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L'eccesso di potere ai confini del sindacato di merito degli atti amministrativi.

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Academic year: 2021

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Introduzione

Con la stesura di questa tesi si è voluto approfondire, per quanto possibile, il tema dell’eccesso di potere in una sua configurazione specifica: quella dell’eccesso di potere giurisdizionale, e precisamente per sconfinamento nel merito.

Prima di tutto si è studiata, in modo abbastanza rapido, l’evoluzione storica del vizio in esame, partendo dalla Francia post rivoluzionaria per arrivare a notare l’influenza che il nostro Paese, nella ricostruzione del concetto, ha subito; in un secondo momento ci si è calati maggiormente nel diritto amministrativo dedicandosi, quindi, all’invalidità amministrativa, essendo questo l’ambito in cui si colloca l’eccesso di potere come vizio di legittimità degli atti amministrativi e poi la discrezionalità amministrativa, essendo l’eccesso di potere un vizio che può porsi in essere nel caso dell’esercizio discrezionale del potere amministrativo.

A questo punto lo studio ha approfondito ancora maggiormente quello che è l’oggetto specifico della tesi, iniziando prima a definire in termini generali il concetto di merito amministrativo, sempre legato all’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione, per poi concentrarsi sulla specificità dell’eccesso di potere giurisdizionale, quindi quello che riguarda l’attività di un giudice che, nel sindacare un provvedimento amministrativo, vizia in tal modo il suo operato; in particolare l’eccesso di potere per sconfinamento, cioè il non essersi limitato al solo sindacato di legittimità (unico possibile, essendo tassativi i casi di giurisdizione estesa al merito) ma aver travalicato tali confini, operando valutazioni di merito.

Per fare questo sono state messe a confronto più sentenze della Corte di Cassazione che si occupano di tale questione, per trovare un “filo di Arianna” e, quindi, un orientamento univoco della giurisprudenza in tale tema.

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INDICE

1. ORIGINE ED EVOLUZIONE DEL VIZIO

1. La prima giurisprudenza francese: dall’eccesso di potere giudiziario all’eccesso di potere amministrativo

2. In Italia: prima e dopo l’Unità 2.1 Prima dell’Unità d’Italia 2.2 Dopo l’Unità d’Italia

2.2.1 La legge 2248/1865 2.2.2 La legge 3761/1877

3. La riforma Crispi del 1889 e la sentenza 3 del 1892

4. La prima giurisprudenza del Consiglio di Stato e le teorie classiche della dottrina

4.1 Motivazione del provvedimento amministrativo

4.1.1 Le figure sintomatiche

4.2 Le teorie classiche dell’eccesso di potere

4.2.1 La teoria del vizio della causa 4.2.2 la teoria del vizio della volontà 4.2.3 La teoria del vizio dei motivi

4.2.4 Eccesso di potere come vizio della funzione

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2. L’ INVALIDITA’ AMMINISTRATIVA

SEZIONE PRIMA: PATOLOGIA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO

1. L’invalidità amministrativa: profili teorici 1.1 Invalidità totale e parziale

1.2 Irregolarità degli atti amministrativi

2. Nullità e annullabilità del provvedimento amministrativo: artt. 21-septies e 21-octies della legge sul procedimento amministrativo

2.1 Nullità

2.1.1 Nullità e inesistenza

2.1.2 Cause di nullità del provvedimento: art. 21-septies 2.1.3 Conclusioni

2.2 L’annullabilità del provvedimento amministrativo

2.2.1 Cause di annullabilità del provvedimento: art. 21 octies 1º comma 2.2.2 Limiti all’annullabilità del provvedimento amministrativo: il secondo comma dell’art. 21 octies

3. Invalidità e diritto penale (cenni) 3.1 Il controllo del giudice penale

3.1.1 Giudice penale e merito amministrativo

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SEZIONE SECONDA: L’ECCESSO DI POTERE

1. Premessa 2. Definizione

3. Casistica dell’eccesso di potere: sviamento, figure sintomatiche e contrasto con principi di natura sostanziale

3.1 Sviamento di potere 3.2 Le figure sintomatiche

3.2.1 Difetto e carenza di motivazione

3.3 Contrasto con principi di natura sostanziale

3.3.1 L’ingiustizia manifesta

3. LA DISCREZIONALITA’ NELL’ESERCIZIO DEL POTERE

1. Premessa

2. Breve ricostruzione storica

3 . La discrezionalità amministrativa: definizione e principi

3.1 Dalla definizione tradizionale a quella odierna alla luce della legge 241/1990

3.2 Vincolo del fine e principio di ragionevolezza

3.2.1 Vincolo del fine

3.2.2 La valutazione e comparazione degli interessi in gioco: il principio di ragionevolezza

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3.3 Principio di imparzialità

3.4 Discrezionalità in senso dinamico: l’importanza della motivazione del provvedimento amministrativo

4. Poteri amministrativi non discrezionali

5. La discrezionalità tecnica: dibattito dottrinale relativo alla definizione della nozione

6. La discrezionalità c.d. “mista”

4. DISCREZIONALITA’ E MERITO: I LIMITI DEL CONTROLLO GIURISDIZIONALE E L’ECCESSO DI POTERE PER SCONFINAMENTO

1. Discrezionalità e merito: definizione del concetto nel diritto amministrativo 2. Il difficile rapporto tra la discrezionalità amministrativa ed il controllo dell’organo giurisdizionale: profili storici e interpretativi riportati attraverso due decisioni emblematiche (CdS n. 3/1993 e T.A.R. Lazio n. 21/1984)

2.1 Decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 1993 e sentenza del T.A.R. del Lazio n. 21 del 1984

2.2 Conclusioni

3. L’eccesso di potere giurisdizionale: sviluppo storico della sua definizione 4. L’eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito: sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 2312/2012

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5. Prove concorsuali: labile confine tra valutazioni di legittimità e strettamente di merito nell’analisi dei motivi di un provvedimento amministrativo. Sentenze della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 3622/2012 e n. 8412/2012

5.1 Sentenza Cass., S.U., 08 marzo 2012, n. 3622 5.2 Sentenza Cass., S.U., 28 maggio 2012, n. 8412 5.3 Conclusioni

6. Profili problematici (cenni)

5. CONCLUSIONI

6. BIBLIOGRAFIA

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CAPITOLO

I

ORIGINE

ED

EVOLUZIONE

DEL

VIZIO

SOMMARIO: 1. – La prima giurisprudenza francese: dall’eccesso di potere giudiziario all’eccesso di potere amministrativo. 2. – In Italia: prima e dopo l’Unità. 3. – La riforma Crispi del 1889 e la sentenza 3 del 1892. 4. – La prima giurisprudenza del Consiglio di Stato e le teorie classiche della dottrina. 5. – La giurisprudenza dei primi anni ’50

1. La prima giurisprudenza francese: dall’eccesso di potere giudiziario all’eccesso di potere amministrativo

L’espressione “eccesso di potere” si delineò in Francia (excés de pouvoir) già con la legge costituzionale del 1791; la previsione di tale vizio possiamo considerarla come una delle prime applicazioni concrete del principio montesquieuano della separazione dei poteri. Tale principio, tra i principali effetti, ha quello di inserire la pubblica amministrazione nel potere esecutivo e la preoccupazione dell’assemblea nazionale francese, nel prevedere il vizio dell’excès de pouvoir, fu quella di voler limitare l’intervento del potere giudiziario nel campo riservato alla pubblica amministrazione: in particolare se ne parlò, nel periodo successivo alla rivoluzione, in alcune sentenze della Corte di cassazione francese a proposito di atti dell’autorità giudiziaria usurpatori del campo d’applicazione degli altri due poteri dello Stato. L’espressione ben presto venne utilizzata all’interno del potere giudiziario nei rapporti tra giudici, indicando perciò i casi in cui un’autorità giudiziaria invadesse la sfera

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di una diversa o superiore autorità giudiziaria, oppure si pronunciasse senza osservare le regole giuridiche circa la correttezza dei giudizi.1

In questa fase, che ricopre fino alla prima metà dell’ottocento, contemporaneamente all’individuazione del vizio ci si preoccupò di tracciare una procedura giudiziaria che consentisse di rimuovere gli atti giudiziari intaccati da tale vizio: il primo rimedio fu, ad esempio, previsto all’art. 27 della Costituzione del 17912 e, successive a questa norma, ve ne furono molte

altre (a sottolineare la gravità della violazione del principio della divisione dei poteri).

