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KIERKEGAARD E IL PROBLEMA DELL’AUTORE 1

Nel documento Quaderni di studi kierkegaardiani (pagine 83-97)

di SIMONELLADAVINI

Nel mitico anno 1968 Roland Barthes pubblicava un breve scritto destinato a rivoluzionare la teoria e la pratica letterarie dei decenni successivi. In esso si auspica-va provocatoriamente – come recita il titolo – “la morte dell’autore”, ovvero l’avven-to di una teoria e di una pratica letterarie finalmente liberate da questa figura ingom-brante e monopolizzatrice, intorno alla quale si era strutturato fino ad allora lo studio e l’insegnamento della letteratura secondo la formula: “La vita e le opere”2. Indagare la biografia dell’autore ha senso nella presupposizione che l’autore riversi nell’opera il proprio vissuto, che l’opera sia una sorta di sua confidenza, una confessione. Ma che importa chi parla, chi scrive – sosteneva Barthes – se, quando “la scrittura comincia”, “l’autore entra nella propria morte”3, ovvero se la scrittura apre lo spazio in cui la sog-gettività scompare, ogni identità si frantuma, “a cominciare da quella stessa del corpo che scrive”4? Se “la scrittura è distruzione di ogni voce, di ogni origine”5, l’intenzio-nalità dell’autore, ovvero ciò che l’autore ha voluto, viene meno come principio pro-duttivo e dunque esplicativo delle opere letterarie; al centro dell’attenzione critica si pone invece il testo preso nella sua autosufficienza e autonomia, e indagato nella sua struttura interna e nel suo rapporto orizzontale con altri testi. Non essendo origine, l’au-tore non può nemmeno essere il depositario del significato dell’opera, del suo

segre-1 Tutte le citazioni dagli scritti di Kierkegaard sono tratte dall’edizione critica comple-ta a cura del Søren Kierkegaard Forskningscenter di Copenaghen: Søren Kierkegaards Skrifter

[Scrit-ti di S.K.], a cura di N. J. Cappelørn, J. Garff, A. M. Hansen, J. Knudsen, J. Kondrup, A.

McKin-non , F. H. Mortensen, T. A. Olesen, S. Tullberg, 55 voll. (28 voll. di testi e 27 voll. di commenta-ri), Copenaghen, Gad, 1997-2012 (d’ora in poi: SKS). Nel caso delle citazioni dai Journaler verrà dato anche il riferimento alla seguente edizione: Søren Kierkegaards Papirer [Carte di S.K.], 2ª ed., 16 voll., 25 tomi, a cura di P. A. Heiberg, V. Kuhr, E. Torsting, con aggiunte di N. Thulstrup (voll. 12-13), e indici a cura di N. J. Cappelørn (voll. 14-16), Copenaghen, Gyldendal, 1968-1978 (d’o-ra in poi: Pap.). Le edizioni italiane degli scritti di Kierkegaard citati ver(d’o-ranno indicate man ma-no, anche se la traduzione delle citazioni è quasi sempre mia.

2 R. BARTHES, La mort de l’auteur, “Manteia”, 5, (1968), ripubblicato poi in R. BARTHES,

Le bruissement de la langue, Essais critique IV, Paris, Éditions du Seuil, 1984, pp. 61-67; trad. it.

di B. Bellotto, La morte dell’autore, in ID., Il brusio della lingua, Saggi critici IV, Torino, Einaudi, 1988, pp. 51-56.

3 Ivi, p. 51.

4 Ibidem.

to. Non esiste un significato ultimo del testo, ma l’infinita possibilità delle sue inter-pretazioni: la morte dell’autore è la nascita del lettore.

Prendendo spunto da queste suggestioni, nel mio intervento intendo mostrare come Kierkegaard, un secolo e più prima di Barthes, abbia praticato e teorizzato un’at-tività letteraria all’insegna della morte dell’autore, della sua aura, ovvero della sua au-torità.

