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Con la questione successoria si apre, quindi, e si perpetua poi a lungo, quella mobilitazione intellettuale che si può in senso lato attribuire a quelli che la storiografia ha definito i “giuristi di stato”. È in questione lo statuto internazionale del Granducato, ed è anzitutto attraverso questo carattere internazionale che si può comprendere la ripresa di attualità del giusnaturalismo, del resto già annunciata dall’intento solo parzialmente erudito della tesi del Sutter. La chiamata di professori e intellettuali a collaborare attivamente a campagne di propaganda di stato non era certo una novità per l’Europa di Luigi XIV. Si trattava di giuristi che erano chiamati a munire di buone ragioni le pretese territoriali, o di altro genere, che gli stati, spesso, si riservavano di sostenere in ben altra maniera. Nel caso di un piccolo stato come la Toscana, la rivendicazione della libertà di designazione successoria era indirizzata proprio verso chi poteva negarla, cioè l’Impero, ma successivamente questa pamphlettistica giuridica si sarebbe potuta rivolgere genericamente all’“opinione pubblica” internazionale.

Il ricorso al giusnaturalismo di Grozio e Pufendorf come fondamento ultimo del diritto pubblico degli stati, in assenza di norme con valore “costituzionale”, appare evidente nel Discorso sopra la

successione della Toscana del Senatore Niccolò Antinori,145 presentato

a Cosimo III nel 1711. L’impostazione e le auctoritates usate dall’Antinori, nella sua duplice veste di Consigliere di Stato e di

145 Niccolò Francesco Antinori (1663-1722), formatosi col sostegno dello stesso

Cosimo III presso le università di Roma, Salamanca e Parigi, dall’agosto del 1699 al gennaio del 1722 ricoprì la carica di Auditore Presidente dell’Ordine di S. Stefano, e Soprintendente degli Studi di Pisa e di Firenze. Nell’agosto del 1700 entrò a far parte del Senato fiorentino, divenendo poi Consigliere di Stato; fu in diverse occasioni inviato granducale per difendere l’autonomia della Toscana durante la guerra di successione spagnola.

membro del ceto senatorio, rappresentano anche un’anticipazione (e un modello) per altri interventi sulla medesima questione.

Scritto in una congiuntura cruciale per la questione successoria, il Discorso dell’Antinori del 1711 era destinato a sostenere in termini giuridici gli interessi dello stato e della famiglia medicea. A questo fine il senatore fiorentino era chiamato a trattare i seguenti punti: 1. escludere che a seguito dell’eventuale ammissione della successione femminile a favore di Maria Luisa si destassero pretese da parte dei Farnese146 e dei Borbone, discendenti dei Medici per via femminile, gli

uni da Margherita (1612-1679), gli altri da Maria (1575-1642), a subentrare nelle contese successorie; 2. assicurare l’unità dello stato, dunque riaffermando la forma di governo granducale (in quanto con la ricostituzione dell’antica repubblica fiorentina l’Austria non avrebbe acconsentito all’unione del Senese e degli altri feudi imperiali allo “Stato Vecchio”);147 3. sostenere comunque un assetto costituzionale in

cui il Senato avesse un ruolo centrale di rappresentanza dell’interesse generale del paese e di fondamento legittimante del potere sovrano; 4. affermare la legittimità di una designazione successoria anticipata da parte di Cosimo III sul duplice ambiguo versante, o della plenitudo

potestatis del granduca regnante, ovvero della restitutio al Popolo della

sovranità.

Antinori percorre tutto l’arco delle motivazioni giuridiche producibili, per così dire, in ultima istanza: dal richiamo alla volontà inespressa del legislatore originario ad una designazione ispirata all’equità naturale, o infine, francamente, al diritto del Popolo (rappresentato dal Senato) di preservare la salus reipublicae. È in quest’ultima funzione “costituente” che i testi di Grozio e Pufendorf

146 Si veda la missiva di Carlo Rinuccini al granduca, L’Aia, 23 ottobre 1710,

ove si riportano i colloqui con il conte Sanseverino, ministro della corte di Parma, trascritta in Robiony, Gli ultimi dei Medici cit., p. 104, nota 2.