In un primo momento, dunque, la formula indicava lo straripamento del potere giudiziario ai danni del potere esecutivo o legislativo; le fila dello sviluppo del vizio sono state tirate dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato francese, che ben presto intese ampliare il proprio sindacato aumentando perciò anche l’ambito di applicazione della nozione. Da qui il concetto di eccesso di potere acquisì il carattere della reciprocità con gli altri due poteri costituzionali: accanto alla nozione di eccesso di potere giudiziario, si affiancarono quella di eccesso di potere legislativo e di eccesso di potere esecutivo; indicava l’esorbitare dei propri limiti di uno dei tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) e ogni interferenza nella sfera potestativa altrui.

La giurisprudenza del Conseil d’État dopo pochi anni cominciò ad adottare il vizio all’interno dell’amministrazione, annullando gli atti che violassero le regole della competenza, nonostante che la legge del 1790 stabilisse che i

1 GASPARRI P., ‹‹Eccesso di potere (diritto amministrativo)››, in Enc. Dir., XIV, Varese, 1965, pag.

124.

2 «che disponeva che il Ministro della Giustizia dovesse denunciare al Tribunale di Cassazione,

attraverso il commissario regio, e senza pregiudizio delle parti interessate, tutti gli atti, non solo processuali dai quali apparisse chiaro che i giudici avessero ecceduto i propri poteri». DE CESARE G.,

‹‹L’eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di Stato››, in Problematica dell’eccesso di potere

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ricorsi per incompetenza dovessero essere portati davanti al re e non potessero essere oggetto di cognizione giudiziaria; quindi, a questo punto, per eccesso di potere non si intende più solo lo straripamento ma anche l’incompetenza all’interno dell’amministrazione.

Cominciò poi ad applicarlo anche agli atti effetti da vizi di forma, arrivando infatti a sostenere che fosse necessaria una riforma per individuare un nuovo mezzo di ricorso per eccesso di potere: la riforma, in effetti, arrivò con il decreto del 2 novembre del 1864, che facilitò la possibilità di ricorrere al Consiglio di Stato.

A seguito di tale riforma, il giudice incorporò nell’eccesso di potere anche il vecchio ricorso contenzioso di annullamento, che riguardava ogni forma di illegalità, aggiungendo quindi anche la violazione di legge alle varie specie di eccesso di potere che ormai stavano prendendo forma.

La giurisprudenza andò ancora più oltre, sottoponendo gli atti amministrativi ad un controllo particolare di legalità: tenendo presente che la violazione di legge rientrava nel concetto di eccesso di potere, giunse a sostenere che gli atti discrezionali della pubblica amministrazione potessero essere annullati tutte le volte che fossero stati adottati contrariamente al fine voluto dalla legge3; il potere amministrativo era stato sviato dalla sua vera destinazione e la

pubblica amministrazione avrebbe commesso questa particolare specie di eccesso di potere, il detournement de pouvoir (sviamento di potere). Il fine era quello, oltre che di estendere quanto più possibile il proprio sindacato, anche di offrire una tutela reale ai cittadini contro l’esercizio discrezionale del potere da parte della pubblica amministrazione e, infatti, questa nuova specie produsse una vasta serie di casi che hanno tutti in comune il fatto che

3 DE CESARE G., ‹‹L’eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di Stato››, in Problematica

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l’autorità abbia usato il potere per uno scopo diverso da quello delineato dal legislatore nell’attribuirle tale potere.

Alla fine di questa carrellata storica circa la giurisprudenza francese, possiamo arrivare a sostenere come dall’eccesso di potere giudiziario post rivoluzionario siamo arrivati, a fine secolo, all’eccesso di potere amministrativo, che può vantare quattro specie: incompetenza, vizi di forma, violazione di legge e, infine, lo sviamento di potere (detournement de pouvoir) che è ultimo cronologicamente parlando, ma sicuramente il più importante dal punto di vista dell’evoluzione del vizio nell’ambito del nostro ordinamento.

2. In Italia: prima e dopo l’Unità

Nell’ordinamento giuridico italiano questa figura viene importata da quello francese; a questo proposito, con riguardo all’applicazione dell’eccesso di potere, in Italia si possono individuare due periodi: il primo relativo agli Stati preunitari più evoluti dal punto di vista giuridico e il secondo che inizia con l’unificazione dell’Italia (1861).

2.1 Prima dell’unità d’Italia

Negli Stati preunitari la prima menzione la troviamo in due leggi del Regno delle due Sicilie del 1817 e del 1819, come nel Regno di Sardegna nel regio decreto n. 638/1847 istituente l’ufficio di magistrato di Cassazione di Torino, nel quale in senso generico si afferma che questo vizio si verificherebbe tutte le volte in cui il giudice avesse ecceduto i propri poteri operando senza giurisdizione o invadendo la giurisdizione altrui4, così come nel codice di

4 DE CESARE G., ‹‹L’eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di Stato››, in Problematica

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procedura civile del 1859 in un modo un po’ più preciso, ma sempre riguardante il potere giurisdizionale.

In queste leggi notiamo che, così come in Francia nel periodo post rivoluzionario, anche nel nostro territorio il vizio di eccesso di potere si delineò con esclusivo riferimento all’autorità giurisdizionale; infatti fu recepito nel suo aspetto pratico più che teorico, cioè per essere utilizzato come strumento processuale per sindacare le sentenze di giudici speciali e non tanto come attuazione del principio della separazione dei poteri. Quindi, anche in quest’ambito, la prima nozione di eccesso di potere è quella di straripamento.

In ogni caso, almeno fino al 1850, l’eccesso di potere trovò scarsa applicazione pratica: se ne comincia a trovare traccia in alcune cause del Regno di Sardegna posteriori allo Statuto Albertino (1848); se andiamo, infatti, a vedere i casi pratici di questo periodo, notiamo come si parli di giudici che usurpano le attribuzioni di altri poteri legalmente costituiti5; quindi

in questo primo periodo l’eccesso di potere equivale allo straripamento di potere compiuto ai danni degli organi legislativo ed esecutivo da parte del potere giurisdizionale: eccesso di potere giudiziario.

2.2 Dopo l’unità d’Italia

Questo periodo post unitario, che convenzionalmente facciamo concludere nel 1889, anno della riforma Crispi, si caratterizza per una diminuzione quantitativa di decisioni relative all’eccesso di potere rispetto alla

5Vedi casi menzionati in DE CESARE G., ‹‹L’eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di

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giurisprudenza del periodo preunitario del Regno Sardo e, allo stesso tempo, si caratterizza anche per un’evoluzione del concetto di eccesso di potere: dal senso giudiziario si passa all’idea di un eccesso di potere amministrativo. Infatti appartiene proprio a questi anni una decisione della Corte d’Appello di Lucca del 22 luglio 1876, la quale risulta essere una delle prime sentenze in cui si ammette l’esistenza di un eccesso di potere amministrativo ai danni di privati cittadini.6

La figura comincia ad apparire anche nei primi testi legislativi post unitari: all’art. 640 del codice di procedura civile varato con R.D. 26 novembre 1865, che si limitava a riprodurre quello del 1859, prevedendo perciò la possibilità di ricorrere in Cassazione in caso di eccesso di potere; nel successivo codice di procedura civile, approvato con R.D. del 25 giugno dello stesso anno, il quale invece elimina, all’art. 517, l’eccesso di potere dai mezzi generali con i quali ricorrere in cassazione avverso una sentenza del precedente grado d’appello in materia civile: solo per le ipotesi di violazione o falsa applicazione delle leggi.