I. Stando all’autointerpretazione che egli fornisce nel Punto di vista per la mia

attività di scrittore e in Sulla mia attività di scrittore, Kierkegaard è stato uno

scrit-tore religioso che con la sua produzione “‘ha voluto una cosa sola’”6: “‘Senza

auto-rità’RENDERE ATTENTIal religioso, al cristiano”7. Kierkegaard collega l’autorità al sa-pere. Autorità, come autore, viene da auctus, participio passato del verbo augere, che vuol dire “accrescere”. L’autorità è prerogativa di chi accresce il sapere, lo scibile uma-no. Kierkegaard non ha alcuna conoscenza nuova da comunicare, come ribadisce più volte, e quindi già in questo primo senso è senza autorità. Anzi, da questo punto di vista, solo Cristo e, in subordine, gli Apostoli, hanno autorità, vera autorità, perché solo loro hanno introdotto nel mondo un sapere eterogeneo al mondo, trascenden-te per l’uomo; una sapienza segreta che nessun cuore di uomo potrascenden-teva concepire (men-tre ogni altro sapere, essendo solo l’esplicitazione delle leggi fisiche e morali che Dio ha dato al mondo, non può essere fonte di autorità)8.

Esaurita con la predicazione di Cristo e degli Apostoli questa comunicazio-ne iniziale di sapere, la comunicaziocomunicazio-ne del cristiacomunicazio-nesimo è in tutto e per tutto co-municazione etica di “potere [kunnen]”9, nel senso di capacità, di saper fare, cioè una comunicazione che mira a una “realizzazione [Realisation]”, a rendere effetti-vo il sapere che si possiede10. La comunicazione qui è “educazione [Opdragelse]”, un tirare fuori, un portare alla luce11, e la funzione del comunicante quella puramente maieutica di aiutare l’altro a diventare ciò che già è in potenza12: un essere morale o un cristiano; il comunicante quindi deve fare di tutto affinché il ricevente, invece di rapportarsi, grazie al suo aiuto, alla verità (Dio, Cristo), non finisca per rappor-tarsi a lui come alla verità, diventando suo seguace13. Per evitare questo rischio, il

6 SKS 13,13 / Sulla mia attività di scrittore, trad. it. di A. Scaramuccia, Pisa, ETS, 2006

(d’ora in poi: AS), p. 37.

7 SKS 13,19 / AS 46.

8 Elaboro qui tesi e spunti tratti dai seguenti scritti di Kierkegaard: La dialettica della

co-municazione etica ed etico-religiosa, trad. it. di C. Fabro, in Scritti sulla coco-municazione, 2 voll.,

Ro-ma, Logos, 1979-82 (d’ora in poi: SC), vol. 1, pp. 47-96 / SKS 27,387-434; Della differenza fra un

genio e un apostolo, trad. it. di C. Fabro, in SC 2, 263-280 / SKS 11,95-111; La sapienza segreta (Pre-dica dimissoria), trad. it. di S. Davini, in AA. VV., Il monoteismo, Milano, Mondadori, 2002, pp.

217-232 / SKS 27, 295-311.

9 Cfr. SKS 27,404-406 e 430-434 / SC 1,66-68 e 89-93.

10 Cfr. SKS 27,394 / SC 1,56-57.

11 Cfr. SKS 27,402 / SC 1,63-64. Il termine danese impiegato qui da Kierkegaard:

“Op-dragelse [educazione]” deriva dal verbo “opdrage [educare]”, che letteralmente vuol dire: tirare

[drage ] su [op] e infatti è usato anche nel senso di “allevare”.

12 Cfr. SKS 27,395 e 402 / SC 1,58 e 63-64.

comunicante deve ricorrere a una forma peculiare di comunicazione: la comunica-zione indiretta.

