• Non ci sono risultati.

LA CRITICA DI ŠESTOV A KIERKEGAARD

Nel documento Quaderni di studi kierkegaardiani (pagine 185-200)

di MARCOFORTUNATO

È in qualche misura sorprendente che Šestov, l’importante pensatore russo pas-sato in Francia dopo la rivoluzione bolscevica, sia giunto a occuparsi di Kierkegaard solo nella parte finale della sua vita, pubblicando l’opera in cui si condensa la sua ri-flessione sul grande Danese, Kierkegaard et la philosophie existentielle, nel 1936, due anni prima di morire.

Certo, all’inizio del primo capitolo di quest’opera Šestov, quasi scusandosi, spie-ga il suo “ritardo” richiamandosi a quello con cui l’intera cultura francese “si era ac-corta” di Kierkegaard e solo da poco aveva cominciato a tradurlo1. Non a caso, la storia affascinante e quasi leggendaria dell’avvicinamento di Šestov a Kierkegaard nar-ra che gli fu necessario respinar-rare l’atmosfenar-ra cultunar-rale di un altro gnar-rande Paese eu-ropeo – la Germania – in anticipo sulla Francia nella ricezione e nella valorizzazio-ne del “padre dell’esistenzialismo” per arrivare a scoprirlo e a farvalorizzazio-ne l’oggetto prin-cipale della sua meditazione: per la precisione, decisivo fu l’anno 1928, nel quale Še-stov conobbe ad Amsterdam in occasione di un convegno Husserl, che gli parlò di Kierkegaard, e qualche mese più tardi, trovandosi a Friburgo per tenere una confe-renza su Tolstoj, fu invitato da Husserl a casa sua, dove trovò anche Heidegger e dis-cusse intensamente con lui sulla Existenz-Philosophie ma soprattutto si fece strappare dal padrone di casa la promessa, che avrebbe poi appunto mantenuto, di dedicarsi a uno studio approfondito di Kierkegaard.

Tuttavia, per quanto valida sia l’attenuante da lui addotta, il fatto che Šestov abbia “incontrato” Kierkegaard solo verso il termine della sua parabola umana e fi-losofica non può non destare comunque qualche stupore in chi consideri la crucia-lità delle affinità elettive filosofico-esistenziali esistenti fra loro. In primo luogo, Kierkegaard rientra a pienissimo titolo nel ristretto ed eletto novero delle eccezioni, ovvero dei pensatori assolutamente non professionali e non professionisti, dalla vi-ta apparvi-tavi-ta e inassoggetvi-tabile a qualsiasi duraturo inserimento in una casella dello scacchiere socio-istituzionale, segnata dalla sofferenza psicosomatica di una consu-mante tensione esistenziale e tendenzialmente breve, ma operosa e produttiva fin qua-si al limite del prodigioso; due di loro – Pascal e Nietzsche –, due di questi

ipersen-1 L. ŠESTOV, Kierkegaard e la filosofia esistenziale, a cura di G. Tiengo ed E. Macchetti, trad. it. di E. Macchetti, Milano, Bompiani, 2009, p. 157 (I, Giobbe e Hegel).

sibili e idiosincratici capaci di intuizioni geniali e di analisi finissime sorrette da una scrittura asistematica e aforistica radicalmente ribelle ai canoni dell’ordinaria com-posizione filosofica trattatistico-accademica, Šestov li aveva “adottati” e collocati nel-la primissima finel-la del suo personale Gotha scrivendone con ammirazione e profon-da sim-patia già prima di accostarsi a Kierkegaard2.