6 Tale causa aveva ad oggetto una richiesta di risarcimento contro alcuni funzionari che, dietro ordine

del prefetto, avevano proceduto ad un arresto illegale. Vi si dice infatti: «chiunque si creda leso dall’operato di un magistrato dell’ordine giudiziario o di un prefetto o di un sottoprefetto, nell’esercizio delle sue funzioni, non può convenirlo in giudizio per risarcimento di danni, se non previa osservanza delle relative prescrizioni del codice di procedura civile e della legge comunale e provinciale. La circostanza che i sopradetti pubblici funzionari abbiano per eccesso di potere posto in essere l’atto di cui si pretende risarcito non toglie per se solo all’atto medesimo il carattere di atto di ufficio, peperò non esime dall’osservanza delle anzidette speciali prescrizioni. La distinzione tra abuso ed eccesso di potere è più sottile che vera all’effetto di produrre una differenza nel determinare la competenza dell’autorità giudiziaria e sindacare l’operato di un pubblico funzionario delle suddette categorie. L’arresto di un imputato ordinato dalle autorità competenti senza che concorressero le condizioni, né fossero state osservate le forme volute dalla legge, costituisce un abuso anziché un eccesso di potere». DE CESARE G., ‹‹L’eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di Stato››, in Problematica dell’eccesso di potere amministrativo, vol. I, 3ª ed., Padova, 1973, pag. 33.

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2.2.1 La legge 2248/1865

Compare anche in altri testi legislativi, come lo Statuto Albertino, ma soprattutto importante per questi anni è la legge n. 2248/1865: realizzatasi l’unità d’Italia nel 1861, il Parlamento unificò la legislazione amministrativa e, in questa prospettiva, si pose il problema della tutela dei cittadini di fronte all’amministrazione; infatti nell’esperienza passata non si ammetteva, per una rigorosa applicazione del principio di separazione dei poteri, la possibilità di “trascinare” un organo amministrativo dinanzi ad uno giurisdizionale: dunque vigeva il sistema del c.d. “contenzioso amministrativo”, sulla scia del modello francese, con i Tribunali ordinari del contenzioso amministrativo come competenti in materia, organi inseriti nell’organizzazione del potere esecutivo. Dopo l’unità d’Italia, rimasero transitoriamente in vigore e si pose l’alternativa tra modello di origine francese del contenzioso amministrativo e quello belga che, dal 1831, ammetteva il ricorso dinanzi al giudice ordinario per i conflitti tra privati e pubblica amministrazione. Nel nostro Paese il dibattito fu interrotto a causa della terza guerra d’indipendenza, per cui furono conferiti pieni poteri all’Esecutivo, il quale varò la riforma del 1865 con legge n. 2248 del 20 marzo di unificazione amministrativa.

Questa legge all’allegato D prevedeva la disciplina del Consiglio di Stato e all’allegato E l’abolizione dei Tribunali ordinari del contenzioso amministrativo: l’art. 2 dell’appena menzionato allegato disponeva che «tutte le cause per contravvenzioni e tutte le cause nelle quali si faccia questione di un diritto civile e politico» fossero devolute al giudice ordinario; dunque, qualsiasi diritto soggettivo vantato dal cittadino nei confronti dell’amministrazione aveva acquisito la tutela giurisdizionale e non doveva

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più limitarsi ad ottenere tutela solo in sede di contenzioso amministrativo7:

l’amministrazione poteva essere convenuta dinanzi al giudice.

Il problema che nacque immediatamente dopo l’entrata in vigore di tale legge fu quello relativo ai conflitti di attribuzione, che il legislatore lasciò alla competenza del Consiglio di Stato: l’amministrazione, vicina ai giudici di tale organo, abusò di questo strumento (basti pensare che dal luglio del 1865 all’aprile del 1877 furono sollevati ben 500 conflitti di attribuzione e che solo in 111 di questi venne riconosciuta la competenza giudiziaria8) ed infatti, in

pieno contrasto con la lettera della legge, il Consiglio di Stato elaborò la tesi secondo la quale quando una controversia avesse avuto ad oggetto un provvedimento amministrativo, non si sarebbe trattato di diritti soggettivi (per i quali sarebbe valso l’art. 2 dell’all. E) e dunque non sarebbe rientrata nell’ambito della giurisdizione.

2.2.2 La legge 3761/1877

Da questo problema nacque tutto il movimento che portò alla riforma del ’77 con la legge n. 3761 sui conflitti di attribuzione. Questa legge, ai nostri fini, è importante perché consacrò ufficialmente l’istituto dell’eccesso di potere; è il testo nel quale in Italia l’espressione “eccesso di potere” venne esplicitamente utilizzata per la prima volta: all’art. 3 si conferiva alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione di Roma (all’epoca vigevano ancora le Corti di cassazione territoriali risalenti agli Stati preunitari) la competenza a giudicare i conflitti di attribuzione, sia positivi che negativi, tra autorità giudiziaria e autorità amministrativa, nonché quelli tra i tribunali ordinari e le giurisdizioni speciali

7AA. VV., SCOCA F. G.(a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2013, pag. 5.

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e, dunque, il relativo potere di annullare le sentenze di queste giurisdizioni «per incompetenza o eccesso di potere» e si risolveva nell’indicare la loro incompetenza assoluta. La nullità si riferiva alle sentenze di questi giudici speciali e non già all’atto amministrativo, quindi in questa prima fase l’eccesso di potere era considerato nel senso di “straripamento di potere” o “difetto di attribuzione” e non era un vizio dell’atto amministrativo. 9

Gli interpreti dell’epoca distinsero i casi di incompetenza, con i quali si voleva indicare l’invasione di un certo organo giudiziario nell’ambito riservato ad un altro organo giudiziario dello stesso ordine; con “eccesso di potere” si voleva significare qualcosa di più grave: tutti quei casi che poi verranno enucleati all’art. 37 c.p.c. sotto la dizione di “difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali”. Contemporaneamente la giurisprudenza del Conseil d’État e la dottrina francese costruivano, mano a mano, una nozione più specifica del vizio: quella di détournement de pouvoir (sviamento di potere), riferito all’esercizio discrezionale del potere della Pubblica Amministrazione: secondo la definizione fatta da Laferriére è configurato come uso di potere discrezionale fatto per un fine diverso rispetto a quello in vista del quale il potere è stato attribuito.10

Nonostante che il Consiglio di Stato italiano, in sede consultiva, avesse recepito ed utilizzato la nozione di sviamento di potere in relazione agli atti discrezionali della pubblica amministrazione, il nuovo significato non attecchì in Italia molto presto.

Sostanzialmente la Corte di Cassazione di Roma avrebbe potuto avere un atteggiamento diverso affermando la giurisdizione tutte le volte in cui la

9 MODUGNO F. - MONETTI M., ‹‹Eccesso di potere II) Eccesso di Potere Amministrativo››, in

Enciclopedia Giuridica Treccani, XII, Roma, 1989, pag. 1.

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controversia avesse riguardato diritti soggettivi, ma di fatto non lo fece essendo le idee dei giudici di tale organo non dissimili da quelle del Consiglio di Stato. L’interpretazione della Cassazione era tendenzialmente restrittiva: almeno fino ai primi anni del 1900 essa non si è mai discostata da un’interpretazione letterale della legge n. 3761/1877, non riuscendo quindi ancora ad individuare nell’eccesso di potere lo sviamento di potere. Solo in un secondo momento avremo un’interpretazione ampia e la avremo grazie alla giurisprudenza del Consiglio di Stato in seguito alla riforma Crispi del 1889, istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato.

