun passato, e se non ci fosse né alcun futuro né alcun passato, allora l’uomo sarebbe privo di libertà come la bestia, il suo capo piegato verso terra, la sua anima serva del momento. In tal senso non si potrebbe de-siderare di vivere il presente: né certo si è pensato di viverlo in tal senso quando si è rac-comandato di viverlo come cosa grande11.

Kierkegaard sa bene non solo che non c’è nessuno che voglia vivere come una bestia, ma anche che nessuno potrà far ciò anche se lo volesse. L’esistente può cer-to distrarsi dal suo esistere, ma è pur sempre egli stesso che esiste anche quando si distrae. Sarebbe tuttavia autocontraddittorio costringerlo a credere, giacché è pro-prio della fede il vincere senza costringere. Sarà invece possibile convincere i non cre-denti del fatto che la loro riluttanza a credere è dovuta alla durezza di cuore cui li induce la loro pigrizia di spirito: “È un ben misero sapere quello a cui sono arriva-ti, che è abbastanza facile indurire il proprio cuore; bisognerebbe toglier loro quel sapere, che è il cuscino della pigrizia su cui fanno sonnecchiare pigramente la loro vita; […] noi però preferiamo rivolgerci a chi tuttora nutre prospettive”12.

Fede e vittoria

Invero Kierkegaard non abbandona affatto a se stessi quelli che non nutrono prospettive. Costoro pretendono di potere consolidare la loro condotta

rinunciata-9 S. KIERKEGAARD, Troens Forventning, in Id., To opbyggelige Taler, 1843, SKS 15, 30; ed. it. a cura di U. Regina, id., Due discorsi edificanti 1843 – I. La prospettiva della fede, Brescia, Mor-celliana, 2013 p. 67.

10 Ibid., SKS 3, 26; tr. it. cit. pp. 61-62.

11 Ibid., SKS 3, 34.

ria con l’appellarsi al principio di non contraddizione in quanto fondamento dell’i-dentità con se medesimi. Ma un tale non contraddirsi, di per sé inconfutabile finché l’esistente resta indifferente al proprio esistere, risulta essere solo ciò da cui l’uomo deve partire per esistere effettivamente. L’Enten – Eller della libertà di scelta è pos-sibile solo se al posto del principio di non contraddizione subentra il principio di traddizione, rispetto al quale, come Climacus argomenta nel Poscritto, il non con-traddirsi appare solo un modo per sottrarsi al concretizzarsi dell’esistere:

Che in un certo senso il principio di identità sia il principio più alto e che stia a fondamento del principio di contraddizione, non è difficile a vederlo. Ma il principio di identità non è che il limite, come l’orizzonte vago delle montagne che i disegnatori chiamano lo sfondo; il disegno è la cosa principale. L’identità è quindi una concezione più bassa della con-traddizione. L’identità è il termine a quo, non ad quem, dell’esistenza. Un esistente può al massimo arrivare all’identità e ritornare facendo astrazione dall’esistenza13.

La caratteristica della “dialettica” kierkegaardiana, diversamente da quella he-geliana, non è la “mediazione” bensì l’“accentuazione”, non la “sintesi” ma l’Enten

– Eller, l’Aut – Aut della decisione. Il futuro lo si vince non con deduzioni

necessi-tanti bensì collocandolo nell’orizzonte dell’“eterno”, il signore di tutto il tempo. Ma non dovrà trattarsi di un eterno ottenuto facendo astrazione dal tempo, perché al-lora sarebbe come disinteressarsi dell’esistenza temporale. Solo “l’Eterno nel po” può fare del futuro, di per sé nemico dell’uomo, il suo fedele amico, già nel tem-po e nella prospettiva della sua beatitudine eterna:

Con l’eterno si può vincere il futuro, poiché l’eterno è il fondamento del futuro, e perciò si può con questo sondare [udgrunde] quello. […] Ebbene, una prospettiva del futuro che nutre prospettive di vittoria ha davvero vinto il futuro; per questo il credente è giunto a conclusione con il futuro prima di aver cominciato con il presente, giacché ciò che è sta-to vinsta-to non può più disturbare, e questa vitsta-toria può solo rendere uno più forte nell’agi-re nel pnell’agi-resente14.

“La prospettiva della fede è dunque vittoria [Troens Forventning er da Seier]”15. È la vittoria dell’uomo che sa stare nel tempo davanti all’Eterno, è la sua vittoria sia sugli eterni dell’astrazione sia sugli idoli dell’autoreferenzialità.

Nessuno può dare la fede a un altro

Proprio per evitare sin dall’inizio che il riferimento fondante all’Eterno pos-sa venire equivocato come un fare astrazione dal tempo, Kierkegaard ambienta il suo discorso in una chiesa, a capodanno. È un giorno non liturgico, ma importante per-ché è consuetudine augurare proprio allora a chi si ama tutto il bene possibile, ed è

13 Ibid., SKS 3, 25-26; tr. it. cit. pp. 60-61.

14 KIERKEGAARD, Afsluttende uvidenskabelig Efterscrift, SKS 7, 383; tr. it. cit., p. 492.

conveniente che ciò avvenga in una chiesa, di fronte all’Eterno. Qui è richiesta la mas-sima serietà! Alla persona amata si dovrà dunque augurare il suo vero bene, quello che più le si confà, cosa che non si può decidere a casaccio. Per non sbagliare, e per poter ciononostante dar forma al desiderio di bene per l’altro, non ci si dovrà ras-segnare a fare auguri in generale, carenti di ogni serietà! Non resterà che augurar-gli la fede, quella vera, “una fede superiore” [en høiere Tro]16]; ed allora chi espri-me l’augurio dovrà fare presente all’amato che sarebbe male per lui rassegnarsi a re-stare “quell’uomo sgomento” [den raadvilde Mand]17che senza fede non sa dove an-dare a ripararsi dagli imprevisti del futuro.

Sennonché colui che augura la fede all’amato non vorrebbe limitarsi a met-terlo in guardia; vorrebbe subito dargli la fede. Ma chi fa l’augurio è d’altra parte cer-to che “un uomo può far molcer-to per un altro, tuttavia “non può dargli la fede”18. Lo potrà tuttavia aiutare a porre attenzione all’“originario” di cui ogni uomo è fornito e sulla cui base ognuno può mettersi in rapporto con l’eterno: “Ciò che è più

Nel documento Quaderni di studi kierkegaardiani (pagine 71-83)