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Altra scrittura dedicata alla questione della libertà e sovranità di Firenze e del suo dominio è quella stesa dall’arcivescovo di Pisa Francesco Frosini247 dal titolo Discorso legale sopra la Libertà dello

Stato Fiorentino e la niuna sua dependenza dall’Imperio.248 Nella

minuta rinvenuta non compare alcuna data relativa alla composizione, ma da alcune note presenti nella scrittura si apprende che questa fu redatta nel 1721, e successivamente alla pubblicazione del De

Libertate.249 Strutturato in cinque articoli il Discorso del Frosini si

concentra sulla disamina del Diploma di Carlo V del 1530; le tesi che intende dimostrare riguardano specificamente: 1. che le disposizioni

247 Francesco Frosini (1654-1733), formatosi presso il Collegio Ferdinando di

Pisa, ove studiò filosofia, teologia e diritto, si laureò in utroque iure all’Università di Pisa (nel 1675), sotto la guida di Orazio Marchetti. Fu membro dell’Accademia Fiorentina e di quella della Crusca (dal 1703), e a Pistoia, sua città natale, ricoprì l’ufficio di maestro di Retorica nel Collegio della Sapienza. Abbracciò il sacerdozio nel 1686, e dopo quattro anni venne eletto vicario capitolare della diocesi di Pistoia. Su proposta del granduca Cosimo III venne nominato vescovo di Pistoia e Prato nel 1701, poi trasferito alle sede arcivescovile di Pisa nel 1702. La sua attività pastorale si indirizzò anche verso le questioni poste dalla città di Livorno; qui si interessò affinché nella Chiesa Armena fosse eliminata ogni tentazione scismatica e fossero convertiti il maggior numero di ebrei e di infedeli residenti. Si impegnò per confutare le dottrine gianseniste e fu tra i primi vescovi toscani ad accettare la bolla Unigenitus. Cfr. C. Fantappiè, ad vocem, in DBI, 1998, vol. L, pp. 609-11.

248 Il titolo completo è il seguente, Discorso legale sopra la libertà dello Stato

Fiorentino e la niuna sua dependenza dall’Imperio di Mons. Frosini Arcivescovo di Pisa. Per quem reges regnant ipse dirigat consilium meum. La copia che qui si

commenta è attualmente conservata presso la BANL, Cors. 1199 [35.D.4], Raccolta di

scritture cit., cc. 5r-43v.

249 La data del 1721 si evince dal passo in cui l’autore, al fine di dimostrare

l’avvenuta prescrizione dei supposti diritti dell’Impero su Firenze, computa gli anni decorsi dal riconoscimento imperiale di Massimiliano II (1575) del titolo di granduca conferito a Cosimo I dal papa Pio V, nel testo infatti si legge: «Non manca il tempo, per essere da detta dichiarazione decorsi anni centoquarantasei», cfr. Frosini,

Discorso legale cit., c. 41v. Il riferimento al De Libertate è presente a c. 43r, ove in

corrispondenza del seguente passo: «la Glossa porta per esempio di quei Popoli, ch’erano liberi, il Popolo Fiorentino, e per più secoli, da che scrissero goder egli la libertà, il Bartolo, il Baldo, Angelo, l’Ancarano, il Castrense, il Fulgosio, l’Abbate, Alessandro, il Soccino, ed altri primi lumi dell’antica Giurisprudenza», si rinviene la seguente nota a margine: «Raccolta de DD. Sopra la libertà di Firenze etc. in altra scrittura»; nel De Libertate, infatti, alle pp. LXXIII-LXXIIII vi è riportato un lungo catalogo di autori (doc. n. IIII) che corrispondono, nella quasi totalità dei casi, a quelli menzionati in questa scrittura dal Frosini.

contenute nel testo del Diploma non avevano pregiudicato la sovranità della città di Firenze, bensì l’avevano confermata, 2. che ogni eventuale diritto dell’Impero era ormai da ritenersi prescritto.

Anche in questo testo si rinvengono diverse tipologie di fonti. L’arcivescovo, ovviamente, ricorre alla letteratura patristica e alle fonti scritturali, ma incidentalmente; inoltre, occorre osservare che, rispetto alle scritture già esaminate, in questo testo i rimandi alle trattazioni storiche fiorentine sono poco frequenti, e sono presenti più o meno alla stregua di quelle classiche. Vastissimi sono invece i richiami alla letteratura commentariale e consulente, ed alla trattatistica giuspublicistica imperiale. Di particolare rilievo è anche l’uso del De

jure belli ac pacis di Grozio, di cui si rinvengono numerosissimi

riferimenti, per altro arricchiti dai commenti che di questa opera furono fatti da Johann Friedrich Gronovius, Willem van der Meulen e da Kaspar Ziegler.