Del tutto conseguentemente, ad accomunare Kierkegaard e Šestov è la ri-vendicazione dell’individuo e dell’individuale, del soggettivo e del personale, del-l’autenticamente vivente-esistente, in definitiva del limitato e del piccolo intesi co-me argini alla strapotente, schiacciante invadenza di tutte le inanimate e, per defi-nizione, ir-responsabili figure dell’oggettività e della “omnitudine”, di tutte le im-personali e più o meno gelide astrazioni e “istanze”, dei più vari Moloch sovraindi-viduali completamente insensibili alle aspirazioni e al patire dei singoli, il più sini-stro dei quali, letteralmente coincidente con la Totalità tout court, è la Weltgeschichte tanto cara a Hegel, il corso del mondo, dal quale non si saprebbe dire chi, fra Kier-kegaard e Šestov, sia il più insoddisfatto e nauseato: se per il primo esso è essenzial-mente miseria e peccato, per il suo interprete franco-russo è delirio di un permanente e rovinoso rovesciamento della verità.

Eppure, benché l’accadere/la storia appaia a entrambi una vicenda di sviamento dal bene e dal vero che in ultima analisi meriterebbe indifferenza liquidatoria, è co-munque nell’accadere/nella storia che entrambi ripongono ogni speranza; è pur sempre da un qualche accadimento, preferibilmente inappariscente e marginale in quanto in flagrante controtendenza rispetto al dominante andamento-andazzo del-la cosiddetta grande storia, che si attendono del-la salvezza, l’illuminazione capace di squar-ciare la cappa plumbea della falsa e cattiva realtà che ripete inesorabilmente se stes-sa. Anzi, per la precisione, gli eventi che davvero garantiscono il bene e la salvezza e sui quali converge tutto il pathos celebrante di Kierkegaard e di Šestov sono già accaduti. Kierkegaard “sceglie” il passaggio terreno, la condanna a morte e la pas-sione di Cristo, ovvero quello che Rensi, in uno dei suoi affondi diretti a illustrare l’assurdità della storia come luogo di incredibili sproporzioni fra la banalità delle cau-se e l’enorme portata degli effetti, può definire un oscuro episodio di cronaca giu-diziaria avvenuto in una delle più periferiche e irrilevanti province dell’impero ro-mano3; Šestov invece punta alla massima altezza, all’atto istitutivo stesso della sto-ria/dell’accadere, all’inizio assoluto, ossia alla creazione del mondo da parte di Dio che commenta e benedice ogni ente creato con le parole valde bonum.

La persistente fiducia di Kierkegaard e Šestov nell’accadere, nella storia, nel-l’evenemenziale, è la fiducia del cristiano nella possibilità del colpo di scena, della clamorosa ed epocale rottura di continuità, della vera e grande emozione, in defini-tiva, del divertimento. In pagine mirabili4, Ortega y Gasset scrive che, mentre il gre-2 Nietzsche è uno dei due grandi protagonisti del libro del 1903 La filosofia della

trage-dia. Dostoevskij e Nietzsche; a Pascal, Šestov aveva dedicato il saggio La notte del Gethsemani. La filosofia di Pascal, incluso nel libro del 1929 Sulla bilancia di Giobbe. Peregrinazioni attraverso le anime.

3 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, Milano, Adelphi, 1991, pp. 188-192.

4 J. ORTEGA YGASSET, Appunti sul pensiero. La sua azione teurgica e demiurgica, in ID.,

co precristiano essenzialmente vedeva, l’uomo ebraico-cristiano fondamentalmente

ascolta, attende di ascoltare, è aperto-esposto-proteso all’ascolto. L’uomo della

gran-de civiltà ellenica contemplava dietro di sé la inflessibile e immutabile verità di un generale e originario Piano dell’Essere; visto quello, visto quel passato che non tan-to è accadutan-to quantan-to piuttan-tostan-to sta sempre, aveva vistan-to-saputan-to una volta per tutte tut-to l’essenziale, si era al tempo stesso postut-to al riparo da ogni autentica sorpresa e con-dannato a non potervi più ragionevolmente sperare. L’uomo della civiltà ebraico-cri-stiana, invece, crede di poter essere raggiunto in ogni momento dalla voce, even-tualmente mediata da quella dei profeti, di Dio, ovvero di una Persona che incon-trollabilmente, imprevedibilmente ordina e contrordina, introduce una novitas e poi ne annuncia o, almeno, ne può annunciare un’altra contraddittoria con la precedente. L’uomo ellenico vede-ha visto nel senso del greco οἶδα, cioè sa: è già l’uomo della

scienza, la forma mentis della sua Kultur è già scientifica. L’interesse, anzi l’amor di