147 Si veda la lettera di Carlo Rinuccini al granduca, del 26 febbraio 1711, in

cui l’inviato mediceo riporta una conversazione avuta con il cancelliere imperiale Zinzendorf, citata in Robiony, Gli ultimi dei Medici cit., p. 113, nota 2.

sono prevalentemente richiamati. Tuttavia, al fine di comprendere come il giusnaturalismo dovesse necessariamente essere combinato sul terreno pratico-politico con fonti normative e dottrine con cui i giuristi toscani avevano una più antica consuetudine,148 appare utile

considerare le fonti di questo densissimo testo e cercare di classificarle. Il testo dell’Antinori è suddiviso in tre articoli: tutta la prima parte, quella cioè che comprende i primi due articoli, si fonda principalmente sulla dottrina giuridica relativa alle successioni, basata sulla giurisprudenza delle grandi corti (soprattutto le decisiones della Rota Romana) e sulla letteratura giuridica corrente utile a sostenere le singole tesi dell’autore: da Luca da Penne a Marta, da Covarrubias a Da Ponte, De Luca etc.

L’esclusione delle femmine dalla successione nel governo della Repubblica Fiorentina, una volta estintasi la linea mascolina del granduca Cosimo I, è dimostrata facendo riferimento alle disposizioni del Lodo del 28 ottobre del 1530 e del Diploma imperiale del 30 settembre 1537. Tuttavia, per affermare l’esclusione del diritto dei Farnese e dei Borbone ad accedere alla successione medicea, e per assicurare l’unità dello stato, rimanevano da stabilire due fondamentali questioni, relative a: 1. i maschi discendenti per linea femminile; 2. la devoluzione del governo ad altri rami della famiglia dei Medici non discendenti da quelli cui era appartenuto il papa Clemente VII.

L’esclusione dei maschi discendenti per linea femminile è sostenuta principalmente attraverso i testi di Marco Antonio Pellegrini, De fideicommissis, di Giovanni Battista de Luca sempre sui fedecommessi, e citando le diverse decisiones della Rota Romana. Antinori infatti puntualizza che non si trattava di esaminare una disposizione data secondo l’ultima volontà di colui che aveva «un pieno,

148 Si veda l’accurato saggio di D. Marrara, Il “processo” per tirannide

celebrato contro il duca Alessandro de’ Medici. Problemi storico giuridici, «Bollettino

ed assoluto Dominio sopra ciò di che dispone […]. Ma bensì di una concessione per via di arbitramento, o contratto, come dir si voglia, in cui cessando le considerazioni, che si hanno per le disposizioni testamentarie sotto nome de’ descendenti maschi vengono i soli maschi di maschio».149

Inoltre Antinori richiama il fatto che nella Lega di Barcellona e nel Lodo, e in ogni altra disposizione, si «ebbe solo in mente di provvedere alla famiglia di sua Santità, et a stabilire perfettamente l’ingrandimento della medesima», e dunque «che in simili disposizioni ordinate specialmente al benefizio, e splendore dell’agnazione, restano non solo escluse le femmine, ma che sotto nome de descendenti maschi non son compresi quelli, che da esse descendono».150

Anche l’esclusione dalla successione dei membri degli altri rami della famiglia Medici è dimostrata richiamando in vari luoghi i passi del Lodo e della sua fonte, ossia la “Lega” o “confedereazione” tra Clemente VII e Carlo V (stipulata in Barcellona il 29 giugno 1529), in quanto secondo l’Antinori si doveva prestare particolare attenzione «alle convenzioni suddette per bene intendere la mente dell’Imperatore nel susseguente suo Lodo»,151 e attraverso i testi dottrinali sulle

successioni e la giurisprudenza delle grandi corti.