3. La riforma Crispi del 1889 e la sentenza n. 3 del 1892

Un primo passo in avanti lo abbiamo con la legge n. 5892 del 1889, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato investita di poteri giurisdizionali (denominata infatti “per la giustizia amministrativa), nella quale l’eccesso di potere costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell’atto amministrativo (non c’è più il riferimento alle sentenze dei giudici speciali) insieme a quelli della incompetenza e della violazione di legge; la stessa formula poi è stata accolta successivamente nel t.u. del Consiglio di Stato nel cui art. 26, tuttora vigente, si legge «spetta al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale di decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse d’individui […]»; nello specifico l’eccesso di potere viene definito come quel vizio «che rende radicalmente nullo il provvedimento per assoluta mancanza della facoltà di emanarlo»11.

11 Relazione dell’Ufficio centrale del Senato elaborata dal sen. G. Costa, in MODUGNO F.– MONETTI M.,

‹‹Eccesso di potere II) Eccesso di potere amministrativo››, in Enciclopedia Giuridica Treccani, XII, Roma, 1989, pag. 2.

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L’espressione “eccesso di potere” nella nostra terminologia non ha quel significato ampio che ha in quella francese: il nostro legislatore la adottò per intendere quel fenomeno più ristretto e specifico che i francesi denominavano détournement de pouvoir.

La svolta c’è con la storica sentenza n. 3 della IV Sezione del Consiglio di Stato del 7 gennaio 1892, attraverso la quale il nostro ordinamento si adeguò alle ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali francesi intendendo, finalmente, l’eccesso di potere come sviamento dallo scopo. A proposito di un decreto reale di scioglimento di un’Opera Pia il Consiglio di Stato respinse il ricorso degli interessati, i quali deducevano il vizio di eccesso di potere dell’atto impugnato: il Consiglio di Stato affermò di non riscontrare tale vizio, in quanto non accertasse nel provvedimento nulla di illogico, irrazionale o contrario allo spirito della legge. Considerando che a livello pratico, essendo il ricorso dei privati stato respinto, la sentenza non ha alcun risvolto, a livello teorico però ha il valore di aver dato una nuova impostazione al vizio di eccesso di potere; infatti la dottrina, da questa sentenza, prese spunto per sostenere che l’eccesso di potere si ha quando un provvedimento amministrativo sia basato su motivazioni illogiche, irrazionali o contrarie alla legge: riprendendo dalla giurisprudenza francese, dunque, si sarebbe affermato il concetto di eccesso di potere come “sviamento dallo scopo”.

4. La prima giurisprudenza del Consiglio di Stato e le teorie classiche della dottrina

L’evoluzione successiva del sistema è dovuta quasi esclusivamente all’opera di giurisprudenza e dottrina; si deve infatti alla giurisprudenza del Consiglio di Stato e alle successive elaborazioni dottrinali il recepimento dell’eccesso di potere come détournement de povoir (sviamento di potere): sviamento dallo scopo, nel senso che il vizio si ha quando la pubblica amministrazione,

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nell’esercizio discrezionale del suo potere, emette un atto per uno scopo diverso da quello per il quale il potere stesso le è stato conferito; sviamento come vizio teleologico quindi (ad es.: lo scioglimento di un organo collegiale dichiaratamente per gravi violazioni di legge, ma in realtà per motivi politici; dichiarazione di pubblica utilità dichiaratamente per costruzione di un’opera pubblica, ma in realtà per favorire alcuni privati, ecc.). 12

A questo punto risulta evidente che, per verificare la corrispondenza tra lo scopo astratto prefissato dalla legge e scopo concretamente perseguito dalla pubblica amministrazione con l’esercizio discrezionale del potere, bisogna indagare circa i motivi per i quali il provvedimento è stato emesso; tale indagine è stata alla base della creazione giurisprudenziale delle così dette “figure sintomatiche” di eccesso di potere, cioè dei casi tipici nei quali ricorrerebbe il vizio; attraverso alcune applicazioni pratiche del concetto di sviamento dallo scopo, cominciano a delinearsi il travisamento e la contraddizione di fatti, attraverso i quali verranno costruite, appunto, le figure sintomatiche.

4.1. Motivazione del provvedimento amministrativo

La motivazione del provvedimento amministrativo venne strettamente legata al concetto di eccesso di potere: il ragionamento che viene fatto riconduce ancora, almeno in questo periodo, anche la motivazione entro lo schema dello sviamento.

Dunque, abbiamo una prima fase nella quale il giudice amministrativo ha una sorta di poteri inquisitori: può indagare sui motivi per i quali l’atto amministrativo è stato emesso per verificare la corrispondenza tra scopo

12 MODUGNO F. MONETTI M., ‹‹Eccesso di potere II) Eccesso di Potere Amministrativo››, in

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effettivamente perseguito e quello astratto istituzionale; nello specifico, per poter affermare che ci sia il vizio di sviamento, bisogna dimostrare l’infondatezza dei motivi, quindi il giudice ha poteri d’indagine sui fatti e sui motivi.

A questa prima fase, che potremmo definire “inquisitoria”, l’evoluzione giurisprudenziale ne ha fatta seguire una seconda (periodo che ruota intorno a quello della prima guerra mondiale), nella quale l’esistenza della motivazione, laddove necessaria, è stata strettamente collegata al vizio in esame nonostante che l’inesistenza di motivazione necessaria dovrebbe essere considerata, più propriamente, violazione di legge; la giurisprudenza ha preferito valutare la mancanza e l’insufficienza di motivazione come elementi rilevatori dell’esistenza del vizio di eccesso di potere. In particolare, la mancanza e l’insufficienza della motivazione comportano l’impossibilità di verificare la corrispondenza tra lo scopo concreto e quello istituzionale e da questo si traeva il sospetto che la pubblica amministrazione volesse eludere questo raffronto; dunque in tali casi si consideravano sintomi dello sviamento di potere. Sostanzialmente la giurisprudenza, ad un certo punto, si rende conto che, attraverso l’usuale interpretazione, non riesce a rendere effettivo il suo sindacato e che occorre un esame ancora più entrante relativamente alle ragioni addotte dalla pubblica amministrazione nell’adozione di un provvedimento; il ragionamento è semplice: qualora manchi la motivazione si desume che il provvedimento sia viziato da eccesso di potere perché, non essendoci la stessa, presumibilmente i motivi che sono alla base del provvedimento non corrispondono ai motivi in base ai quali il provvedimento doveva essere correttamente adottato.13 Risalgono, infatti, a

questo periodo numerosissime sentenze che annullano un provvedimento

13 DE CESARE G., ‹‹L’eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di Stato››, in Problematica

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amministrativo per mancanza o insufficienza di motivazione per eccesso di potere: il giudice desume da questo il fatto che il provvedimento non corrisponde allo schema normativo delineato dal legislatore che prevede l’obbligo di motivazione, quindi più esattamente dovrebbe essere annullato per violazione di legge; però potrebbe anche succedere che la mancanza o l’insufficienza dei motivi addotti siano un sintomo del fatto che questi siano contrari a quelli che il legislatore voleva fossero assunti.

L’evoluzione della giurisprudenza ha aperto, infine, anche una terza fase in cui non ci si limita più a considerare l’insufficienza o il difetto di motivazione come sintomatici dello sviamento, bensì ci si spinge a valutare anche la logicità e la non contraddittorietà, quali indizi circa l’inadeguatezza per il perseguimento dell’interesse pubblico da parte dell’autorità che ha emesso l’atto amministrativo malamente motivato. Il concetto di sviamento è sempre più vasto, in modo tale che il sindacato del giudice possa estendersi anche all’uso della facoltà discrezionale della pubblica amministrazione, che pur non violando la legge ne offende lo spirito: per riportare qualche esempio di decisioni in tal senso, sono viziati provvedimenti di espropriazione per pubblica utilità ove si dimostri che l’opera non soddisfi alcun pubblico interesse14, oppure l’opera di un agente forestale che in esecuzione di una

sentenza dell’autorità giudiziaria che riconosca in un affittuario l’obbligo di curare il rimboschimento di un terreno, imponga condizioni troppo onerose15, ecc…16

14 IV sez., 22 maggio 1926, in Foro Amm., 1926, I, 1, 313. 15 Dec. 14 dicembre 1894, in Giust. Amm., 1894, I, 651.

16 Esempi riportati in DE CESARE G., ‹‹L’eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di Stato››,

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In tutti questi casi si può notare come la pubblica amministrazione non persegua affatto un pubblico interesse, quanto piuttosto un interesse privato o politico; non potendo dimostrare la mala fede della pubblica amministrazione, almeno si può dimostrare l’inutilità del provvedimento oggetto della decisione rispetto al pubblico interesse.

