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Direttiva (UE) 2019/882 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019 sui requisiti di accessibilità dei prodotti e dei servizi

Nel documento DISABILITÀ O DIVERSA ABILITÀ? (pagine 42-45)

di Domenico Iodice

1.8. Direttiva (UE) 2019/882 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019 sui requisiti di accessibilità dei prodotti e dei servizi

Almeno 135 milioni di persone nell’UE hanno una disabilità ed il dato è crescente per via del progressivo invecchiamento della popolazione. Per affrontare i diritti

di queste persone, come delineato dalla Convenzione delle Nazioni unite sui di-ritti delle persone con disabilità, l’UE ha approvato la direttiva UE sull’accessi-bilità del web e l’Atto europeo sull’accessisull’accessi-bilità (European Accessibility Act – EAA).

L’EAA si applica alle aziende private (o organizzazioni pubbliche che offrono il tipo di prodotti/servizi di seguito elencati), mentre la direttiva UE si applica alle organizzazioni pubbliche e ai fornitori di terze parti che queste utilizzano. Oltre a ciò, l’EAA si applica ad hardware, software e web, mentre la direttiva UE si applica a web e app. La direttiva UE fa specifico riferimento alle WCAG 2.1 livello AA, mentre l’EAA non fa riferimento a nessuno standard di conformità specifico. Anche le scadenze per ogni regolamento sono diverse. Le modalità secondo cui i regolamenti sono implementati sono le stesse: gli Stati membri sono responsabili dell’applicazione, dell’imposizione di multe e della comunica-zione dello stato attuale alla Commissione europea. L’“accessibilità” è una disci-plina trasversale, con obiettivi di vasta portata antropologica, sociale ed econo-mica. Il miglioramento dell’accessibilità corrisponde a una più diffusa percezione di comfort sociale e ad una riduzione sostanziale delle fonti di pericolo e delle situazioni di disagio e affaticamento che sono alla base dei fenomeni di emargi-nazione, esclusione o di autoesclusione sociale delle persone con disabilità. In psicologia comportamentale (ma anche in organizzazione di impresa) si studia l’accessibilità come condizione per la creazione di una più estesa “comfort zone”, la quale è definita come «la condizione mentale in cui la persona agisce in uno stato di assenza di ansietà, con un livello di prestazioni costante e senza percepire un senso di rischio» (5). La Commissione europea ha riconosciuto il tema dell’ac-cessibilità dei prodotti e servizi come centrale per la inclusione sociale delle per-sone con disabilità. L’Atto in questione ha lo scopo di «migliorare il funziona-mento del mercato interno di prodotti e servizi accessibili, abbattendo le barriere create da norme divergenti negli Stati membri». Nel precedente assetto norma-tivo comunitario, caratterizzato da un vacuum juris in materia, ogni Stato membro dell’UE definiva i propri standard di accessibilità per prodotti e servizi, il cui effetto era una ridotta possibilità di scelta interna, maggiori prezzi per i consu-matori e mercati ristretti, con pochi incentivi per le aziende che vi operavano. In base all’EAA, gli Stati membri dell’UE hanno ottenuto regole di accessibilità co-muni da seguire. L’obiettivo dell’armonizzazione delle regole, mediante la defi-nizione di standard per l’accessibilità, si traduce in produzioni “designed for all” (si parla anche, in tal senso, di “universal design”). Secondo la Convenzione delle Na-zioni unite sui diritti sulle persone con disabilità, tale approccio significa che «la progettazione di prodotti, ambienti, programmi e servizi dovrebbe essere fruibile (5) Il concetto di “comfort zone” non è nato in psicologia, bensì in un contesto aziendale. Nel 2009, questo termine è stato usato per la prima volta da Alasdair A.K. White (Teoria della comfort zone), un teorico della gestione aziendale che la definiva come quell’area intorno alla quale i dipendenti riuscivano a massimizzare prestazioni e profitti. In psicologia la definizione non si discosta molto dal concetto aziendale.

da tutte le persone, nella misura più ampia possibile, senza necessità di adatta-mento o design specializzato». Le app e i siti web dovrebbero essere resi acces-sibili, tenendo a mente i quattro principi dell’accessibilità (POUR): percepibili, utilizzabili, comprensibili e robusti. Su tali principi si basano le WCAG (Web Con-tent Accessibility Guidelines), che rappresentano lo standard universale per l’accessi-bilità web. L’Atto riguarda hardware, software, web e servizi: computer e sistemi operativi, bancomat, biglietteria e macchine per il check-in, smartphone e tablet, apparecchiature televisive relative ai servizi di televisione digitale, servizi di tele-fonia e relative apparecchiature, accesso a servizi di media audiovisivi come smissioni televisive e relative apparecchiature di consumo, servizi relativi al tra-sporto passeggeri tramite aereo, autobus, linee ferroviarie e per via navigabile (siti web, app, servizi di biglietteria, ecc.), servizi bancari, e-book ed e-reader, numeri di emergenza, siti web e app di e-commerce.

