LA DISCREZIONALITÀ NELL’ESERCIZIO DEL POTERE
2. Il difficile rapporto tra la discrezionalità amministrativa ed il controllo dell’organo giurisdizionale: profili storici e interpretat
riportati attraverso due decisioni emblematiche (CdS n. 3/1993 e T.A.R. Lazio n. 21/1984)
È appena il caso di ricordare la distinzione tra attività vincolata e discrezionale della Pubblica Amministrazione: nell’un caso all’amministrazione, preposta alla tutela di uno specifico interesse pubblico, non residua alcun margine valutativo in quanto l’iter decisionale che deve seguire è interamente definito dal legislatore, nell’altro caso, viceversa, l’amministrazione ha invece la possibilità di svolgere un’attività valutativa necessaria per individuare la migliore direzione per tutelare lo specifico interesse.
Da questa breve distinzione è ben comprensibile come, mentre l’esercizio dell’attività vincolata è facilmente valutabile in base ai criteri di legittimità, maggiori problemi suscita la stima dell’esercizio dell’attività discrezionale, non tanto per i profili di legittimità del provvedimento, quanto piuttosto per la parte relativa al merito, in quanto ammettere un controllo generalizzato significherebbe violare la sfera di intangibilità di cui gode il potere amministrativo rispetto al potere giurisdizionale, intangibilità che trova il suo fondamento in un principio importantissimo, quello democratico: essendo i soggetti della Pubblica Amministrazione eletti dalla popolazione, l’attività dei governanti, orientata quindi al soddisfacimento dei pubblici interessi, è espressione della volontà dei cittadini e per tale motivo (e non per una sorta di echi di assolutismi o simili) intaccabile.
Questo è il problema che dottrina e giurisprudenza si pongono da diversi anni: quale sia il margine di valutabilità ammissibile per il giudice e quale, invece, il limite oltre il quale tale controllo sia inammissibile.
È una valutazione tutt’altro che agevole essendo mutata nel tempo, contestualmente al mutare della concezione di Pubblica Amministrazione; oggi, imperando i principi di imparzialità e trasparenza, si ritiene che il giudice possa intervenire solo qualora l’attività amministrativa sia stata sproporzionata rispetto all’esigenza che era stata preposta: l’interesse pubblico, per il quale era stato conferito il potere, poteva essere perseguito anche attraverso modalità differenti e meno oppressive per i destinatari degli effetti. È appena il caso di specificare che tra i tre vizi da cui può essere affetto il provvedimento amministrativo (violazione di legge, incompetenza e eccesso di potere), l’unico che si presta a sanzionare l’amministratore che abbia ecceduto il suddetto limite della proporzionalità è, com’è ovvio, l’eccesso di potere: quest’ultima ipotesi, infatti, tra le varie figure sintomatiche annovera anche quella della sproporzione rispetto ai fini.
Si possono menzionare due decisioni storicamente molto importanti, emblematiche della ricostruzione appena fatta circa il difficile rapporto tra “controllore e controllato”: sono due casi che riguardano due provvedimenti simili relativi alla limitazione del traffico nel centro città, ma che hanno avuto soluzioni differenti circa la loro sindacabilità da parte dell’organo giurisdizionale.
2.1 Decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 1993 e sentenza del T.A.R. del Lazio n. 21 del 1984
Il primo caso è quello della decisione n. 3 del 1993 del Consiglio di Stato in Adunanza plenaria, che esemplifica in modo chiaro il discorso relativo alla insindacabilità, infatti nello specifico il giudice interrompe la propria valutazione, proprio per non entrare nella sfera, insindacabile, del merito della scelta operata dall’amministrazione procedente.
Brevemente, la vicenda era relativa ad una controversia tra Codacons, rappresentante degli interessi degli abitanti del centro della città di Roma, e il Comune di Roma; il primo soggetto impugnò una delibera comunale, con la quale era stata apportata una limitazione del traffico nelle zone centrali della città, con l’istituzione di zone e isole pedonali, e simili; il ricorso, avente ad oggetto tale delibera, fu presentato al T.A.R. Lazio non tanto per le limitazioni che apportava, ritenute positive e opportune come scelte, bensì a causa delle numerose deroghe che al suo interno erano previste, ritenute viceversa negative in quanto avrebbero vanificato gli effetti positivi della decisione.