Riepilogando, si susseguono tre fasi in un crescendo di poteri alla giurisprudenza amministrativa che, per poter verificare l’ esistenza del vizio in esame nell’atto sottoposto alla sua attenzione, si può spingere fino a considerarlo presente in caso di una motivazione poco congrua, o comunque poco specifica.

Da tutta questa evoluzione, infatti, è nata una conseguenza fondamentale: l’ampliamento sempre più importante del sindacato sull’eccesso di potere, avendo introdotto, oltre al difetto, insufficienza, illogicità ecc.. della motivazione, numerosissime e svariate figure sintomatiche come la disparità di trattamento, la violazione di circolari, il travisamento ecc..

4.1.1 Le figure sintomatiche

Ad un certo punto, in questa terza fase, si cambia indirizzo e la motivazione del provvedimento amministrativo è richiesta proprio per consentire al giudice amministrativo di poter sindacare l’atto eventualmente viziato da eccesso di potere. Da questo nuovo ruolo della motivazione, abbiamo già detto non esiste più solo la mancanza o l’insufficienza dei motivi addotti dall’amministrazione nell’emettere il provvedimento, ma vengono introdotte sempre più situazioni sintomatiche: il giudice non confronta più il provvedimento in esame con lo schema normativo, ma fa un ragionamento logico, inferenziale potremmo dire. Grazie alle figure sintomatiche il sindacato del giudice amministrativo sugli atti discrezionali diventa effettivo e,

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proprio per la grande importanza che hanno, in breve passiamone in rassegna alcune.

Lo sviamento di potere, del quale ampiamente si è detto, è la prima delle figure sintomatiche cronologicamente parlando ed è quella che ha dato la possibilità di puntualizzare il concetto di eccesso di potere; nei casi di sviamento, come esaustivamente si è detto, vi è un fine effettivamente perseguito diverso da quello istituzionale per il quale il potere discrezionale era stato conferito all’amministrazione da parte del legislatore; il fine di fatto raggiunto può essere lecito ma il suo perseguimento compete ad altra autorità, illecito o del tutto irrilevante.

La giurisprudenza ha collegato allo sviamento un’ulteriore figura sintomatica: la illogicità manifesta. In questi casi abbiamo provvedimenti amministrativi totalmente o parzialmente illogici e irrazionali: ad esempio, una commissione esaminatrice in un concorso per titoli aveva attribuito valore maggiore ad un titolo di scuola secondaria rispetto ad un diploma di scuola superiore; questo provvedimento fu censurato come viziato da eccesso di potere per illogicità manifesta17: le leggi o i regolamenti non indicano quale dei due titoli sia

superiore, però secondo logica appunto si deve ritenere che per la graduatoria di un concorso abbia maggior valore una laurea rispetto ad altri titoli.18

Un’altra figura sintomatica creata dalla giurisprudenza è la disparità di trattamento: in questi casi il trattamento riservato ad alcuni soggetti non viene offerto a soggetti diversi che si trovino nelle medesime condizioni.

17 IV sez., 8 aprile 1921, in Giust. Amm., 1921, I, 60.

18 DE CESARE G., ‹‹L’eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di Stato››, in Problematica

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Sulle figure sintomatiche potremmo dire anche altro, ma in sostanza hanno perso il loro significato originario di sintomo di un vizio, essendo utilizzato dal giudice amministrativo come ragionamenti logici di accertamento in collegamento con regole dell’attività amministrativa.

4.2. Le teorie classiche dell’eccesso di potere

Al crescendo delle elaborazioni giurisprudenziali, si accompagnò ovviamente la riflessione dottrinale, sollecitata a precisare il significato di “fine o scopo” con riferimento all’atto amministrativo; la dottrina, a cavallo tra le due guerre mondiali, definì e classificò le possibili figure di eccesso di potere mano a mano elaborate dalla giurisprudenza: queste sono le teorie classiche dell’eccesso di potere, cioè quelle che considerano questo come vizio della volontà, come vizio della causa o come vizio dei motivi.

4.2.1 La teoria del vizio della causa

È la tesi prevalente nel ventennio 1930 – 1950: l’eccesso di potere qui viene inteso come il vizio proprio dell’atto che persegue un fine diverso da quello predeterminato dalla norma, intendendosi quindi per “causa” l’interesse pubblico, il fine che la pubblica amministrazione deve perseguire. Fra tutti i teorici possiamo ricordare Cammeo, il quale sosteneva «che vi è sempre eccesso di potere quando un’attività amministrativa, anche essendo altrimenti legale, sia dispiegata senza che sussista alcun pubblico interesse ad esercitarla»19: afferma quindi che l’eccesso di potere è il vizio della mancanza

19 DE CESARE G., ‹‹L’eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di Stato››, in Problematica

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di causa, se vogliamo considerare la causa di un provvedimento amministrativo il pubblico interesse.

4.2.2 La teoria del vizio della volontà

Secondo questa teoria vi è un’anomalia nel processo di formazione della volontà; ha il merito di far rientrare nel diritto amministrativo vizi della volontà tipicamente privati contemplati nel codice civile: violenza, errore e dolo.

La prima è intesa come violenza morale, che ha determinato nell’agente un motivo di decisione diverso dall’interesse pubblico per il timore di subire un male ingiusto (qualsiasi intimidazione ad es. basata sulla superiorità gerarchica).

L’errore consiste nella falsa conoscenza della realtà, che ha creato dei presupposti determinanti la volontà, quindi falsati: quando questo riguardi elementi essenziali dell’atto, si comprende come l’erronea percezione abbia creato un vizio nella volontà dell’autorità emittente l’atto amministrativo. Infine, anche il dolo è una falsa rappresentazione di alcuni fatti, ma con la differenza di essere voluta da un altro soggetto con l’inganno.

Sia l’errore che il dolo possono determinare invece che un vizio della volontà, quindi l’eccesso di potere, un vizio del contenuto dell’atto che si risolve nella violazione di legge: questo quando la falsa conoscenza, dovuta a errore o dolo, riguardi presupposti giuridicamente necessari per l’emanazione del provvedimento (ad es. per la nomina di un impiegato la sua qualità di cittadino o l’aver acquisito un titolo di studio; la nomina di chi non possiede i

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requisiti richiesti, sia per errore o per la produzione di falsi documenti, è contraria alla legge e rende l’atto di nomina annullabile per questo vizio). 20

Il principale sostenitore di questa tesi è lo Zanobini, il quale nega la causa come elemento essenziale dell’atto amministrativo: la causa non ha una propria esistenza autonoma, ma sarebbe soltanto un modo particolare dell’agire della volontà.

C’è da obiettare che in tutti questi casi più che di eccesso di potere sarebbe maggiormente opportuno parlare di illegittimità dell’atto, se non addirittura di inesistenza dello stesso per carenza di potere: se l’eccesso di potere riguarda la volontà, esso si risolverebbe sempre in violazione di legge. Si può inoltre osservare come sicuramente nei casi di eccesso di potere la volontà della pubblica amministrazione vada nella direzione sbagliata, ma che questo non significhi che la volontà sia oggetto dell’eccesso di potere: una cosa è la volontà nell’ambito del diritto privato, un’altra in quello del diritto amministrativo, nel quale per l’emanazione di un provvedimento collaborano numerosi uffici pubblici e parlare della volontà di un agente sarebbe abbastanza forzato.