La nuova normativa è stata adottata dall’UE nel giugno 2019. Entro giugno 2022, gli Stati membri dell’UE devono tradurre e adottare la direttiva nelle loro leggi nazionali. Entro luglio 2025, infine, la legge di recepimento deve trovare com-pleta applicazione. È prevista un’eccezione applicativa per “onere sproporzionato”:

qualora cioè cambiasse la natura del prodotto/servizio o la società fosse finan-ziariamente sovraccaricata. C’è anche un’eccezione per le microimprese (con meno di 10 dipendenti e un fatturato annuo inferiore ai due milioni di euro).

Interessante anche la parte integrativa dell’efficacia e quella sanzionatoria: gli Stati membri sono incaricati di applicare le proprie sanzioni per inadempienza, che dovrebbero essere «efficaci, proporzionate e dissuasive». Inoltre, ciascuno Stato membro deve consentire ai consumatori di segnalare la non conformità ai tribunali o all’organismo incaricato di far rispettare la legge in quel Paese.

L’impalcatura normativa comunitaria dovrebbe, secondo gli intendimenti del le-gislatore, creare maggiori opportunità di lavoro per le persone disabili, attraverso l’accessibilità garantita di beni e/o servizi. Probabilmente la forte necessità di un livello standardizzato di accessibilità avrà anche un “effetto Bruxelles”, che at-trarrà virtuosamente altri paesi ad adottare gli stessi standard, in una prospettiva puramente mercatistica nel perimetro europeo. Se questo è l’effetto atteso, le persone con disabilità potranno conseguentemente godere di una maggiore li-bertà di movimento tra gli Stati membri e beneficeranno di servizi e dispositivi più accessibili. Secondo il legislatore europeo, questo dovrebbe inoltre risultare addirittura sufficiente anche a garantire, sia pure indirettamente, maggiore occu-pazione o almeno nuove specifiche opportunità di lavoro per le persone svan-taggiate. Ma la domanda da porsi è: perché dovrebbe accadere tutto ciò? Ci sem-bra che il concetto di “inclusione” adottato dal legislatore comunitario sia viziato da un equivoco di fondo. L’inclusione sociale, obiettivo del Pilastro sociale, non è da intendersi come riferita soltanto alla società civile nel suo complesso, ma anche, e specificamente, al mondo d’impresa: essa riguarda anche (anzi: soprat-tutto) i luoghi di produzione e di lavoro, che oggi appaiono invece naturalmente

impermeabili a questa esigenza della società civile ed anzi sono oggi ambiti di progressiva emarginazione ed esclusione sociale, attraverso la più pervasiva scientificazione dei processi produttivi imposta dalla digitalizzazione e la cre-scente spinta selettiva esercitata dalle maglie strette della gestione “commerciale”

delle risorse umane, ossessionata dalla ricerca dell’eccellenza delle performances individuali. Entrare nei meccanismi di selezione, di valorizzazione e di gestione del personale con disabilità non è dunque questione da lasciare esclusivamente ai buoni propositi e alle iniziative aziendali, perché non esiste alcuna “mano invisi-bile” capace di guidare provvidenzialmente tali processi in senso antropocen-trico. L’Accessibility Act opera meritoriamente su alcune sfavorevoli condizioni di contesto del mercato di lavoro, con l’obiettivo di rimuoverle, ma è fondato su una premessa valoriale, se non sbagliata, almeno superficiale e parziale: che la persona con disabilità sia assimilabile e riducibile allo status di consumatore, an-ziché a quello di cittadino/lavoratore europeo. Occorre rivoluzionare tale pre-messa e riconsiderare, invece, i luoghi di lavoro come formazioni sociali neces-sarie per lo sviluppo della personalità. In questa accezione di significato, nessuna impresa produttiva di beni o di servizi, pubblica o privata, può sottrarsi a tale funzione sociale. Il “pass” di impresa europea, abilitata ad operare nel perimetro comunitario, e dotata di certificazione “green” dovrebbe postulare il rilascio di precise garanzie di tipo sociale! Perché le persone non sono cose, e non sono solo soggetti di consumo. Le imprese non vivono di vita propria e non sono funzionali solo alla produzione di utili per gli azionisti, ma devono “servire” le persone e alle persone in quanto tali, considerando cioè le stesse un fine, non un semplice mezzo (6). Il diritto di cittadinanza comunitaria delle persone con disa-bilità si esprime nelle forme della partecipazione inclusiva in ogni aspetto della società civile, compreso quello lavorativo. Sotto tale profilo, l’EAA si occupa – lo abbiamo detto e rimarcato – dei soli requisiti di accessibilità per l’immissione sul mercato di prodotti e servizi. In pratica, i benefici per l’occupazione dei lavo-ratori con disabilità sono solo indiretti: si regolamentano i mercati, non le im-prese; è la logica del mercato comune, non dei diritti del lavoro comuni.

1.9. Accordo-quadro autonomo tra le parti sociali europee (CES,

Nel documento DISABILITÀ O DIVERSA ABILITÀ? (pagine 42-45)

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