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Non era possibile, in definitiva, sostenere la libertà di scelta sulla successione granducale, né resistere ai disegni delle grandi potenze sulla Toscana, senza passare attraverso due punti di diritto tra di loro collegati: provare la libertà originaria di Firenze e negare la dipendenza feudale dall’Impero. Come si vedrà anche nei testi successivi di parte granducale la florentina libertas poteva essere sostenuta con la storia, evidenziando dunque la continuità della forma giuridica della res publica nel passaggio dal regime repubblicano al principato, ma anche con la teoria, rinvenendo appunto nel moderno diritto naturale quegli elementi contrattualistici capaci di riaffermare una concezione del rapporto tra populus e princeps che si richiamasse alla concessio imperii, ossia ad una concessione limitata nel tempo e nell’oggetto, attraverso la quale il popolo aliena al principe il solo esercizio e non la titolarità del potere.

Questa duplice opzione ideologica è particolarmente visibile nei testi manoscritti di Neri Corsini del 1714-16. Nella breve minuta

intitolata Scrittura di Neri Corsini sulla libertà di Firenze 1714178 si

presenta esclusivamente il piano dell’opera che il patrizio fiorentino aveva in mente di stendere, ancor prima di intraprendere ufficialmente la carriera diplomatica al servizio di Cosimo III (15 maggio 1716).179

In questo testo le tesi indicate sono le medesime di quelle argomentate nel Discorso dell’Antinori del 1711. Il primo punto riporta schematicamente gli argomenti a sostegno dell’esclusione dalla successione dei maschi discendenti da femmine, il secondo quelli per escludere i membri discendenti da rami diversi da quello di Giovanni padre di Cosimo il Vecchio e di Lorenzo il Vecchio, e il terzo presenta le ragioni a sostegno dell’esclusione di tutti i suddetti agnati per il «bene dello Stato», per il «ben pubblico».

Fatta eccezione per una singola postilla che rimanda alle storie fiorentine del Varchi e del Segni, in questo brevissimo scritto non si riportano auctoritates, ma esclusivamente gli argomenti che sarebbero stati utilizzati a sostegno delle singole tesi nel corso dell’opera. La prima tesi avrebbe dovuto essere dimostrata richiamando il testo letterale del Lodo del 1530 e della Confederazione di Barcellona del 1529, da cui derivava che i successori maschi del Duca Alessandro sarebbero dovuti appartenere alla sua linea in quanto la reintegrazione dei Medici a Firenze era avvenuta a compensazione «de’ danni sofferti, e dell’Esilio patito» dai membri della famiglia del papa Clemente VII. A questo Corsini aggiungeva anche che, nel caso in cui la successione riguardasse il governo di uno stato, «La Ragione, che successori Maschi s’intenda per i Maschi venute dalle Femmine, non milita nelle

178 Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, Roma, (d’ora

in poi BANL), Cors. 1199 [35.D.4], Raccolta di scritture, e memorie appartenenti alle

cose occorse nella Corte di Firenze e negoziati avuti colla Corte di Roma dall'anno 1730 al 1740, Tomo I, mss. di carte 398, cc. 50v-51v.

179 Più tardi il Corsini avrebbe intrapreso quella ecclesiastica (23 luglio 1730),

dopo l’elezione dello zio Lorenzo al pontificato (12 luglio 1730). Sul Corsini si veda l’utile ed assai informata scheda di M. Caffiero, Corsini, Neri, in DBI, 1983, vol. XXIX, pp. 651-657.

Successioni delli Stati».180 Segue un argomento che non compare nel

lavoro dell’Antinori, relativo alle condizioni poste dal Senato per la elezione di Cosimo I, ossia che «Cosimo fu eletto a condizione, che se la Duchessa fosse rimasta gravida, e avesse fatto un Maschio, questo sarebbe succeduto, e non parlò se avesse fatta una Femmina».181

Per dimostrare la tesi dell’esclusione di membri discendenti da rami diversi da quello di Giovanni padre di Cosimo il Vecchio e di Lorenzo il Vecchio, Corsini richiama nuovamente la lettera del Lodo e della Confederazione a sostegno della reintegrazione della sola linea di discendenza del papa Clemente VII. Anche in questo scritto si sottolinea come la successione di Cosimo I fosse dovuta esclusivamente al potere del corpo politico della res publica intesa come res populi, ossia del Senato fiorentino. Il Corsini osserva infatti che «non osta l’osservanza, resultante dall’esaltazione di Cosimo, perché Egli fu eletto liberamente dal Senato, e non altro Jus Egli pretese mai avere alla Successione».182 La questione posta a conclusione della minuta del