Cosimo I era succeduto ad Alessandro in qualità del più prossimo per «libera elezione fatta di lui dal Senato», e Antinori avverte:

Che però con gran ragione poteva persuadersi il Senato essere ammissibile la persona di Cosimo come descendente dal detto Magnifico Lorenzo, verificandosi in esso le qualità necessarie di descendente maschio, e d’agnato: poco importando, che la detta qualità di descendente si verificasse in lui per via di femmine escluse dalla successione del Principato, mentre

149 N. Antinori, Discorso sopra la successione della Toscana fatto, e presentato

all'Altezza Reale del Serenissimo Gran Duca Cosimo 3° dal Senator Prior Niccolò Antinori Consigliere di Stato, e Presidente dell'Ordine Militare di S. Stefano l'anno 1711, in ASF, Auditore poi Segretario delle Riformagioni, 236, cc. 1r-29v, (c. 5r.)

150 Ivi, c. 6r. 151 Ivi, c. 9v.

succedendo egli in virtù de’ propri, e naturali suoi requisiti, non poteva fargli ostacolo per l’effetto suddetto la personale incapacità della madre.152

Secondo Antinori

[…] fuori delle stesse precise circostanze, l’esaltazione di Cosimo I non fa stato in altri descendenti per linea femminina, che non siano insieme dell’agnazione; né per li agnati trasversali più remoti, et oltre il decimo grado, fuori del quale rispetto a questi (ciò che sia quanto ai descendenti dal comune stipite e stirpe regnante153) non si dà regolarmente alcuna legittima

successione, né comprensione a favor del più prossimo della famiglia: né per quelli tampoco, che avuta considerazione al tempo più immediato alla disposizione di che si tratta non erano assolutamente riconosciuti come della stessa propria famiglia del Papa, nella quale si pensava di perpetrare il Principato della Patria già introdotto nella medesima.154

Un altro gruppo di riferimenti presenti nella prima parte, ancora occasionale nell’Antinori, ma destinato – come si vedrà più oltre – ad essere sempre più frequente nei testi sulla libertà fiorentina, sono le trattazioni storiche della città di Firenze.

Sul punto dell’esclusione dalla successione dei membri degli altri rami il senatore Antinori utilizza le storie fiorentine di Benedetto Varchi, Jacopo Nardi, Bernardo Segni e Scipione Ammirato,155 per

esaltare la centralità del Senato dei Quarantotto nell’assetto politico- istituzionale del Granducato e garantire gli interessi della famiglia di Cosimo III.

152 Ivi, c. 15r.

153 Su questo punto si cita, oltre al Pellegrini, al Covarrubias etc. anche il De

jure belli ac pacis di Grozio (libro II, cap. 7, n. 23).

154 Ivi, cc. 15v-16r.

155 Verga ha opportunamente segnalato che questo tipo di storie circolavano

ampiamente in forma manoscritta. In particolare, le storie del Varchi, del Segni e del Nerli furono pubblicate solo nei primi decenni del Settecento, ossia quando gli esponenti del ceto dirigente erano impegnati in un complesso confronto sull’assetto politico e costituzionale dello stato. La Storia fiorentina di Benedetto Varchi sarebbe stata edita nel 1721, le Storie fiorentine di Bernardo Segni nel 1723 ed i Commentarj

dei fatti civili occorsi dentro la città di Firenze di Filippo de’ Nerli nel 1728. Negli

stessi anni, il curatore delle dette edizioni, Francesco di Marco Settimanni, avrebbe anche lavorato alla ristampa dei quattro libri dell’opera di Donato Giannotti Della

repubblica fiorentina (1721 e 1722), in cui si trattava sia della forma di repubblica più

adatta a Firenze, sia della storia delle repubbliche fiorentine passate (1494-1523, 1527-1530). Cfr. Verga, Da “cittadini” a “nobili” cit., pp. 34-43.