In Esercizio di cristianesimo Kierkegaard chiarisce che la comunicazione in-diretta può essere praticata essenzialmente in due modi: “La comunicazione inin-diretta può essere un’arte della comunicazione nel raddoppiare la comunicazione. L’arte con-siste nell’annullarsi come comunicante, nel rendersi puramente oggettivo, e poi porre incessantemente in unità gli opposti qualitativi. È ciò che alcuni pseudonimi usano chiamare la doppia riflessione della comunicazione”14, o anche comunicazione doppiamente riflessa. Si tratta di scrivere opere ambigue, doppie, il cui messaggio è oggettivamente indecidibile: “un nodo dialettico”15(sarà uno scherzo o una cosa se-ria, un attacco o una difesa?), e poi “essere nessuno, un’assenza, qualcosa di ogget-tivo, nessuna persona reale”16. In tal modo viene impedito che il lettore, per dis-ambiguare il messaggio, per trovare una risposta sul vero significato dell’opera, per risolvere l’enigma del testo, risalga all’identità del comunicante, all’autore in carne ed ossa. Trovando sbarrata questa strada, egli di fatto viene risospinto verso se stes-so, verso la propria interiorità e libertà: “Se qualcuno vuole avere a che fare con que-sto genere di comunicazione deve sciogliere il nodo da sé”17, rivelando nella scelta che compie se stesso. È il tipo di comunicazione che Kierkegaard ha praticato con i suoi scritti pseudonimi. In quest’ottica lo pseudonimo è un incognito, una coper-tura per nascondere la vera identità dell’autore, un nome che nasconde un’assenza, e come tale è sinonimo di anonimo18.

A questo punto si apre un problema molto rilevante: come è possibile che il comunicante scompaia in una comunicazione come quella etica o etico-religiosa nel-la quale è essenziale che il comunicante reduplichi in sé quanto comunica, pena dere lui ogni credibilità e trasformare in chiacchiera la comunicazione? Qui la per-sonalità di chi comunica fa indubbiamente un’enorme differenza, “a meno di non ritenere indifferente – come Kierkegaard scrive nel De omnibus dubitandum est – che sia Cristo o un uomo qualsiasi a dire d’essere figlio di Dio, oppure che fosse un

uo-14 SKS 12,137 / Esercizio di cristianesimo, trad. it. di C. Fabro, in S. KIERKEGAARD,

Ope-re, Firenze, Sansoni, 1972 (d’ora in poi: Op.), p. 757.

15 SKS 12,137 / Op. 757.

16 SKS 12,137 / Op. 758.

17 SKS 12,137 / Op. 757.

18 Per un certo periodo Kierkegaard usa i due termini in modo interscambiabile: si ve-da, ad esempio, la lettera da Berlino a Emil Boesen in cui prega l’amico di non dire a nessuno che sta lavorando a Enten – Eller, perché “l’anonimato” gli è “di estrema importanza” (SKS 28,167).

Enten – Eller, la prima opera dell’attività di scrittore, è senz’altro un esempio particolarmente

si-gnificativo del primo tipo di comunicazione indiretta che Kierkegaard descrive in Esercizio di

cri-stianesimo. Essa è senza autore, in quanto gli autori delle carte ritrovate sono ignoti, ed è un Dop-peltværk in cui si fronteggiano due punti di vista opposti senza che il testo fornisca una soluzione

a questo conflitto: se il lettore vuole chiudere questa “opera aperta” deve scrivere da sé il finale. È vero che essa ha un curatore-editore, Victor Eremita, ma questi ha svolto il suo compito nel mo-do meno autoritativo possibile, come spiega lui stesso sia nell’Avvertenza all’opera sia nel magni-fico Post-Scriptum a Enten – Eller del 1844 (Pap. IV B 59 / trad. it. di A. Scaramuccia, in “Nota-bene. Quaderni di studi kierkegaardiani”, 1 (2000), Roma, Città Nuova, pp. 191-210), considerandosi né più né meno che “ il primo lettore del libro” (ivi, p. 230).

mo che conosceva se stesso o uno qualsiasi a dire: ‘Conosci te stesso’”19. A questo problema risponde il prosieguo del passo di Esercizio di cristianesimo precedente-mente citato, in cui Kierkegaard illustra il secondo tipo di comunicazione indiretta. Leggiamo:

Ma la comunicazione indiretta si può avere anche in un altro modo, mediante il rapporto tra la comunicazione e il comunicante; qui dunque c’è anche il comunicante, mentre nel primo caso era soppresso. […] Ogni comunicazione che riguarda l’esistere richiede un co-municante; il comunicante infatti è la reduplicazione della comunicazione; reduplicare è esistere in ciò che si comprende20.