1714 da Corsini è la stessa che aveva trattato l’Antinori nel suo

Discorso del 1711: nella traslazione della sovranità era necessario

evitare che emergessero fattori di conflitto del corpo sociale. Corsini usa le identiche parole dell’Antinori, paventa infatti la «irreverenza» del «Popolo», la «emulazione» nei «Nobili» e la «diserzione» dei «Ricchi», nonché l’avvento delle «fazioni» e la «introduzione di Potenze Forestiere». Per il «bene dello Stato», per il «ben pubblico», ora che vi erano, a differenza della «successione del Duca Alessandro», da difendere la dignità granducale, l’istituzione della Religione di S. Stefano e soprattutto l’integrità territoriale, dopo «l’aumento dello

180 N. Corsini, Scrittura di Neri Corsini sulla libertà di Firenze 1714, c. 50bisr 181 Ibidem.

182 Ivi, c. 50bisv. Poco più avanti (c. 51r) il patrizio fiorentino aveva inserito

una breve postilla in cui si richiamavano le storie fiorentine del Varchi e del Segni, «Varchi lib. 13°, e Segni lib. 5°», a sostegno dell’illustrazione dell’episodio in cui il Muscettola, nel consegnare il Lodo del 1530, avrebbe chiarito che l’ordine di successione era ristretto solo alla «Linea di Cosimo, e di Lorenzo Fratelli Figlioli di Giovanni».

Stato», secondo Corsini si poteva derogare qualsiasi norma che permettesse la chiamata alla successione di tutti gli agnati della famiglia Medici.183

Anche in una successiva minuta di Neri Corsini intitolata

Estratto d’Istorie Fiorentine del Marchese Neri Corsini 1716,184

rinvenuta nella medesima raccolta di scritti in cui è conservato il breve testo del 1714, le tesi proposte sono tutte sostenute attraverso il ricorso alle storie fiorentine del Guicciardini, del Varchi, del Nardi, del Segni e dell’Ammirato, ed anche in questo caso tale tipo di fonti appare essere stato utilizzato essenzialmente per esaltare il ruolo del Senato nell’assetto politico-istituzionale del Granducato. Ma è importante segnalare che in questo Estratto, a differenza del discorso dell’Antinori del 1711 e dello scritto del medesimo Corsini del 1714, non sono affatto affrontate le questioni relative ai maschi discendenti per linea femminile, e alla devoluzione del governo ad altri rami della famiglia Medici rispetto a quelli cui era appartenuto il papa Clemente VII. L’obiettivo di queste pagine risulta essere la dimostrazione della continuità giuridica della res publica e dunque della libertà del popolo fiorentino di scegliere, attraverso il Senato che ne rappresenta gli interessi, colui cui devolvere la sovranità dello stato.

Lo scritto inizia attribuendo un’origine divina, trascendente, della libertà umana: «La Libertà, non v’ha dubio alcuno, essere la più cara, e preziosa cosa ch’abbia l’uomo, non solo riguardando la sua dolce natura, ma apprezzando in essa il donatore della medesima, il quale ci ha conceduto questa natural facoltà per nostro bene, e per nostra sovrana dignità, volendoci in tutto rendere ad esso assomiglianti».185

Da questa concezione della libertà, abbinata ad un’antropologia negativa, discende l’origine divina della stessa sovranità, che in un

183 Ivi, cc. 51r-v.

184 BANL, Cors. 1199 [35.D.4], Raccolta di scritture cit., cc. 44r-49r.

185 N. Corsini, Estratto d’Istorie Fiorentine del Marchese Neri Corsini 1716, c.

primo momento è evocata in relazione al solo princeps, in termini che potrebbero essere definiti assolutistici: «è però vero ancora, che, facendo un cattivo uso di sì prezioso dono [si intenda la libertà], e ritorcendo in nostro danno, e vituperio quella dignità, che dovea difenderci, governarci, e renderci più nobili, et illustri, il Suo alto, infinito provvedere, il quale talora negando concede grazie, e dispensa benefizi, ci rende soggetti, e ci dà un Principe, il quale meglio ci regga, e difenda, ed a cui dobbiamo inviolabilmente ubbidire». Tuttavia, nel passo subito successivo Corsini rivede il fondamento divino della sovranità assoluta del principe ricordando «che tornando noi Popoli Fiorentini nel nostro primiero stato di libertà, a noi solo sarebbe lecito, o nuovamente metterci in soggezione, o restar liberi, potendo l’uomo far ciò che vuole, quando non ne sia impedito, o dalla forza, o dalla ragione».186