Se proprio vogliamo trovare un filo conduttore che accomuni queste due prime teorie classiche, possiamo al massimo sostenere che, soprattutto in determinati casi di eccesso di potere come il travisamento e lo sviamento, il vizio abbia ad oggetto sia la causa che la volontà dell’atto amministrativo ed il rapporto tra questi due elementi (tesi sostenuta dal Pappalardo che cerca di darne una lettura unitaria).

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4.2.3 La teoria del vizio dei motivi

Negli anni seguenti, considerando un forte incentivo da parte dell’opera della giurisprudenza, il discorso venne spostato sul tema dei motivi: secondo questa teoria l’eccesso di potere dovrebbe riscontrarsi solo nei casi in cui sia viziato il motivo primario, per errore di fatto o intenzionalmente; in ogni altro caso saremmo fuori dal contesto del sindacato di legittimità rientrando in quello di merito. Nonostante questo la giurisprudenza ammette il sindacato di legittimità in relazione ai motivi secondari, quando questi risultino dal provvedimento perchè indicati in motivazione e siano inesistenti, falsi o sopravvalutati rispetto al motivo primario, di conseguenza sottovalutato. Queste sono le teorie classiche; partendo dal confutarle possiamo anche accennare a una quarta teoria, quella sostenuta da Benvenuti, che legge l’eccesso di potere come vizio della funzione : teoria che non si fa rientrare tra quelle classiche perché è sicuramente più moderna.

4.2.4 Eccesso di potere come vizio della funzione

Benvenuti parte dalla critica delle figure sintomatiche create mano a mano dalla giurisprudenza, considerando che non esista una definizione esaustiva di eccesso di potere. Secondo questo autore bisognerebbe distinguere la figura dello sviamento di potere, in cui si riscontrerebbe una difformità di un elemento rispetto a come dovrebbe essere secondo la formazione normativa, da tutte le altre figure sintomatiche, in cui l’atto è invalido a prescindere, cioè senza la necessità di indagare se il vizio intacchi la volontà, piuttosto che la causa o qualsiasi altro elemento dell’atto amministrativo.

Una volta stabilito il valore autonomo delle figure sintomatiche rispetto al caso specifico dello sviamento di potere, esse possono essere ricondotte a tre ipotesi: o sono violazione di giustizia sostanziale, o di principi di

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ragionevolezza o di principi dell’organizzazione amministrativa. Tutte queste ipotesi, quindi, hanno un aspetto sostanziale comune: riguardano tutte un difetto rispetto al retto esercizio della funzione amministrativa, quindi eccesso di potere come vizio della funzione, dell’attività discrezionale posta in essere. Benvenuti definisce le figure sintomatiche come ragioni estrinseche di invalidità, per distinguerle dagli altri casi di sviamento di potere e travisamento dei fatti, che sono da considerare all’inverso vizi intrinseci, cioè che agiscono su elementi interni dell’atto amministrativo; l’autore fa un paragone con l’ambito privatistico: anche in questo vi è la distinzione tra vizi intrinseci ed estrinseci dell’atto, ma mentre in tale ambito le conseguenze sono diverse a seconda che si tratti dell’uno o dell’altro tipo di vizio, in diritto amministrativo non vi è alcuna differenza e la conseguenza è la medesima: l’annullamento dell’atto.

Che si accetti o meno la tesi del Benvenuti, sicuramente possiamo riconoscerle un merito: quello di aver dato una risposta unitaria a tutte le istanze circa la natura dell’eccesso di potere ormai sparse nella dottrina e nella giurisprudenza e, quindi, di aver accomunato tutte le figure sintomatiche sotto il profilo della funzione amministrativa: un’attività che viene svolta prima dell’adozione dell’atto amministrativo.

5. La giurisprudenza dei primi anni ’50

Delineato lo sviluppo della giurisprudenza e della dottrina circa l’eccesso di potere a partire dall’ordinamento francese post rivoluzionario per approdare alle teorie dottrinali italiane dei periodi bellici della prima metà del ‘900, possiamo ora accennare agli orientamenti che si sono sviluppati in seguito alla promulgazione della carta costituzionale e quindi alla giurisprudenza degli anni ’50.

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Ormai la giurisprudenza del Consiglio di Stato di questi anni consolidò un’interpretazione sulla base della quale il giudice si sente libero di poter sindacare tutti i motivi che stanno dietro all’adozione del provvedimento amministrativo, per controllarne la correttezza21. Un esempio chiaro lo

troviamo in una decisione del 13 aprile 1949 della IV sez. del Consiglio di Stato, nella quale leggiamo: « […] Il controllo di legittimità del provvedimento amministrativo, sotto il profilo dell’eccesso di potere, è un controllo di sufficienza del criterio giuridico ed equitativo che ha ispirato il comportamento dell’Amministrazione e non consente anche di indagare quanto di più e di meglio l’Amministrazione stessa avrebbe potuto fare […]»22; è proprio sulla scia di decisioni come questa che si teorizzò l’eccesso

di potere come vizio della funzione, quindi dell’attività discrezionale della pubblica amministrazione.

Nonostante questo non si può neanche dire che l’interpretazione dei giudici del Consiglio di Stato di quegli anni sia stata univoca, infatti si oscilla tra moltissime e diverse interpretazioni: decisioni in cui si riafferma nuovamente il ruolo centrale della causa dell’atto, piuttosto che altre nelle quali si afferma che l’inosservanza di una circolare non sia eccesso di potere, ecc… In sintesi: sulla scia della sentenza del 1949 non si è poi sviluppata una consolidata giurisprudenza in tal senso; non solo, ma vediamo che contemporaneamente la giurisprudenza della Corte di Cassazione rimane ferma alle impostazioni classiche dell’eccesso di potere. Una situazione multiforme potremmo definirla.

Per tirare un po’ le somme del discorso, potremmo dire che prima del periodo post bellico la giurisprudenza aveva preso un indirizzo preciso e

21 DE CESARE G., ‹‹L’eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di Stato››, in Problematica

dell’eccesso di potere amministrativo, vol. I, 3ª ed., Padova, 1973, pag. 121.

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univoco; dal dopoguerra in poi le decisioni in materia di eccesso di potere aumentano esponenzialmente e la ragione sta nella “liberalizzazione del diritto amministrativo” che si cominciò a vivere in quegli anni: il giudice indaga non più sugli elementi interni dell’atto secondo una valutazione meccanica di confronto con lo schema normativo, bensì sposta la sua attenzione dall’atto a un qualcosa che viene prima di esso, cioè all’attività della pubblica amministrazione (nello specifico attività discrezionale) posta in essere per l’adozione dell’atto stesso; non vi è più un giudizio meccanico bensì un giudizio valutativo d’insieme, il che rende anche più facile a livello processuale valutare se in effetti l’atto sia o meno viziato da eccesso di potere. Inoltre è da sottolineare come dal Benvenuti in poi l’eccesso di potere ormai sia considerato un vizio della funzione, intesa questa quindi come un qualcosa che è fuori dall’atto e consiste nell’attività (discrezionale) posta in essere dalla pubblica amministrazione; qualsiasi teoria posteriore all’autore citato, in un modo o in un altro, si rifà alla sua tesi: eccesso di potere come vizio della funzione o del complesso dei motivi.

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CAPITOLO

II

L’INVALIDITA’

AMMINISTRATIVA

SOMMARIO: Sezione prima: Patologia dell’atto amministrativo. 1. – L’invalidità amministrativa: profili teorici. 2. – Nullità e annullabilità del provvedimento amministrativo: artt. 21-septies e 21-octies della legge sul procedimento amministrativo. 3. – Invalidità e diritto penale (cenni). Sezione seconda:

L’eccesso di potere. 1. – Premessa 2. – Definizione. 3. – Casistica dell’eccesso di

potere: sviamento, figure sintomatiche e contrasto con principi di natura sostanziale.