Kierkegaard continua facendo una precisazione per noi molto importante: “Ma per il fatto che c’è un comunicante che esiste in ciò che comunica, per ciò non si può ancora chiamare questa comunicazione ‘comunicazione indiretta’. Se invece il co-municante stesso è determinato in modo dialettico, se il suo stesso essere è una de-terminazione della riflessione, allora ogni comunicazione diretta è impossibile”21. Ov-vero: “Anche l’affermazione più diretta da parte di un tale comunicante diventa – a causa del comunicante, cioè a causa di ciò che il comunicante è – comunicazione non diretta”22. Così l’affermazione “Io sono il Figlio di Dio” è comunicazione diretta; ma il fatto che a pronunciarla sia un singolo uomo del tutto simile agli altri rende in-diretta la comunicazione perché la contraddice obbligando il ricevente a una com-piere una scelta: gli credi o no?

In questo secondo tipo di comunicazione indiretta il comunicante è presen-te, ma con “una riflessione negativa”23, cioè egli deve fare in modo che la sua esistenza personale esteriore contraddica quanto egli comunica. Mentre nel primo caso è la forma a costituire l’opposizione alla comunicazione verbale del messaggio, qui è l’e-sistenza del comunicante a costituire tale opposizione e a far sì che la comunicazio-ne sia un “nodo dialettico”. Il comunicante etico o etico-religioso deve, sì, redupli-care in sé il messaggio, ma esprimere questa reduplicazione in modo indiretto, cioè mostrando ingannevolmente un’apparenza opposta a quanto comunica e a quello che lui stesso è interiormente, al fine di rendere impossibile che il ricevente si rapporti a lui in modo diretto.

Il comunicante “serio” non deve apparire serio. Apparire serio è serietà diretta, ma non serietà nel senso più profondo. Serio è che il comunicante sia serio e che l’altro diventi se-rio (e qui sta la riproduzione), ma notabene non con l’impressione immediata e lo scim-miottamento, ma da sé – e qui sta la ragione per cui il comunicante non deve apparire se-rio24.

19 SKS 15,43-44 / Johannes Climacus o De omnibus dubitandum est, Un racconto, trad. it.

di S. Davini, Pisa, ETS, 1996, p. 94.

20 SKS 12,137-138 / Op. 758.

21 SKS 12,138 / Op. 758.

22 SKS 12,138 / Op. 758.

23 SKS 12,138 / Op. 758.

Insomma Kierkegaard non crede che l’etica possa essere comunicata attraverso l’esempio diretto, perché “nulla piace di più agli uomini dello scimmiottare”25.

È questo secondo tipo di comunicazione indiretta quello che Kierkegaard ha praticato, da un lato, con la sua attività di scrittore considerata nella sua totalità (cioè come insieme di scritti estetici pseudonimi e di scritti religiosi autonimi) e, dall’al-tro, con il suo corpo. La sua comunicazione è questa combinazione di scrittura e cor-po26.

L’esistenza personale che Kierkegaard ha condotto, o, meglio, l’impressione che ha cercato di suscitare nei contemporanei, volta, come vedremo subito, a minare la propria autorità, nel senso di autorevolezza – autorevolezza che deriva dall’“es-sere in carattere”, cioè dall’esprimere esistenzialmente i propri convincimenti etici, ha fatto sì di rendere indiretta anche la comunicazione diretta costituita dagli scrit-ti religiosi27. Così durante la prima fase della sua attività letteraria, quella che egli de-finisce estetica, Kierkegaard adopera tutta la sua astuzia e conoscenza degli uomini per “ingannare a rovescio”28, cioè non per conquistare celebrità e considerazione, ma per indebolire l’impressione di se stesso presso i contemporanei. E se per otte-nere fama e considerazione bisogna “entrare a far parte di qualche consorteria, qualche associazione per la vicendevole ammirazione”29, e poi “nascondersi alla mas-sa, non farsi mai vedere, per suscitare così un’impressione fantastica”30, per alimentare l’illusione secondo cui, siccome si è visti di rado, allora siamo qualcosa31, Kierkegaard fa esattamente il contrario: rompe con il clan Heiberg, non fa mai visite né riceve, ma in compenso si fa vedere molto per strada e a teatro32. Risultato: “Io ero un per-digiorno, uno sfaccendato, un flaneur, uno spensierato; una bella testa, sì, anche bril-lante, spiritoso – ma del tutto privo di serietà”33.