Kierkegaard e Šestov per l’accadere/per la storia è il culto ebraico-cristiano dell’im-preventivabile, del non-logicizzabile, dell’in-dimostrabile e in-deducibile: non a ca-so Kierkegaard afferma che è la fede e non la conoscenza ad avere il senca-so del dive-nire storico, che nell’essere accaduto di qualcosa o di qualcuno si può solo decide-re di cdecide-rededecide-re, senza mai poterne avedecide-re scienza5. Con la sia pur influentissima ecce-zione della linea che va dalla patristica e da Origene all’Aquinate, i quali hanno la-vorato al tentativo di conciliare la Scrittura con Aristotele/Gerusalemme con Atene e appunto per questo attirano la massima disapprovazione da parte di Šestov6, la

for-ma mentis espressa dalla tradizione ebraico-cristiana è tendenzialmente

ascientifica-antiscientifica.

È infatti sotto le insegne di questo programma – ricusazione della scienza-del sapere-della ragione e opzione per la fede – che Kierkegaard e Šestov si ritrovano e lottano fianco a fianco, punte di diamante quali sono del cristianesimo che non gio-ca al tavolo della ragione ma lo rovescia e si sposta su quello della passione, della spe-ranza, del desiderio, diciamo pure del sogno. E tuttavia è proprio il grado di fedel-tà di Kierkegaard autore e uomo a quel comune programma che non soddisfa pie-namente il suo pur ammirato interprete Šestov, il quale gli rivolge una critica il cui nucleo è presto detto: Kierkegaard non è sufficientemente irrazionalista-antirazio-nalista e non ha abbastanza fede/Kierkegaard non si sbarazza fino in fondo del re-taggio e dei condizionamenti della ragione e non crede veramente, incondizionata-mente, totalmente.

Il grande μῦθος filosofico di Šestov: protesta e sogno

Per comprendere come e perché Šestov possa legittimamente ritenere di es-sere andato oltre Kierkegaard in fatto di reazione alla ragione e di abbandono alla

fe-5 S. KIERKEGAARD, Briciole filosofiche, a cura di S. Spera, Brescia, Queriniana, 1987, pp. 142-154.

6 L. ŠESTOV, Kierkegaard e la filosofia esistenziale, cit., pp. 607-609 (XIX, La libertà), 659 (XXI, Il mistero della redenzione).

de, occorre ricostruire i tratti fondamentali del grande, fascinoso μῦθος con cui let-teralmente s’identifica la sua filosofia. Quello di Šestov è un μῦθος sia nel senso di racconto, in quanto si propone come fedele alla narrazione di alcune storie-chiave offerta dalla Bibbia, sia proprio nel senso di favola perché, forte di uno stile altamente raffinato e insieme splendidamente nitido la cui suadente efficacia è rilevata da Isaiah Berlin quando dice che tutte le persone da lui indotte a leggere un libro di Še-stov ne restano puntualmente conquistate fino a non riuscire più a staccarsene, pre-senta una versione della storia del mondo e una diagnosi della condizione dell’uo-mo così audacemente controfattuali, così irrispettose delle costanti testidell’uo-monianze non solo della ragione ma anche dell’esperienza, da assumere i contorni di un libero eser-cizio di fantasia.