Il Tribunale Amministrativo Regionale accolse tale ricorso parzialmente e tale decisione fu, a sua volta, oggetto di ricorso da parte dell’Ente comunale al Consiglio di Stato, il quale decise di deferire la decisione all’Adunanza Plenaria. Quest’ultima “ribalta” la decisione iniziale, accogliendo il ricorso del Comune di Roma, poiché – si legge – la scelta di opporre dei limiti alla circolazione è senz’altro ragionevole, così come lo è quella di prevedere una serie di eccezioni o deroghe, risultanti compatibili con tutta la complessità della serie di interessi pubblici in gioco; in altre parole le scelte di per sé sono ragionevoli e anche il fine è stato, comparando i vari interessi coinvolti, raggiunto efficacemente, dunque non vi è alcun vizio relativo alla legittimità dell’atto e il resto, rientrando nella sfera del merito delle scelte operate dall’Ente, è insindacabile da parte del giudice amministrativo.
Il secondo caso, invece, riguarda la sentenza n. 21/1984 del T.A.R. Lazio che, al contrario del caso precedente, annulla un provvedimento amministrativo in quanto il vizio lamentato dal ricorrente non attiene il merito, bensì la legittimità delle scelte risultate irragionevoli, e quindi lecitamente sindacabile da parte del Tribunale amministrativo.
Anche in questo caso in modo sintetico si espone la vicenda: il ricorso venne presentato al T.A.R. Lazio da un’associazione di commercianti avverso una delibera del Comune di Roma che istituiva un’isola pedonale in una zona centralissima della città. I ricorrenti lamentavano prima di tutto la lesione al proprio interesse al profitto, in quanto limitata la circolazione nella zona di propria competenza si sarebbe potuto ridurre il loro volume di affari e, in secondo luogo, anche l’irragionevolezza stessa del provvedimento, in quanto avrebbe finito per aumentare eccessivamente il traffico nelle zone limitrofe. Il T.A.R., dunque, accoglie il ricorso annullando il provvedimento pur riconoscendo espressamente che si trattasse di un’ipotesi di discrezionalità amministrativa, dichiarando di ritenere opportune le motivazioni addotte dal ricorrente, poiché l’Ente non avrebbe effettuato un’opportuna istruttoria relativa agli “effetti collaterali” che la decisione avrebbe portati agli altri interessi in gioco. In altre parole, il giudice amministrativo può, in tal caso, sindacare la decisione dell’amministrazione procedente nonostante che rientri nell’esercizio discrezionale del suo potere, in quanto non va a sconfinare nella sfera del merito delle sue scelte, bensì in quella della legittimità (perfettamente sindacabile), ritenendo infatti che non sia stato rispettato il vincolo della ragionevolezza, avendo mal comparato tutti gli interessi in gioco.
2.2 Conclusioni
I due casi riportati sono emblematici, in quanto dimostrano come il giudice si muova sempre entro i limiti dei vizi di legittimità, cercando di evitare di sconfinare in una sfera che non gli è possibile sindacare, quella del merito: nel primo caso accoglie il ricorso del Comune avverso la decisione del T.A.R., in quanto quest’ultimo, accogliendo il ricorso del Codacons, è entrato nel merito della decisione presa dall’Ente comunale; la scelta risulta di per sé ragionevole
e il poter porre obblighi, limitazioni o deroghe è fatto pacifico e ragionevole, che rientra nella sfera del merito e, di conseguenza, insindacabile.
Nel secondo caso, viceversa, il T.A.R. accoglie il ricorso dei commercianti, annullando il provvedimento del Comune, in quanto la scelta operata dall’Ente è risultata irragionevole alla luce della necessaria comparazione dei vari interessi in gioco; dunque, non si entra nel merito, bensì il vizio attiene alla legittimità dell’atto, intaccata perché violato il vincolo di ragionevolezza, che vincola sempre l’amministrazione anche in un procedimento di tipo discrezionale.
3. L’eccesso di potere giurisdizionale: sviluppo storico della sua