Nella pratica comunicativa di Kierkegaard l’esistenza personale dell’autore è tanto importante che, allorché egli decide di chiudere la prima parte della sua pro-duzione letteraria, quella a prevalenza estetica, per passare alla seconda, più

pretta-25 SKS 27,397 / SC 1,59.

26 Anche Joakim Garff nella sua biografia mette in luce in più occasioni come per Kier-kegaard il corpo fosse “un vitale strumento di comunicazione”: J. GARFF, SAK. Søren Aabye

Kier-kegaard. Una biografia, trad. it. di S. Davini e A. Scaramuccia, Roma, Castelvecchi, 2013, p. 253.

27 SKS 16,47 / SC 1,158.

28 SKS 16,39 / SC 1,150.

29 SKS 16,39 / SC 1,150.

30 SKS 16,39 / SC 1,150.

31 Cfr. SKS 20,45 / Pap. VII 1 A 155 / Diario, trad. it. di C. Fabro, 3ª ed., 12 voll., Bre-scia, Morcelliana, 1980-1983 (d’ora in poi: D), vol. 3, pp. 232-233. Kierkegaard con molta perspicacia capisce che il vivere nascosto, ritirato, da parte di un autore può avere, inaspettatamente, l’effet-to opposl’effet-to di potenziare la sua figura, di mitizzarla.

32 SKS 16,41-42 / SC 1,152-153.

33 SKS 16,42 / SC 1,153. In un’annotazione del Journal Kierkegaard spiega così la sua

stra-tegia: “Uno scrittore, formatosi essenzialmente alla scuola di Socrate e dei Greci, che ha compre-so l’ironia, comincia un’enorme attività letteraria; egli non vuole proprio essere un’autorità e a tal fine vede in modo del tutto corretto che il suo continuo andare per strada dovrà necessariamen-te indebolire l’impressione di se snecessariamen-tesso” (SKS 20,40 / Pap. VII 1 A 147 / D 3,229).

mente religiosa, deve assicurarsi, per poterlo fare, che la sua esistenza personale cam-bi di conseguenza34. Sfruttando abilmente – come racconta nella ricostruzione un po’ romanzata del Punto di vista – la circostanza, “alquanto ridicola”, che l’intera po-polazione di Copenaghen, ma soprattutto i più rozzi e ignoranti, “si era data en

mas-se all’ironia e alla spiritosità”35, sotto la regia del giornale satirico Corsaren, Kierke-gaard si procurò in poco tempo il genere di esistenza corrispondente alla nuova fa-se dell’attività letteraria. Infatti bastarono “poche parole indirizzate all’organo del-l’ironia” per diventare “oggetto dell’ironia di tutti”36:

Lo scrittore religioso essenziale è sempre polemico e pertanto soccombente, ovvero subi -sce l’avversità di ciò che incarna in sé di volta in volta il male specifico dell’epoca. […] Se il male è la folla – ed il ghigno bestiale, la sua religiosità si vedrà anche dal fatto di essere oggetto di quel genere di attacco e di persecuzione37.

E qui entra nuovamente in gioco il corpo di Kierkegaard, giacché è proprio il suo corpo sbilenco ad essere fatto oggetto di ironia da Corsaren e dal popolino.