Come ogni cristiano e l’attuale fisica teorica, ma diversamente dall’asse Spi-noza-Leopardi-Nietzsche secondo cui il mondo non ha mai avuto inizio né avrà mai fine, Šestov crede che esista un inizio del mondo, una sua suprema de-cisione/di-stac-co dal nulla; e tale inizio è quello voluto e attuato da Dio de-cisione/di-stac-con la creazione, de-cisione/di-stac-così de-cisione/di-stac- co-me risulta dal racconto del Genesi e dall’interpretazione che ne dà Šestov. Esso è

val-de cioè assolutamente e perfettamente bonum; è puro paradiso, è il regno val-della

feli-cità e della libertà illimitate7. Né potrebbe essere altrimenti perché il Dio che trae il mondo dal nulla è una Mente non complicata-attristata da conoscenze, e meno che mai dalla conoscenza della differenza fra il bene e il male, della quale non sa e non può sapere nulla per il semplice motivo che il male non esiste8; di qualunque ente creato si può dire solo che c’è, e questo “c’è” equivale senz’altro a “è buono e risplende nella sua perfectio”. L’inizio è lo stadio che sta al di qua di una qualsiasi domanda, investigazione e richiesta di spiegazione9; Šestov sa, non meno bene di come mostra di saperlo Nietzsche10, che praticare la distinzione fra bene e male, fra senso e non-senso e sottoporre la realtà alla domanda se essa si collochi dalla parte della positi-vità o da quella della negatipositi-vità vuole dire dubitare già del suo valore e della sua sa-nità-santità, anzi essere già abitati dall’amarezza e dalla rabbia di chi ha emesso un giudizio sfavorevole su di essa.

La Mente che non sa, il Dio che, lungi dall’essere onnisciente, è radiosamen-te in-scienradiosamen-te, è al radiosamen-tempo sradiosamen-tesso un monstrum inarrivabile di Poradiosamen-tenza11, detiene cioè in pieno l’attributo dell’onnipotenza classicamente riferito a Dio. È infatti padrone di una libertà illimitata, la quale, in barba a chi come Kant si sforza di persuadere che sia fortuna e dignità dell’uomo disporre di una libertà limitata, a Šestov appare del tutto giustamente la (sola vera) libertà; ed essere padrone di una libertà illimi-tata significa molto semplicemente potere fare assolutamente tutto ciò che si vuole,

7 Ivi, pp. 111-113 (A guisa di introduzione. Kierkegaard e Dostoevskij, I).

8 Ivi, pp. 329 (VIII, Il genio e il destino), 597 (XIX, La libertà).

9 Ivi, p. 351 (IX, La conoscenza come caduta).

10 Cfr. F. NIETZSCHE, La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, Milano, Adelphi, 1979, pp. 228-229 (Libro quinto, af. 357, Per il vecchio problema: «Che cos’è tedesco?»), dove la formulazione, attribuita a Schopenhauer, della domanda circa il valore/il senso dell’esistenza viene equiparata tout

court a una professione di pessimismo.

tutto e il contrario di tutto, senza dovere rendere conto a niente e a nessuno, senza dovere servilmente sottostare a un qualunque controllo di legittimità e di logicità del proprio operare.

Ma ciò che è decisivo e in certo modo sconvolgente nella immagine che Še-stov ci offre dell’inizio è che l’uomo, Adamo, si trova quasi nelle stesse condizioni di Dio; del resto, appunto per questo l’inizio è vero paradiso che nessunissima om-bra vela. L’uomo all’inizio, cioè prima della caduta del peccato originale, è leggerezza di una pura, serenissima innocenza e ignoranza, e Dio lascia che condivida con Lui la Sua libertà che è facoltà di “frequentare” ogni possibilità e immunità da qualsia-si anche minima precluqualsia-sione12; la sua relazione con Dio è talmente armonica e inti-ma da sfiorare la fusione, da essere quasi identificazione e quindi, in definitiva, non-relazione. Quest’uomo non ha davvero nulla di cui lamentarsi: non gli potrebbe nem-meno passare per la testa di lagnarsi di godere sì del pieno ben-essere, ma pur sem-pre sotto la fastidiosa tutela di un Altro-di un Signore che sta in una posizione in-giustificata di superiorità padronale, perché, pur essendo indubbiamente un indivi-duo a sé stante, si trova tanto vicino a Dio che si sente a malapena distinto da Lui, almeno in quanto a Lui lo accomuna il dono di potere senza restrizione alcuna.