Così facendo, la premessa del Corsini si riallinea alla tesi principale, che percorrerà l’intero discorso, volta a sostenere la funzione di rappresentanza del popolo fiorentino nel Senato dei Quarantotto, e dunque l’esclusivo diritto del Senato di determinare la successione dopo l’estinzione della famiglia Medici. A tale scopo, Corsini illustra due fasi della traslazione della sovranità: in un primo momento «se la medesima Provvidenza (per sua misericordia, se il Principe è cattivo, e per nostro gastigo se è buono) ce lo [sottinteso, il

Principe] toglie, di subito riassumiamo il nostro primo essere, non

altrimenti che quando al figliuolo muore il Padre»; nel secondo momento afferma che «È bene il vero, che non potendosi ritorre ciò che una volta altrui è donato, ed avendo essa [la Repubblica Fiorentina] tutto il suo potere ceduto, e collocato (per evitare il sempre pernicioso governo di molti) nel Senato Fiorentino, e nel supremo capo del medesimo; a questo nobilissimo corpo, ed all’eccelso suo capo,

186 Ivi, c. 44v.

solamente sarà lecito di pensare, e provvedere alle cose della successione».187

Il discorso del Corsini continua esaltando la funzione di rappresentanza del Senato contro l’autorità dell’imperatore sostenendo la continuità giuridica della res publica attraverso le fonti storiche. Il suo esplicito intendimento è quello di dimostrare che fu la «Repubblica», sia nel 1530 che nel 1536, a predisporre la «riforma dello Stato» e che l’imperatore non poté far altro che approvarla in quanto a questi fu attribuita la facoltà di «lodare, e confermare» solo nell’occasione della resa di Firenze, mentre il secondo Diploma, del 1537, è considerato un mero atto «in sequela del primo».188

Richiamata la capitolazione di Firenze attraverso il Varchi, al fine di confermare come nel primo articolo della “confederazione” stipulata in Barcellona il 29 giugno 1529 vi fosse stabilito l’obbligo di «conservare la Libertà» alla città, Corsini fa ricorso all’autorità del Guicciardini e dell’Ammirato per sostenere che la riforma del governo fu effettivamente realizzata dagli stessi cittadini di Firenze. La stessa scelta di chi dovesse procedere al riordino del governo era stata conferita all’insindacabile autorità della città: «Ella elettosi l’Imperatore non aspettò già che egli pronunziasse, ma in vigore similmente della sua natia Libertà dette Balia a 84 Cittadini, i quali ne elessero tredici per riformare il governo. Questi colla sola autorità riceuta dalla Balia fecero una Provvisione, che Alessandro de’ Medici fosse riammesso a tutti i Magistrati, e supremi onori della Repubblica nella forma, che gl’avevano goduti i suoi Antenati, espressamente dichiarando di farlo motu proprio, et de plenitudine potestatis».189

Fu solo dopo cinque mesi dalla promulgazione del provvedimento dei tredici Riformatori che giunse in città il plenipotenziario imperiale Muscettola con un Lodo che non presentava

187 Ivi, cc. 44r-v. 188 Ivi, c. 45r. 189 Ivi, c. 45v.

«nulla di vario da quello, che aveva disposto la Balia»,190 Lodo cesareo

che – sottolinea Corsini richiamando ancora il Varchi – venne ricevuto dal Gonfaloniere ribadendo la libertà della città:

Accomodandosi dunque il Gonfalonier Buondelmonti alla necessità dei tempi senz’altra replica accettò il Diploma Cesareo, ringraziando il Muscettola, e Cesare, che avesse salvata alla Repubblica la sua cara, e dolcissima libertà il che volle dire, con tutto che nel Laudo non fosse fatta menzione dell’ultime parole del primo Articolo della Capitolazione, Salva la Libertà, per mostrare, che a Cesare non era permesso di lodare fuori di questa condizione.191

La storia di Firenze del Varchi permetteva a Corsini di affermare come questa città, con il suo dominio, fosse sempre stata

superiorem non recognoscens:

O se pure la Città nostra era anticamente stata sotto la Podestà dell’Imperio molto tempo innanzi s’era liberata e ricuperata con denari dagl’Antecessori della Maestà Sua, per il che non poteva incorrere in fellonia alcuna, né ricadere per niuna cagione alla Camera Imperiale, né poteva Cesare disporne come più le piaceva, ma solo in vigore dell’autorità datagli da’ suoi Cittadini nei Capitoli dell’accordo.192