L’uso giuridico della storiografia sembra indirizzato a dimostrare sia che l’esercizio delle magistrature cittadine si era conservato all’interno della sola linea di discendenza di Giovanni d’Averardo de’ Medici, sia che la legittimità della successione di Cosimo I ad Alessandro era dovuta alla funzione del Senato di rappresentanza degli interessi generali della res publica.156

La legittimità di questo passaggio è giustificata dall’Antinori con il fatto che Cosimo I era stato chiamato alla successione per «libera elezione fatta di lui dal Senato», e l’esser più prossimo al defunto Duca Alessandro era stato «considerato semplicemente per un motivo opportuno di congruenza per far cadere in lui l’elezione ad esclusione delli altri competitori». La verità di questa circostanza è appunto fondata sulle storie fiorentine che riportavano il «gran contrasto, che fu suscitato in Senato sì per stabilire la forma del futuro Governo, come per la scelta della Persona, in cui collocarsi dovesse l’assoluta potestà del medesimo, di che fanno menzione concordemente – ricorda il senatore – tutti gli Istorici fiorentini».157 Per Antinori, se Cosimo I «non

avesse dovuta interamente al Senato la suddetta elezione, difficilmente si sarebbe indotto a confessarla per tale, e renderla pubblica a tutto il Mondo in tante memorie, in cui fece pompa di riconoscere la Sua Dignità dal pieno e libero consenso del Senato».158 Inoltre, ricorrendo all’autorità di Benedetto Varchi, Antinori riporta il discorso del

156 Scrive l’Antinori: «Che il Principato della Repubblica fiorentina, i di cui

principij furono originariamente fondati da Giovanni di Averardo de’ Medici, e stabiliti viepiù da Cosimo Padre della Patria, e da Lorenzo Suoi figlioli, continuò poi successivamente sempre appresso i descendenti del prefato Giovanni e finalmente appresso Ippolito, et Alessandro, che lo godevano, e ne furono spogliati nel tempo medesimo del Ponteficato mediante il decreto del loro Esilio dalla città, senza che siasi esteso mai, et accomunato ad altre linee più remote, e da gran tempo separate da quelle formate da figlioli di detto Giovanni, che unicamente può, e deve riceversi, e riconoscersi per il primo Autore del superiore ingrandimento et esaltazione di questa Casa», ivi, cc. 10v-11r.

157 Ivi, c. 13v. Antinori indica in nota il libro VIII delle Storie fiorentine di

Bernardo Segni e l’orazione funebre in onore a Cosimo I, presente negli Opuscoli di Scipione Ammirato.

plenipotenziario imperiale Giovanni Antonio Muscettola durante la consegna alla Signoria di Firenze del Lodo cesareo del 1530, in cui Muscettola aveva chiarito che: «doppo la discendenza del Duca Alessandro doveva appartenere il Governo al più prossimo della Casa de’ Medici della linea di Cosimo, e di Lorenzo fratelli, e figlioli di Giovanni de’ Medici».159

Sarei propenso a classificare come altro importante gruppo di

auctoritates quelle relative all’esercizio della sovranità, il cui utilizzo si

rileva soprattutto nel terzo ed ultimo articolo del Discorso dell’Antinori, in cui, trattandosi del «Ben pubblico», si argomenta a favore di un’interpretazione restrittiva che escluda dalla successione tutti gli agnati non discendenti dai rami cui era appartenuto il papa Clemente VII. Per ragioni prudenziali non si cita il testo principe della teoria della sovranità, la République di Jean Bodin, ma il suo usuale sostituto: il De republica di Pierre Grégoire. In più, proprio per l’indiretto destinatario del Discorso, l’imperatore Carlo VI, nel testo dell’Antinori si citano anche i massimi giuristi imperiali, come Henning Arnisaeus, Christoph Besold, Arnold Clapmar e Samuel Pufendorf.160