Perché l’uomo dell’inizio, che aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare, potesse deviare dalla splendida via su cui era stato collocato, occorreva che su di lui calasse l’intervento di un agente malefico dalla forza soprannaturale, capace in quanto tale di indurre in lui, come Šestov scrive riprendendo delle parole di Pascal, un enchantement et assoupissement surnaturels13: questo agente malefico è il serpente del racconto biblico.

Šestov non ha un atteggiamento colpevolizzante o anche solo critico né ver-so Adamo, né verver-so Dio, né tantomeno verver-so Eva, che non nomina neppure. Il qua-dro che disegna è rigorosamente paradisiaco: l’uomo, come ogni ente uscito dalle ma-ni del Dio creatore, ha una digma-nità totale e non c’è obiezione né sospetto che possa appuntarsi su di lui, tantomeno quello che, assaggiando il frutto dell’albero della co-noscenza del bene e del male, abbia dato sfogo a una velleità di insubordinazione nei confronti di Dio, anche perché Dio non è affatto l’autoritario, dispotico maestrino che gli ha proibito quel frutto per mettere alla prova la sua ubbidienza, già pre-ve-dendo che non la supererà, e per poter avere poi il piacere di condannarlo, ma è la guida buona che lo mette semplicemente in guardia da un gravissimo pericolo dal cui mancato evitamento deriverebbero per lui conseguenze tremende14.

Tutt’al più, Šestov insinua che l’uomo anteriore alla caduta (in quanto piena-mente solidale con l’uomo, Šestov parla di caduta decisapiena-mente più volentieri che di

peccato originale) fosse già in qualche misura sconcertato-preoccupato dalla libertà

assoluta, dall’arbitrio di Dio cui l’uomo decaduto guarderà poi con vera e propria

12 Ivi, pp. 305, 307 (VII, L’angoscia e il nulla), 353 (IX, La conoscenza come caduta), 685

(XXII, Conclusione).

13 Ivi, p. 643 (XXI, Il mistero della redenzione).

14 ID., Sulla bilancia di Giobbe. Peregrinazioni attraverso le anime, trad. it. di A. Pescet-to, Milano, Adelphi, 1991, p. 301 (Parte seconda, Audacie e sottomissioni, 49, Sola fide).

paura e avversione15fino a confezionare tutta una serie di teorie – fra cui ad esem-pio quella che attribuisce a Dio una potentia non absoluta ma solo ordinata – intese a negare e, se così si può dire, a evitare-proibire che Dio ne disponga. Si badi che Šestov non adombra affatto la possibilità che Adamo provasse un filo di invidia ag-gressiva per Dio a causa dell’impressionante dimostrazione di forza che Dio dà in quan-to possiede e manifesta una libertà illimitata: Adamo non poteva covare invidia per Dio, non foss’altro perché di quella stessa libertà senza limiti godeva anche lui. Più semplicemente, Šestov non esclude che ad Adamo possa avere suscitato ansia un as-setto del mondo in cui, assolutamente tutto essendo possibile, non esisteva alcuna

sicurezza sia pure negativa/l’accadere non offriva la tranquillizzazione che sarebbe

stata garantita dalla certezza del suo incanalarsi in una qualche prevedibile linea di svolgimento, foss’anche infausta.

A ben vedere, infatti, se l’accadere come noi lo conosciamo e viviamo dal prin-cipio alla fine delle nostre esistenze risulta da un ambiguo impasto di variazione e di invarianza, di divenire e di permanenza-ritorno di determinate costanti, ognuno di questi due “ingredienti” secerne una fortuna e una dis-grazia per l’uomo.