Concentrandosi in questa sede sull’esame dei due ultimi gruppi di fonti menzionati, rispetto alla letteratura dei grandi collettori della tradizione commentarile, dei consiliatori e dei pratici quattro- cinquecenteschi, quali Natta, Caccialupo, Nicola degli Ubaldi, Nicola Boier, Felino Sandeo, Tiberio Deciani, Menochio, Bartolomeo Socini, Aimone Cravetta, Fulgosio, Filippo Decio, Paolo di Castro e l’abate Palermitano, è possibile constatare che questo tipo di auctoritates è utilizzato dal Frosini per scopi diversi.

In primo luogo si rileva che tali autori sono richiamati in merito alla dottrina dell’interpretatio, sia per dimostrare che la volontà del deliberante è da rinvenirsi nelle premesse delle proprie disposizioni, sia per sostenere che l’interpretazione di una disposizione dipende dall’osservanza della norma nel corso del tempo. Nel caso specifico, Carlo V aveva espressamente dichiarato nel Diploma del 1530 che era venuto per assicurare la pace, la quiete e la libertà di Firenze e dell’Italia, e dunque – Frosini asserisce – questa dichiarazione

preliminare doveva essere la chiave ermeneutica attraverso cui interpretare il testo dell’intero Diploma, e l’onere della prova di un mutamento di volontà dell’imperatore grava su quelli che la invocano. Nel testo si legge:

Questa magnanima dichiarazione propria di un ottimo Principe, qual era Carlo V, mette in necessità sul bel principio chiunque vuol ricavare da questo stesso Diploma la soppressione dell’antica libertà di Firenze, di provarla con altri documenti, non solo perché dal Proemio, o cominciamento di qualunque disposizione si riconosce secondo il comune sentimento de’ Dottori la mente del Disponente, e specialmente del Principe ne suoi rescritti, quanto perché non è da presumersi, avere egli nel proseguimento del Diploma mutata la volontà, che nel medesimo dichiarasi di aver avuta, rispondendo perciò il Giureconsulto Ulpiano: Eum qui voluntatem mutatam dicit, probare hoc debere. Massimamente che quando un Principe si è dichiarato di voler servire al ben comune, ed alla pubblica utilità, mai non ha da supporsi, che poi mutatosi, abbia voluto riguardo avere più che all’altrui, al proprio vantaggio.250

Come si è detto, gli stessi riferimenti sono utilizzati anche per dimostrare che l’interpretazione dipende dall’osservanza. All’inizio dell’articolo IV, intitolato «Comprovasi la libertà di Firenze colla lunga osservanza», Frosini ripete che nel Diploma non vi si poteva rinvenire alcuna disposizione che dimostrasse la volontà dell’imperatore di limitare la sovranità della città, e che in base alla «osservanza immediatamente ad esso seguita, e fino a tempi nostri inviolabilmente continuata» le disposizioni imperiali erano da considerarsi interpretate correttamente. Nel testo si rimarca appunto che:

[…] è principio sicurissimo, e da Dottore veruno, che sappiasi, non impugnato, doversi i Diplomi, le constituzioni e le leggi tali regolarmente intendersi, quali per lungo tempo praticate si vedono: e che migliore interpretazione loro non si può dare di quella, che hanno ricevuta dalla osservanza, rimanendo noi certificati della intenzione, che fu avuta dal Disponente, col vedere come siano le disposizioni state lungo tempo osservate, massimamente, se la osservanza o immediatamente lor succedette, ovvero fu ad essa vicina; […] Di maniera che non solo si debbono le parole in qualche modo dubbie interpretare come la osservanza le ha intese, ma quando ancora

250 Ivi, cc. 7v.

il senso loro si trovasse contrario, deesi seguire a dare loro quel senso, in cui sono state osservate.251

La trattatistica e letteratura consulente, assieme alla Glossa e alla letteratura commentariale risultano utilizzate inoltre per dimostrare: 1. che la sanzione posta nel Diploma, che sarebbe scattata allorché Firenze non avesse rispettato le disposizioni ivi prescritte, era stabilita da Carlo V in qualità di arbitro e dunque non denotava sovranità; 2. che la definizione di ribelle contenuta nel Diploma era da ricondursi alla funzione arbitrale dell’imperatore, perché altrimenti si sarebbe manifestata una contraddizione con quanto espresso altrove nel medesimo Diploma; 3. che il termine devoluzione denota regolarmente l’acquisto e non il ritorno al primevo titolare.252

Tale gruppo di fonti è dunque utilizzato per ribadire che il Pontefice è il giudice competente di coloro che sono nella condizione di

superiorem non recognoscens, e quindi per dimostrare che il

conferimento del titolo di granduca a Cosimo I da parte del Pontefice Pio V provava la continuità giuridica della sovranità della città di Firenze nel passaggio al principato:

Non è similmente da porsi in dubbio, che il Pontefice non sia Giudice competente di tutti quelli, che non riconoscono superiore, conforme scrivono i Dottori […].