Sezione prima: Patologia dell’atto amministrativo

1. L’invalidità amministrativa: profili teorici

Secondo la teoria generale del diritto, un atto giuridico risulta invalido se è in contrasto con una norma imperativa. Questa affermazione ha un risvolto profondamente diverso a seconda che si parli di diritto privato o di diritto amministrativo, a causa del carattere cogente o meno delle norme dell’uno o dell’altro ordinamento: in particolare, mentre nel diritto privato vige il principio dispositivo, per cui le norme possono essere derogate dalle parti tranne che in alcune eccezioni, viceversa nell’ambito del diritto amministrativo le norme sono cogenti appunto, quindi non possono essere derogate tranne che in casi eccezionali molto rari.

Già da tutto questo si deduce che l’area dell’invalidità amministrativa è molto vasta e inoltre, nell’ambito del diritto amministrativo l’attività dei pubblici

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uffici è fortemente procedimentalizzata, cioè consta di una serie di atti precedenti all’emissione del provvedimento amministrativo, atti procedimentali appunto, ognuno dei quali è sottoposto a sua volta a norme imperative: questo estende ulteriormente l’area dell’invalidità amministrativa, perché questa, di conseguenza, ci sarà anche in ogni caso di contrasto di uno degli atti del procedimento con le norme cogenti che lo riguardano.

Ma c’è di più: l’area dell’invalidità amministrativa è arricchita maggiormente dal fatto che in alcuni casi può intaccare anche l’ambito che attiene all’esercizio discrezionale del potere amministrativo; infatti in tal caso, seppur discrezionale, l’attività amministrativa è comunque legata a dei vincoli, nello specifico a quello del fine e al principio di ragionevolezza, e di conseguenza tutte le volte in cui tali vincoli non siano rispettati nel porre in essere un’attività amministrativa discrezionale, l’atto (del procedimento o il provvedimento) sarà invalido e, nello specifico, saremmo di fronte ad un caso particolare di invalidità, che è appunto l’eccesso di potere.

In principio dunque ogni contrasto degli atti amministrativi (si tratti del provvedimento o di atti procedimentali) con la normazione relativa e il contrasto della manifestazione di esercizio del potere con i principi e i criteri assunti a regola della discrezionalità amministrativa, dà luogo ad invalidità degli stessi, con la conseguente applicazione della disciplina che si va ad esporre.23

1.1 Invalidità totale e parziale

L’invalidità può essere totale o parziale.

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Di regola l’invalidità di un singolo elemento dell’atto colpisce l’interezza dello stesso solo se tale elemento risulti essenziale, cioè se senza quello l’atto non sarebbe stato adottato o comunque risulterebbe inesistente. Il problema comunque deve essere risolto caso per caso, perché anche laddove si prenda in considerazione la distinzione tra atti scindibili ed atti inscindibili, non è detto che nel primo caso l’invalidità di un elemento non colpisca l’intero atto o viceversa; dobbiamo prendere spunto dall’insegnamento di Cammeo e quindi stabilire se «il contenuto della singola disposizione invalida sia un momento essenziale della dichiarazione di volontà e, se non lo è, l’invalidità si limita alla singola disposizione senza inficiare l’atto», cioè se la volontà dell’Amministrazione risulterebbe comunque nell’atto anche senza la parte viziata oppure, al contrario, se la presenza della stessa sia stata essenziale ai fini della determinazione del contenuto volitivo dell’atto.

1.2 Irregolarità degli atti amministrativi

Nel caso in cui ci siano, nell’ambito di un atto amministrativo,violazioni di norme, non sempre queste generano un atto invalido (sia esso nullo o annullabile); in alcuni casi tali violazioni lasciano l’atto comunque valido seppur irregolare, ma ciò comporta semplicemente l’applicazione di una sanzione, pecuniaria o disciplinare, nei confronti del soggetto emittente l’atto irregolare.

La nozione di “irregolarità” ricorre tutte le volte in cui si tratti di blanda difformità dell’atto ad una norma, per la quale non sia applicabile il regime dell’invalidità; il problema sorge dal momento in cui si voglia dare una definizione dell’istituto, voler comprendere quindi sotto un unico nomen una serie di ipotesi accomunabili: in dottrina gli studiosi si dividono tra chi ha una visione oggettiva, individuando in negativo la figura dell’irregolarità, quindi come una categoria residuale sotto la quale riunire tutti i casi di difformità di

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un atto amministrativo non invalidante lo stesso e chi, all’inverso, ne ha una visione soggettiva, che caratterizza la nozione per la presenza della comminatoria di una sanzione a carico del soggetto agente.

Nonostante i tentativi svolti in dottrina di trovare una definizione univoca di irregolarità, in modo da poter “raggruppare” sotto la sua categoria una serie di ipotesi di difformità dell’atto non invalidanti, sono sorte difficoltà in tal senso: il fenomeno della irregolarità è articolato in una svariata serie di ipotesi, le quali non presentano elementi di comunanza tali da poter ricondurli ad unità e, oltretutto, anche l’ordinamento risponde con una serie di conseguenze giuridiche applicabili ad un atto amministrativo irregolare in modo articolato e per niente univoco (alle volte si parla di regolarizzazione, altre di rettifica, temporanea inefficacia…). 24

Tradizionalmente si soleva considerare la violazione di una norma imperativa sempre come causa di illegittimità (annullabilità); in questo clima giuridico il fenomeno dell’atto irregolare era meramente residuale e rarissimo, valutato come una trascurabile eccezione alla regola dell’annullabilità di un atto non conforme ad una norma imperativa.

I casi di irregolarità, quali blande difformità, erano in dottrina stati definiti come casi di irregolarità “minimale” o “debole”: questa è la categoria tradizionale di irregolarità, nata a cavallo tra XIX e XX secolo fino agli anni ’30 del Novecento, sotto la quale sono accomunate tutte le anormalità dell’atto amministrativo che non producono invalidità a causa del loro scarso rilievo, rispetto allo scopo della norma che è stata violata. Secondo questa impostazione infatti le norme, in relazione allo scopo, possono essere distinte in norme che prevedono adempimenti formali di necessità, essenziali (ad

substantiam) e norme che prevedono meramente forme di pubblicità (ad

24 LUCIANI F., ‹‹L’invalidità e le altre anomalie dell’atto amministrativo: inquadramento teorico››, in

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probationem); la seconda serie di norme prevede requisiti non essenziali, violati

i quali l’atto non rischia di essere nullo o illegittimo, bensì rimane valido e meramente irregolare. Sotto la specie di irregolarità minimale o debole, era compresa una casistica piuttosto articolata e svariata: la mancata indicazione nel provvedimento del termine per ricorrere, l’omessa indicazione del responsabile o della data di conclusione del procedimento…

Accanto al genere dell’irregolarità debole o minimale, si incontrava anche quella della irregolarità forte. Come già detto in precedenza, tradizionalmente un’anomalia di un atto andava a creare in automatico una causa di illegittimità; agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, si comincia a cambiare prospettiva e a considerare l’ipotesi per cui una violazione di una norma possa produrre anche una conseguenza differente dall’annullabilità del provvedimento. Tale orientamento è stato accolto inizialmente dalla giurisprudenza e poi dal legislatore, il quale con L. n. 15/2005, modificante la legge n. 241/1990, ha introdotto l’art. 21-octies (annullabilità del provvedimento), il cui 2º comma individua una serie di casi in cui l’atto non risulti invalido nonostante che ci sia stata violazione di norme di natura sostanziale: l’atto non è annullabile, perciò configura un’ipotesi di irregolarità, ma profondamente diversa da quella che è stata finora descritta; è un tipo di irregolarità sicuramente più forte, che si avvicina all’area dell’invalidità. La norma parla di “non annullabilità” (non certo di irregolarità forte), ma stabilendo che non è annullabile conferma da una parte la non necessità di convalida e quindi la sua non invalidità; sicuramente però non si può neanche considerarlo un atto valido, dovendo comunque essere soggetto ad una regolarizzazione: di qui la possibilità di ricorrere alla nozione di irregolarità forte.25

25 LUCIANI F., ‹‹L’invalidità e le altre anomalie dell’atto amministrativo: inquadramento teorico››, in

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2. Nullità e annullabilità del provvedimento amministrativo: artt.