Il divenire è, per un verso, travolgente e irridente girandola che fa della vita dell’uomo un’ininterrotta perdita, un non potere trattener nulla, un continuo, ma-linconicissimo doversi congedare per sempre dall’attimo appena vissuto che si finalizza nella morte; ma, per altro verso, ci salvaguarda dal fissarci sul-nel pensiero-ricordo di dolori che, se “ascoltati e soppesati” davvero fino in fondo e ininterrottamente più a lungo che per un certo lasso di tempo, ci distruggerebbero, così come esclude la possibilità che restiamo bloccati e, per così dire, pietrificati in qualche scena del no-stro vissuto che, per quanto gioiosa e appagante possa essere, degenererebbe in fon-te di atroce noia qualora si protraesse e dilatasse indefinitamenfon-te, come per effetto di un sinistro, esasperante ralenti.

Quanto ai fattori d’invarianza intrecciati al perpetuo divenire, essi, per un ver-so, rinserrano l’accadere nella cornice di una regolarità che è monotonia dell’esclu-sione di ogni vera, grande sorpresa. È quella tremenda regolarità-ripetitività contro cui dirige la sua protesta il protagonista di Stalker di Tarkovskij chiamato lo Scrit-tore quando esprime la sua invidia per l’umanità del Medioevo che, proprio in quanto più giovane e meno lontana dall’inizio, poteva credere e vivere l’accadere co-me ben più flessibile, “pieghevole” e apportatore di stupore di quel che realco-mente sia; all’interlocutrice che, sentendolo esprimere sconforto per la loro appartenenza a un’umanità più “matura” per la quale non hanno più credibilità e quindi non esi-stono più fenomeni fascinosamente spiazzanti perché scientificamente inspiegabili come la telepatia, gli obietta che resta almeno il mistero del triangolo delle Bermu-de, lo Scrittore ribatte con amaro sarcasmo che in verità esistono solo infiniti trian-goli ABC tutti inesorabilmente uguali fra loro. Ma, per altro verso, gli elementi d’invarianza dell’accadere, fra i quali naturalmente rientra anche quello affliggente

15 ID., Kierkegaard e la filosofia esistenziale, cit., pp. 133 (A guisa di introduzione.

Kier-kegaard e Dostoevskij, II), 151, 153 (A guisa di introduzione. KierKier-kegaard e Dostoevskij, III), 655

per cui assolutamente tutti gli enti prima o poi vanno a fondo-muoiono-vengono an-nientati, consentono all’uomo di non brancolare nel buio di continui imprevisti ma di orizzontarsi nel mondo, anzi, in quanto possono essere registrati e codificati in leg-gi dalla scienza, addirittura di controllarlo e di “gestirlo” così efficacemente da ar-rivare quasi a dominarlo, o almeno a credere di poterlo dominare.

Insomma, nel mondo esposto a qualsiasi impronosticabile svolta evenemen-ziale dalla libertà illimitata di Dio e anche sua, Adamo può avere avvertito in sé un primo accenno di quella che nell’umanità postadamitica diverrà un’enorme voglia di rassicurante ancoraggio a immutabili certezze, la voglia da cui essa pare a Šestov talmente dominata da spingerlo a scrivere che l’uomo è ormai nemico giurato di qua-lunque cambiamento, perfino di quelli in meglio16.

In ogni caso, se Adamo è giunto all’insania di abdicare alla felicità della sua ignoranza e della sua libertà assoluta, ciò è potuto avvenire solo a seguito della ne-fasta e potentissima seduzione esercitata su di lui dal serpente. Šestov reputa un gra-ve errore la tendenza di moltissimi studiosi e interpreti del Genesi a trascurare o per-fino ignorare il serpente, trattandolo come poco più di un ingenua e irrilevante no-ta di colore della narrazione. Il serpente, che promette ad Adamo che diverrà

Nel documento Quaderni di studi kierkegaardiani (pagine 185-200)