Dieci mesi dopo la pubblicazione del Lodo, erano stati istituiti 13 riformatori, i quali avevano contemporaneamente deliberato l’affidamento del principato al duca Alessandro e successori maschi, istituito il Senato di 48 membri e il Consiglio dei Dugento: «Così, e non altrimenti fu dato cominciamento al Principato, il quale chiaro si vede esser fondato sull’amore de’ Cittadini, e stabilito dalla di loro autorità, senza che alcuna Potestà forestiera vi si sia potuta con giusta cagione mescolare».193 Una volta fondato il Senato, la continuità giuridica della

res publica sarebbe stata garantita appunto attraverso l’attività del

Senato, è ciò era facilmente dimostrabile, secondo Corsini, ricostruendo

190 Ibidem.

191 Ivi, c. 46r-v.

192 Ivi, c. 46r. Questo passo compare nel ms. del Corsini con i segni grafici

della citazione, nella nota corrispondente l’autore rimanda alla Storia fiorentina del Varchi senza indicarne però il libro, che è il XIV.

la circostanza storica della successione di Cosimo ad Alessandro, avvenuta per autonoma delibera di quest’organo e senza intervento dell’Impero.194

Per Corsini l’autorità riconosciuta dalla città di Firenze, dopo la propria resa, all’imperatore è circoscritta ad un determinato periodo e ben delimitata nei suoi poteri:

Ed infatti quando la Città nostra capitolò, e diede facoltà a Cesare di Lodare, e riordinare il governo, era in estrema necessità, che una Potenza straniera per Dignità riverita, e per la sua autorità temuta, s’intromettesse per sedare le differenze civili, e Legare dei partiti, ed in somma per a Lei giovare, e trarla della sua ultima rovina; poiché non si presume mai, che una Repubblica si spogli di quella autorità datale da Dio, per rivestirne altri, se non perché a Lei giovi, e a’ dilei bisogni provveda. Questo fu il vero senso della Capitolazione, e la vera cagione dell’autorità di Lodare data a Cesare, cessata la quale debbono ancora cessarne gl’effetti. Poiché mal salva sarebbe stata quella Libertà, che in vigore del primo articolo della Capitolazione dovea serbarsi, e mal provveduto sarebbesi a’ dilei bisogni, e minor giovamento recatole, se stato fosse altrui conceduto di potere di Lei disporre in ogni congiuntura, e per sempre.195

L’intero discorso del Corsini mira dunque a negare qualsiasi dipendenza feudale del Granducato dall’Impero, limitando l’intervento di quest’ultimo negli affari della repubblica al solo stato di necessità. La sua nozione di libertà repubblicana è quella che la storiografia ha definito “libertà verso l’esterno”, in sostanza indipendenza:

Quindi è che tornando noi Popoli Fiorentini nel nostro primiero stato di libertà, a noi solo sarebbe lecito, o nuovamente metterci in soggezione, o restar liberi, potendo l’uomo far ciò che vuole, quando non ne sia impedito, o dalla forza, o dalla ragione. Ma perché la prima cosa è turpe, violenta, ed illecita, e non richiede alcuna difesa d’ingegno non potendosi reprimere, se non colla forza, della quale noi siamo sprovveduti, m’appiglio solamente a dimostrare, che alcuna ragione non impedisce alla Fiorentina Repubblica quella naturale, ma nel nostro temuto caso, funesta libertà d’eleggersi un sovrano, o di restar libera, quando il sommo Dio contro di essa sdegnato volesse privarla del mansueto, giustissimo governo della Casa de’ Medici.196

194 Ivi, c. 47v-48r. 195 Ivi, cc. 48r-v.

196 Ivi, c. 44v. L’obiettivo del Corsini è quello di evitare l’ingerenza straniera

nella successione richiamandosi alla forza della ragione piuttosto che alle ragioni della forza, e con perfetta circolarità – avendo posto all’inizio della minuta la

A questo fine era di ben maggiore utilità per l’autore ricorrere agli storici, per affermare l’originarietà della potestà sovrana della repubblica, che non evocare, come Antinori, riferimenti giusnaturalistici con il loro corollario contrattualistico.

premessa sopra citata – conclude il suo ragionamento con la seguente frase: «mai sarà d’uopo, e molto men di ragione, che una Potenza Straniera delle nostre private cose s’ingerisca. Voglia pur dunque l’Onnipotente Iddio, che la ragione abbia in ogni tempo il Suo Luogo, e che la violenza, e la forza non la deprimano», ivi, c. 49r.