Fermata dunque la Podestà, e suprema Giurisdizione, come sopra, nel Papa, da ciò necessariamente ne segue, che colla dichiarazione fatta dal Santo Pontefice Pio V di non essere Cosimo primo ad alcuno soggetto, e colla di lui creazione in Gran Duca della Toscana per cui, come considera il Cardinale de Lugo, confermasi la sua independenza dall’Imperio, restino assicurate le ragioni per la conservazione dell’antica libertà di Firenze.253

Infine, l’arcivescovo Frosini ricorre alla tradizione commentarile per sostenere che qualsiasi diritto avesse avuto l’Impero nei riguardi di

251 Ivi, cc. 34v-35r. 252 Ivi cc. 28r-29r. 253 Ivi, cc. 39r-40r.

Firenze e del suo dominio, questo si sarebbe prescritto dopo tanto trascorrere di tempo:

Talmente che, quando altra ragione non avesse Firenze, che questa, basterebbe solamente da se stessa a renderla sicura da ogni pretensione, che potesse l’Imperio avere contro di lei, e per rendere indubitabile la sua libertà.254

Il ricorso al De jure belli ac pacis di Grozio serve a Frosini per affrontare i temi specifici dello ius belli, che già nella sua forma protomoderna, elaborata da Alberico Gentili, aveva visto svilupparsi accanto al ius ad bellum (inteso come quel complesso di ragioni che giustificano la guerra rendendo lecito l’uso della violenza pubblica), attraverso un processo di graduale, ma – ha notato Quaglioni – sempre più netta differenziazione, sia il ius in bello, ossia l’insieme dei principi e delle regole che legittimano e regolano le azioni dei guerreggianti, sia, più in generale, una nuova disciplina giuridica delle relazioni e dei trattati internazionali.255

Il testo di Grozio è dunque utilizzato là dove Frosini intende sostenere che le convenzioni stipulate in tempo di pace non possono essere violate, in quanto ciò produrrebbe i seguenti effetti: 1. offenderebbe la «pubblica Fede» che è il fondamento della giustizia e dell’umana convivenza; 2. violerebbe il principio di lealtà che è alla base della virtù del governante; 3. violerebbe il diritto delle Genti; 4. farebbe venir meno la giusta causa di una guerra rendendola dunque illecita.

Dopo aver dimostrato che le parole del Diploma erano chiaramente volte a conservare la libertà di Firenze, in corrispondenza alla «prima cagione» e al «fine particolare» stabilito nella Lega di Barcellona tra Clemente VII e Carlo V, ossia «rimettere nella Signoria

254 Ivi, c. 42v.

255 Cfr. D. Quaglioni, Introduzione, in A. Gentili, Il diritto di guerra. (De iure

belli libri III, 1598), introduzione di D. Quaglioni, traduzione di P. Nencini, apparato

e Governo la Casa Medici, ch’erane stata violentemente spogliata, e come tale potuta colla forza, e coll’armi giustamente reintegrarsi, e rimettervisi», Frosini passa a dimostrare che la privazione della sovranità di Firenze e del suo dominio da parte di Carlo V sarebbe stata anche contro la lettera delle capitolazioni firmate tra il comandante delle truppe imperiali e i fiorentini:

Offenderebbe in secondo luogo gravemente la Fede pubblica, perocché essendosi fermato tra il Commessario Imperiale, ed il Popolo Fiorentino nelle Capitolazioni fatte nel primo articolo, che averebbe questi ricevuta da Carlo V la forma del Governo, con che però rimanesse conservata la libertà; questa convenzione viene ad essere stretta col vincolo della pubblica Fede: Publica conventio (sono le parole stesse del Giureconsulto Ulpiano ) est quae fit per pacem quoties inter se Duces quaedam paciscuntur, massimamente essendo ella stata approvata, e confermata dal medesimo Imperadore Carlo V, che dichiarasi espressamente nel suo Diploma di ordinare, e stabilire la predetta forma del Governo in vigore della fatta convenzione Tum vigore conventionis inter illustrem Ferdinandum Gonzagam pro nobis intervenientem, et ipsam Rempublicam Florentinam cum deditionem faceret, firmatae etc. ed ogni volta che rimase nelle antedette Capitolazioni di comun consenso fermate, compresa la conservazione della libertà, non solamente sarebbe molto disconvenuto all’opere di un Principe glorioso lo spogliarne Firenze, ma nefas ancora (mi servirò delle parole stesse di Gulielmo Wander commentatore accuratissimo di Ugon Grozio) nefas fuisset eripere, avvegna che tolta la pubblica fede, ch’è il fondamento della Giustizia, e senza di cui, nec pacem Tellus, non aequora sentiunt, viene a togliersi ancora con danno del pubblico bene, e della pubblica utilità il tanto necessario commercio tra gli uomini, infirmatis, violatisque pactis (diceva il Maestro di coloro, che sanno, Aristotele) tollitur inter homines commerciorum usus […].256

Con il ricorso all’opera di Grozio, di cui si cita il passo del libro III, cap. 22, par. 9, n. 2, nonché il commento di Willem van der Meulen al cap. 20, par. 51 del medesimo libro, Frosini rafforza la tesi ciceroniana della pubblica fede quale fondamento della giustizia applicata nell’ambito del diritto internazionale pubblico. Richiamando poi il commento dello stesso Meulen al libro II, cap. 25, par. 1 del De

jure, l’arcivescovo sottolinea il valore della lealtà quale massima cui

deve aderire il governante nei rapporti internazionali.257

Inoltre, la pretesa imperiale di aver acquistato la sovranità di Firenze a seguito della resa della città alle armate imperiali era contro il diritto delle genti, in quanto non vi erano dubbi che tali armate fossero da intendersi come ausiliare. E qui Frosini richiama il commento di Meulen ai primi punti dei paragrafi 23 e 24, del capitolo 6 del terzo libro del De jure belli ac pacis, citando il lungo brano in cui si sosteneva che il diritto di preda delle armate ausiliari era limitato ai soli beni mobili:

Opporrebbesi in terzo luogo alla pubblica ragion delle Genti, con ciò sia cosa che dubitar non potendosi, che mosse non fossero le Armi da Carlo V contro Firenze a contemplazione di Clemente VII per lo solo fine di riporre la sua Famiglia nell’antico suo Stato; a che perciò non fossero, come suol dirsi armi ausiliarie, non poteva egli con tal titolo fare acquisto di ciò, che a recuperare per altri impegnato si era, essendo secondo la legge, o consuetudine delle Genti, praeda illius, cuius nomine Bellum capitur. E con tutto che, riguardo alle cose mobili prese in guerra, mentre però sia giusta, sieno per sentimento d’alcuni Dottori, delle Truppe ausiliarie, per motivo di equità, e per uso militare, in compensamento de’ danni da loro sofferti, e gli è però uso, e diritto, che leggesi nelle storie osservato, che il Territorio e il Paese conquistato a quelli si acquisti, per cui cagione, ed in cui aiutamento fassi la guerra: non absque ratione usu receptum est, ut sua faciant, quae capiunt ex hostibus socii, quod intelligendum est de rebus mobilibus, non territorio, sive regionibus, vel oppidis, aut arcibus expugnatis, et in postestatem redactis, vel redigendis, haec enim, ut patet ex historicis, illi cedere solent, qui suo nomine bellum gerit.258

Come si è detto, Frosini sostiene la tesi che il muovere guerra, o meglio assediare Firenze, da parte di Carlo V poteva sì ritenersi lecito, in quanto fondato sulla giusta causa del recupero del governo per la Casa Medici che ne era stata violentemente spogliata, ma che a seguito della resa dei Fiorentini e della loro scelta di devolvere il potere

257 Ivi, c. 10v. Il commento di Willem van der Meulen è così riportato: «Fides

tanto splendore refulget, ut sine ea omnes Regum ac Principum virtutes obscuriores fiant».