Nel caso della successione granducale Antinori avvisava che non si trattava di Regni, e Principati Ereditari, ma bensì di «Principati [che] sono stati conferiti dal Popolo ad una certa famiglia per esser perpetuamente governati dalla medesima, ch’è il caso nostro», concludendo dunque con il sostegno del combinato disposto del De jure

naturae et gentium (lib. VII, cap. 7, § 2) di Pufendorf e del De jure belli ac pacis (lib. II, cap. 7, n. 15) di Grozio.161

159 Ivi, c. 16v. Qui si indica il libro VII della Storia fiorentina di Benedetto

Varchi.

160 Di Henning Arnisaeus si citano i testi, De republica, seu Relectionis

politicae libri duo, e Doctrina politica; di Christoph Besold si richiamano i Dissertationum nomicopoliticarum libri tres...; mentre di Arnold Clapmar si utilizza il De arcanis rerumpublicarum libri sex.

Superando la «ragione legale», nel terzo articolo del suo Discorso, Antinori passa ad «esaminar la materia – l’esclusione dalla successione dei membri degli altri rami della famiglia Medici – colla sola ragione della pubblica convenienza, e su i fondamenti di un’altra Giurisprudenza unicamente regolatrice della successione delli Stati».162

Occorreva infatti sottolineare «la gran differenza, che passa fra le private successioni, e le pubbliche», sostenendo che per queste ultime, «non ricevendo norma dalle sottigliezze delle Leggi Civili, ma dalla sola suprema Legge della salute del Popolo, alla quale unicamente, e non al benefizio delle private famiglie sono ordinate […] conviene, che la superiore autorità del pubblico bene prevaglia, e si distingua da tutti i rispetti del ben privato».163

La conclusione cui giunge il senatore è chiara, e presentata come necessaria:

[…] è altrettanto infallibile, che se doppo quasi dugento anni di Dominio nella Casa Regnante con tanto accrescimento di magnificenza, e Dignità (oggetti tutti, che lusingano nei Popoli in mezzo alla sommissione la loro più giusta ambizione) si avesse a trasferire questa Maestà in una famiglia rimasta allora, e poi vissuta sempre in condizione di privata, come quella di ogni altro nobile per il solo riguardo dell’agnazione, resterebbe subito sotterrato in un abisso di oscurità lo splendore, la Dignità, le Alleanze e finalmente la Reputazione, e con essa la sostanza del Principato per far necessariamente subentrare in luogo loro nel Popolo l’irreverenza, ne Nobili di fortuna più mediocre l’emulazione, ne più ricchi, e poderosi la deserzione della Patria, ne spiriti fazionarij i Partiti, l’introduzione delle Potenze Straniere per sostenerli, ne Cervelli sediziosi la turbolenza, ne poveri l’oppressione, e per tante fatalità unite assieme l’ultimo esterminio, e desolazione dello Stato».164

Nella traslazione della sovranità andavano evitati i fattori di conflitto del corpo sociale. Dunque «preveduti da tutti i maestri della buona Politica tanti sconcerti, e sì lacrimevoli per inseparabili dal caso di che si tratta, hanno servito loro di motivo per persuader sempre come fatale la traslazione della sovranità nelle famiglie private; e dato

162 Ivi, c. 20r. 163 Ivi, c. 20v. 164 Ivi, cc. 23r-v.

per precetto – rimarca l’Antinori – anche ne Principati puramente elettivi di collocarla sempre nel sangue avvezzo a regnare che porta con se medesimo tutti i requisiti per conciliarsi l’obbedienza, e l’amore».165