21-septies e 21-octies della legge sul procedimento amministrativo

Le conseguenze che l’ordinamento prevede nel caso di invalidità di un atto amministrativo sono diverse, a seconda della natura della norma che è stata elusa nel porre in essere l’atto stesso; in particolare possiamo distinguere due tipi di norme: da una parte le norme che disciplinano i rapporti tra l’Amministrazione e i privati, attribuendo poteri e fissando i limiti all’attività amministrativa (norme di relazione), dall’altra le norme di azione, norme tecniche che si rivolgono esclusivamente all’Amministrazione e che regolano lo svolgimento della sua azione.

Tenendo presente tale distinzione, anche sulla scorta della scienza privatistica, la dottrina amministrativistica ha ricondotto entrambi i casi sotto l’univoca categoria della invalidità, ma distinguendo i casi di nullità da quelli di annullabilità: in particolare, avremo nullità quando l’atto amministrativo abbia eluso le norme di relazione, cioè quelle attributive dei poteri, viceversa avremo annullabilità quando la norma violata sia una norma tecnica di azione, disciplinante quindi l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione. Volendo semplificare possiamo dire che conosciamo due forme tipiche di invalidità, la nullità e l’annullabilità, che corrispondono a casi più o meno gravi di difformità alla norma: i casi di nullità riguardano quelli più gravi, viceversa quelli di annullabilità comprendono le affezioni di gravità minore. Le due specie tipiche di invalidità, a fini puramente classificatori ripresi dalla teoria generale del diritto, possono essere considerate sotto un duplice profilo: l’uno relativo agli effetti, l’altro riguardante la rilevabilità; dal punto di vista degli effetti, mentre l’atto nullo è insanabile e, quindi, incapace di dare luogo agli effetti tipici dell’atto perfetto, viceversa l’atto annullabile è sanabile e, quindi, idoneo a spiegare un’efficacia interinale, cioè nelle more della sanatoria, identica a quella dell’atto valido. Dal punto di vista della rilevabilità:

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la nullità è rilevabile d’ufficio e da parte dell’interessato senza limiti di tempo e con ogni mezzo; viceversa, l’annullabilità è rilevabile solo su istanza dell’interessato, entro dei termini specifici di prescrizione o decadenza e con dei mezzi procedurali tipici.

Ovviamente ai due casi di invalidità corrisponde un regime giuridico differente che, con la riforma del 2005 della legge sul procedimento amministrativo 241/1990, troviamo disciplinato agli articoli 21-septies (nullità) ed octies (annullabilità) della legge stessa.

2.1 Nullità

Secondo un’impostazione tradizionale, l’invalidità dell’atto amministrativo si risolveva nella sua annullabilità, sulla base del regime stabilito dal T.U. del Consiglio di Stato (le tre cause di illegittimità dell’atto amministrativo tradizionali: incompetenza, violazione di legge e eccesso di potere).

Nonostante questo la giurisprudenza della Cassazione, davanti a stati vizianti dell’atto amministrativo particolarmente gravi, ha sostenuto come quei casi dessero luogo ad una patologia diversa dall’annullabilità e, talvolta, ha parlato di “inesistenza” dell’atto amministrativo (utilizzando, come sarà esposto più oltre, un’espressione impropria almeno per la teoria generale).

Nel frattempo il legislatore si rese conto dell’inadeguatezza dell’annullabilità come risposta a certi vizi del provvedimento amministrativo, così che cominciò a prevedere la conseguenza della nullità in specifiche ipotesi, c.d. “nullità testuali”: ad esempio l’assunzione nel pubblico impiego senza la previa procedura concorsuale, atti emessi dopo il regime della prorogatio di 45 giorni, ecc… casi di vizi particolarmente gravi, dinanzi ai quali non si poteva ritenere che la loro rilevabilità dovesse essere condizionata all’attivazione di un interesse di parte, come nell’azione di annullamento.

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Anche se in principio la giurisprudenza interpretò le ipotesi di nullità testuali come casi di annullabilità, a partire da una serie di decisioni del Consiglio di Stato del 1992, cominciò una nuova fase interpretativa, secondo la quale in alcuni casi di vizi particolarmente gravi l’invalidità dell’atto amministrativo venisse a configurare una vera e propria forma di nullità, così come da ordinamento civilistico: un vizio quindi imprescrittibile, insanabile e rilevabile d’ufficio.

La riforma del 2005 con legge n. 15 recepisce nella sostanza tali orientamenti, trasformandoli in prescrizione di legge all’art. 21-septies della legge sul procedimento amministrativo, che infatti è rubricato “Nullità del provvedimento” e recita:

«È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge.»

La norma si limita ad individuare i singoli casi di nullità, senza però indicare il regime adottabile nei confronti di un provvedimento amministrativo che ne sia affetto; nel silenzio della legge, in via generale si può mutuare dal codice civile in quanto compatibile e dunque l’art. 1418 c.c. sulle “cause di nullità del contratto”. Nello specifico bisogna sottolineare come, prima di tutto non si possa applicare il primo comma del suddetto articolo, in quanto la contrarietà di un atto amministrativo a norme imperative determina una causa di annullabilità; non essendo compatibile tale comma alla nullità amministrativa, potremo comunque mutuare il 2º e 3º comma dell’art. 1418, quindi sono cause di nullità anche dell’atto amministrativo la mancanza dei requisiti essenziali dell’atto di cui all’art. 1325 c.c. (causa di nullità del resto espressamente affermata dall’art. 21-septies legge proc. amm.) e come sanzione per la commissione di un illecito.

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Al di là di ciò resta comunque dubbio che si possa applicare anche il regime della nullità parziale, quello della conversione dell’atto nullo e quello della convalidabilità legislativa di cui all’art. 1423 c.c.26

Per quel che concerne l’azione di nullità, questa sembrerebbe poter conservare anche in ambito amministrativo tutte le sue caratteristiche, soprattutto la sua imprescrittibilità; nonostante questo si può ritenere che, in alcuni casi e data la specificità di alcune materie, l’esercizio dell’azione in esame possa essere sottoposta ad un termine decadenziale. Nel caso in cui il legislatore dovesse optare per una scelta del genere, l’ordinamento punterebbe alla stabilità dell’azione amministrativa ancorché nulla e all’effettività dei risultati da essa comunque prodotti, per quanto atipici. Per quel che riguarda la rilevabilità d’ufficio non vi è alcun dubbio e, infine, per quanto riguarda la legittimazione ad agire viene superato il requisito dell’attualità dell’interesse, aprendo la possibilità dell’azione ad una platea molto più vasta di soggetti, che non necessariamente devono avere un interesse legittimo in gioco per far valere la nullità dell’atto.

Infatti si segnala una bozza di un testo di proposta di legge per la “semplificazione del processo amministrativo e sui rapporti tra le giurisdizioni” in cui l’azione di nullità in ambito amministrativo è disciplinata in questi termini: «il giudice amministrativo, nell’ambito della propria giurisdizione, dichiara la nullità del provvedimento d’ufficio ovvero su ricorso di chiunque vi abbia interesse, nel termine di due anni e ordina la rimozione degli effetti».

26 LUCIANI F., ‹‹L’invalidità e le altre anomalie dell’atto amministrativo: inquadramento teorico››, in

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