258 Ivi, c. 10v-11r. La lunga citazione latina si riferisce al commento di Willem

van der Meulen al capitolo 6, par. 24, n. 1, del libro III del De jure belli ac pacis di Grozio.

all’imperatore affinché stabilisse la nuova forma di governo per la reintegrazione dei Medici, era stato definitivamente ottenuto il fine della guerra e dunque era cessata la giusta causa della stessa. Per sostenere questo punto del ius ad bellum, che confutava la pretesa imperiale dell’acquisto della sovranità da parte di Carlo V, l’autore richiama tutti i massimi autori della dottrina della guerra giusta, S. Agostino, Bellarmino, Laymann, Lipsio, e Grozio, di cui indica il punto secondo del paragrafo 2, del primo capitolo del libro II, assieme al quale è attento a ricordare anche il commento del Meulen.259

Frosini rimarca «che ottenutosi il pentimento, che unitamente si pretendeva di esigere da loro con la libera, e reverente remissione fatta da’ Fiorentini nella Maestà Sua, nissun’altra causa, né veruno altro titolo rimanevavi, per lo quale giustificar si potesse quella guerra, e molto meno rendersi legittimo lo acquisto di uno Stato libero, ed alle ragioni dell’Imperio non attenente, e che veruna connessione non aveva col fine, per cui mosse si erano le Armi Imperiali contro Firenze»;260

secondo l’arcivescovo, dunque, non vi sarebbe stata alcuna «altra causa legittima», ossia non si sarebbe potuto imputare ai Fiorentini né la loro «resistenza» alle armi cesaree, né il «delitto di rebellione, e di disobbedienza alla Maestà di Cesare», né l’imperatore avrebbe potuto vantare il diritto di punire la città. A dimostrazione di ognuno di questi punti Frosini cita il De jure di Grozio e i relativi commenti del Meulen, fatta eccezione per il delitto di lesa maestà che è sostenuto, oltre che attraverso il Suarez, con il richiamo della letteratura giuridica consiliatrice e di diritto pubblico imperiale.

In particolare, rispetto al primo argomento, Firenze avrebbe opposto una resistenza «più che scusabile, e non degna, di sì rigida pena», e ciò in base a quanto era stato sostenuto da Seneca, che Frosini sceglie di ricordare proprio con quel passo citato dal Grozio: «Hostes

259 Cfr. Frosini, Discorso legale cit., cc. 12r-13v. 260 Ivi, c. 13v.

dimittet salvos, aliquando etiam laudatos, si honestis causis profide, pro foedere, pro libertate in proelium accincti sunt».261 Circa la

giustificazione dell’acquisto della sovranità per «punigione dovuta», l’arcivescovo cita alcuni paragrafi del capitolo 20 del libro II e III dell’opera groziana per dimostrare che sia in base al diritto di natura che in base al diritto delle genti non vi erano giustificati motivi per imporre quale punizione la «privazione del Supremo Dominio» a Firenze.262

Passando dunque a commentare da vicino il Diploma del 1530 Frosini utilizza la dottrina groziana per dimostrare che le diverse espressioni lessicali contenute nel rescritto imperiale, quali «in nostram, et Romani Imperii gratiam, tuitionem, protectionem, et salvam guardiam sucipimus, et assumimus»,263 «quoniam ad

perpetuam huius Reipublicae libertatem, pacem, quietem, et tranquillitatem, ut in nostra, et Romani Imperii fide, ac devotione perpetuo maneat restat»,264 e «nos eam Civitatem in deditionem

acceptam»265 non potevano fondare giurisdizione o soggezione.

In particolare, il primo passo viene ricondotto alla specie di confederazione ineguale, ossia tra una potenza maggiore e una minore, in cui i meno potenti promettono di rendere onore e reverenza alla «maestà» dei più potenti, ricevendo da quest’ultimi la propria protezione. Frosini cita ampiamente il punto primo del paragrafo 21 del capitolo terzo del libro I del De jure belli ac pacis, per equiparare, appunto attraverso Grozio e Van der Meulen, questa difesa all’istituto

261 Ivi, c. 14r. Seneca, De clementia, lib. II, cap. 7; H. Grotius, De jure belli ac

pacis, lib. III, cap. 11, n. 6.

262 Ivi, cc. 14v-15r. Qui Frosini cita e rimanda al De jure belli ac pacis, lib. II,

cap. 20, par. 43, n. 3 (assieme ai commenti del Meulen a questo passo, e a quelli relativi ai paragrafi 40 e 28) e al lib. III, cap. 20, par. 20.

263 Ivi, cc. 18v-19r. Si veda l’intero passo nell’edizione del Diploma presente in

Legislazione toscana raccolta e illustrata da L. Cantini cit., vol. I, p. 36.

264 Ibidem, e cc. 23v-24v. Cfr. Legislazione toscana raccolta e illustrata da L.

Cantini cit., vol. I, p. 36.

265 Ivi, cc. 24v-28r. Cfr. Legislazione toscana raccolta e illustrata da L. Cantini

del mudeburdio, ossia alla difesa che il principe impartisce al vescovo o