Per assicurare l’unità dello stato, «il quale essendo composto dello Stato vecchio trasferito nella Casa Regnante dalla Repubblica, e del nuovo infeudato con altre Province nella sola descendenza masculina del Gran Duca Cosimo I», secondo l’Antinori «quel che più importa è l’escludere qualunque Agnato, o estraneo che non sia creduto capace di preservar lo Stato dal gran male della mentovata divisione, e sue conseguenze; et applicare solamente a quello, nella persona del quale concorrino i maggiori requisiti per impedirlo, seguitando anco in ciò le massime di quella giurisprudenza, ch’è la più propria della materia».166 E di questa giurisprudenza, non a caso, oltre a Suarez,

erano parte integrante proprio Grozio e Pufendorf, da cui si desumeva sia il valore della «tranquillità, e conservazione dello Stato», secondo i principi della “retta ragione”, sia il primato decisivo della “salute della Repubblica”.167

L’obiettivo era infatti quello di dimostrare, aggiungendo alle

auctoritates anche Francisco Suárez, col suo Tractatus de legibus, ac Deo legislatore, che gli estensori del Lodo avevano mirato a preservare

la «tranquillità, e conservazione dello Stato»168 escludendo tutti gli

agnati; qualsiasi altra intenzione, produttrice «adesso [di] effetti sì alieni dalla retta ragione, non può presumersi;e quando pur fusse tale – puntualizza il senatore fiorentino – , non deve attendersi: volendo

165 Ivi, c. 23v. Su questi punti si citano Claude de Seyssel, l’Arnisaeus e

Pufendorf (De jure naturae et gentium, lib. VII, cap. 7, sub. § 12).

166 Ivi, cc. 23v-24r. 167Ivi, cc. 24v-25r.

168 Ivi, c. 24v. Qui Antinori cita il De jure belli ac pacis di Grozio (libro II, cap.

16, paragrafi 22 e seguenti), il De jure naturae et gentium di Pufendorf (libro V, cap. 12, par. 19), e il Tractatus de legibus, ac Deo legislatore di Suarez (libro VI, cap. 1, par. 17).

ogni legge, che perischino piuttosto le conseguenze di un intento sì mostruoso, che la salute della Repubblica».169

L’Antinori esplicita il principio d’eccezione sopramenzionato sia attraverso l’Arnisaeus: «è massima indubitata appresso i Giuristi, che le leggi anche fondamentali, e specialmente le successioni de’ Principati, e de’ Regni abbino sempre in lor medesime eccettuata la necessità, o utilità estrema della repubblica, onde resti giustificato in qualche occorrenza non avvertita l’arbitrio della contravvenzione, o di un nuovo provedimento»,170 sia attraverso Grozio e Pufendorf: «perciò è

non pur conveniente, ma necessario, che quelli appresso de’ quali è la pubblica autorità, abbino ancora un egual libertà di esimere dall’osservanza tutte le contingenze, che gli stessi Autori della Legge esimerebbero a benefizio della pubblica convenienza, se fossero presenti».171

Partendo da questo principio, Antinori passa a sostenere la legittimità di una designazione successoria anticipata. Nel testo si legge:

[…] essendo la mancanza della successione in un Principato un successo di sua natura calamitoso, il miglior consiglio per render meno sensibile un sì gran male, è quello di prevenire il caso della vacanza colla destinazione del successore per instituirlo poi nel Governo doppo la morte dell’ultimo possessore: poiché venendo così a tener luogo di legittima, e natural successione questa anticipata destinazione, si confortano i Popoli mirabilmente, e ritorna al primo vigore l’amor loro, e zelo per il Bene della Patria col persuadersi, che stabilito una volta a chi si deva obbedire doppo l’estinzione della Stirpe Regnante, non patirà lo Stato quei gran sconcerti, che

169 Ivi, c. 25r. Le note dell’Antinori richiamano, oltre a il discorso di Besold, De

arcanis rerumpublicarum (presente alla fine dell’opera di Clapmar, De arcanis rerumpublicarum libri sex), di nuovo il De jure belli ac pacis di Grozio (libro II, cap.