“Uno scrittore religioso trionfante nel mondo è eo ipso non religioso”38, scri-ve Kierkegaard nel Punto di vista: così, quando egli passerà ad una fase ancora ul-teriore della sua produzione letteraria, quella in cui vorrà esporre il cristianesimo nel modo più puro, senza accomodamenti di sorta, si imbatterà nel problema del mar-tirio vero e proprio come conseguenza ultima della sequela di Cristo e comprende-rà che la comunicazione assolutamente indiretta è interdetta all’uomo perché il suo esito coerente è il demoniaco: cioè il delirio fanatico di farsi uccidere per la verità39. Forse è questo il motivo per cui in Esercizio di cristianesimo viene dato un unico esem-pio del secondo dei due tipi di comunicazione indiretta distinti da Anticlimacus: la predicazione di Cristo40.

II. Per sua stessa ammissione41, Kierkegaard vede solo a un certo punto del-la sua produzione letteraria il legame positivo tra i due gruppi di scritti che del-la com-pongono: gli scritti estetici pseudonimi e gli scritti religiosi autonimi, e cioè quando arriva a interpretare i primi come inganno per portare nella verità. Per tutta una fa-se, non sappiamo quanto lunga, i due gruppi di scritti corrono paralleli, espressio-ne delle due conseguenze cui ha dato luogo il “fatto” non meglio specificato che Kier-kegaard pone all’origine della sua attività di scrittore: “Il fatto mi rese poeta”42, “ma

34 Cfr. SKS 16,44 / SC 1,155.

35 SKS 16,45 / SC 1,155.

36 SKS 16,46 / SC 1,157.

37 SKS 16,47-48 / SC 1,159.

38 SKS 16,47 / SC 1,159.

39 Cfr. SKS 11,57-93 / S. KIERKEGAARD, È lecito ad un uomo farsi uccidere per la verità?, trad. it. di C. Fabro, in SC 2,231-261.

40 Cfr. SKS 12,138 / Op. 758 sgg.

41 Cfr. Il punto di vista per la mia attività di scrittore, Sezione Seconda, Capitolo Terzo, sp. SKS 16,56 sgg. / SC 1, 167sgg. Cfr. anche Sulla mia attività di scrittore, SKS 13,18 / AS 45.

con i miei presupposti in direzione del religioso, sì, con la mia decisa religiosità, lo stesso fatto divenne per me al contempo un risveglio religioso in seguito al quale ri-uscii a comprendermi nel modo più decisivo come fatto per la religiosità, a cui mi ero rapportato come a una possibilità”43. Ciò fece sì – continua Kierkegaard − che “cominciassi del tutto contemporaneamente in due posti, ma in modo che l’essere poeta mi era completamente estraneo […], cioè non mi riconoscevo in un senso più profondo nell’essere poeta, ma nel risveglio religioso”44.

Per tutta una fase, dunque, Kierkegaard vive il suo impellente bisogno di scri-vere, di “produrre” come dice lui, con un senso di colpa; non vede l’ora di dare fon-do alla sua vena poetica, per poi esprimere la sua religiosità diventanfon-do pastore in qualche parrocchia di campagna45. In quest’ottica la pseudonimia ha la funzione mo-rale di segnalare l’estraneità che Kierkegaard prova per la sua produzione poetica, la funzione di marcare una presa di distanza da essa.

Così in Una prima e ultima spiegazione, che conclude il Poscritto conclusivo non

scientifico, Kierkegaard, nel mentre assume pubblicamente la paternità del grande

ciclo pseudonimico degli anni 1843-46, può affermare al contempo di considerarsi “autore [di questi scritti] solo in modo molto dubbio e ambiguo, perché sono l’au-tore improprio, mentre sono l’aul’au-tore in senso del tutto proprio e diretto per es. dei

Discorsi edificanti e di ogni parola in essi”46. Autore in senso proprio è l’autore in carne ed ossa che scrivendo assume un punto di vista nel quale si riconosce e per-tanto può rispecchiarsi nella sua opera, allo stesso modo in cui l’individuo moralmente retto si rispecchia nelle proprie azioni.

Autore in carne ed ossa, autore proprio, autore improprio: Kierkegaard – “fou-caultianamente”47– distingue questi e anche altri significati di autore in questa sua prima metacomunicazione diretta (che doveva essere anche l’ultima, giacché egli pen-sava di chiudere la sua attività di scrittore appunto con il Poscritto conclusivo non

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