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disputatio tra diritto romano e diritto naturale

La «radicale trasformazione» e il «profondo mutamento» dello studio del diritto nell’Università di Pisa è attribuito dalla storiografia all’insegnamento del sanminiatese Niccolò Buonaparte.74 A lui si fa

risalire quella scuola giuridica cui appartennero Bartolomeo Chesi (laureatosi nel 1625), Pietro Paolo Borromei (1636), Antonio Rilli (1671), Filippo Buonarroti (1683), Giovanni Buonaventura Neri Badia (1680), Giuseppe Averani (1684), Bernardo Tanucci (1719), Antonio Niccolini (1723), Leopoldo Andrea Guadagni (1724), Pompeo Neri (1726), Giulio Rucellai (1727) e Anton Maria Vannucchi (1746).75

L’introduzione delle opere dei giuristi “culti” (Jacques Cujas, Antoine Favre, François Duaren, Hugues Doneau), segna, con il Buonaparte, l’inizio della corrente pisana del neocultismo, il quale, individuando quale requisito necessario per la comprensione del diritto la diretta conoscenza delle fonti, da analizzare con metodo filologico e storico, segnava però, allo stesso tempo, il distacco dalla tradizione dei commentatori e l’apertura verso le scuole giuridiche europee. In sostanza, l’attenzione verso il giusnaturalismo può essere considerata parte del complessivo spirito innovatore. Del resto, come si è accennato, anche senza cattedre specifiche il diritto di natura era insegnato a Pisa da docenti come Bonaventura Neri Badia e Giuseppe Averani, e studiato dai loro allievi, nell’ambito del ius civile, giacché tornare alle fonti del diritto romano significava rientrare in contatto anche con i principi generali del diritto.

74 Carranza, L'Università di Pisa e la formazione culturale del ceto dirigente

toscano del Settecento cit., p. 498; Id., Monsignor Gaspare Cerati cit., p. 13 e nota 9;

cfr. Buonamici, Della scuola pisana del diritto romano cit. p. 20.

75 Per le date di addottoramento, si veda ora D. Barsanti, I docenti e le

cattedre dal 1543 al 1737, in Storia dell’Università di Pisa 1343-1737 cit., vol. 1, t. II,

pp. 505-568, che aggiorna e completa quanto descritto in R. Del Gratta - M. Giunta,

Libri Matricularum 1543-1737, Università di Pisa, 1980 e in L. Ruta, Acta Gradum Academie Pisanae, III, (1700-1737), Università di Pisa, 1980.

Le tracce dell’interesse per gli autori del moderno diritto di natura, ben prima dell’istituzione della cattedra di «Jus pubblico, o sia del Diritto di Natura e delle Genti» nel 1738, sono del resto confermabili anche attraverso i dati relativi alle raccolte librarie private e pubbliche a disposizione di studenti e professori dello Studio pisano. A riprova della precoce presenza di testi classici del giusnaturalismo moderno può essere indicativa una sommaria ricapitolazione delle sole edizioni seicentesche rivenute nei cataloghi “storici” delle collezioni librarie dei professori Guido Grandi e Giuseppe Averani, del Collegio Ferdinando di Pisa, e nel catalogo dell’attuale Biblioteca Universitaria. Da questa selezione emerge che l’autore più presente è Grozio (di cui si sono rilevate 14 copie delle sue opere), cui seguono Pufendorf (con 7), Hobbes (5), Leibniz e Bynkershoek (dei quali è stata registrata, per ciascuno, una sola edizione seicentesca).

Di Grozio si sono rinvenute – oltre le tre copie della sua opera sul diritto giustinianeo Florum sparsio ad ius Iustinianeum, i tre esemplari di testi di argomento storico-geografico, nonché una copia delle Dissertationes de studiis instituendis del 1645, delle Poemata

omnia del 1670, e una del De imperio summarum potestatum circa sacra del 1677 – due copie del Mare liberum e tre del De jure belli ac pacis. Tra le opere di Pufendorf, la più diffusa è il De statu Imperii Germanici, di cui si sono riscontrate tre copie; tra quelle di Hobbes, si

sono contate quattro copie del De cive, delle quali – occorre tuttavia segnalare – solo una è risultata presente anche nel periodo di interesse di questa ricerca.76 Circa l’appartenenza antica, appunto, si segnala

che la copia del De jure belli ac pacis del 1673, a cura di Johann Georg Simon, e comprendente anche una copia della Dissertatio De Mari

76

Delle quattro copie del De cive, ben tre, ossia l’edizione tradotta in francese da Samuel Sorbière del 1649, quella del 1657 e quella del 1696, sono da ricondurre al tardo legato Piazzini del 1833-4.

libero, era presente nel catalogo della libreria di Giuseppe Averani;77

l’editio princeps del Mare liberum (1609) risulta essere stata a disposizione dell’ateneo pisano sin dalla donazione delle collezioni Medicee, alle quali va ricondotta anche la presenza di una delle due edizioni del 1667 del De statu Imperii Germanici di Pufendorf;78

l’edizione del 1696 del De cive di Hobbes, in cui erano presenti le lettere di Pierre Gassendi e Marin Mersenne, era tra i libri della biblioteca di Guido Grandi.

Dei due professori Giovanni Bonaventura Neri Badia e Giuseppe Averani, non vi sono ancora a disposizione studi specifici. Del primo la storiografia ha rammentato in più occasioni l’impegno nel «richiamare i principi del Giusto e dell’Equo da fonti della Natura e del Gius pubblico» fino ad allora trascurati – come già scriveva il Lami nelle sue «Novelle letterarie» – per meglio interpretare lo spirito delle leggi, gli statuti e le consuetudini dei diversi popoli;79 Neri Badia, del resto,

dedicò solo pochi anni all’insegnamento, divenuto lettore di istituzioni civili nel 1683, e straordinario nel 1686, già dal 1689 avrebbe lasciato la carriera universitaria per ricoprire il ruolo di auditore nelle maggiori magistrature medicee. Ma anche nella sua attività di magistrato, ossia nei suoi responsi in campo pubblicistico, Edigati ha rintracciato elementi giusnaturalistici.80 I connotati del suo pensiero giuridico sono

77 Quella del 1680, a cura di Nicolaas Blankaart e Johannes Fredericus

Gronovius, con annessa la Dissertatio De Mari libero, risulta essere appartenuta al lettore di istituzioni civili presso lo Studio pisano, dal 1720 al 1734, Iacopo Tiburzio Tommaso Monti.

78 Due opere dell’autore sassone, una copia della Einleitung, nell’edizione

tradotta in francese da Claude Rouxel, del 1687-89, e la editio princeps del De officio

hominis et civis del 1673, risultano essere appartenute all’arcivescovo pisano Angelo

Franceschi (1735-1806). Si è inoltre registrata la presenza di una copia, rispettivamente, del De habitu religionis Christianae ad vitam civilem del 1687, proveniente dal legato Piazzini, e del Jus feciale divinum nell’edizione del 1695.

79 «Novelle letterarie» del 1742, III, p. 177, passo trascritto in M. Verga, Note

sugli anni pisani di Bernardo Tanucci e sulla controversia pandettaria con Guido Grandi, «Ricerche storiche», 1984, XIV, 2-3, p. 435.

80 Giovanni Bonaventura Neri Badia (1657-1742), abbandonata la carriera

universitaria e nominato giudice ordinario a Siena nel 1689, sarebbe stato promosso alla carica di auditore della Rota senese nel 1694, passato alla Rota fiorentina nel

stati dunque indentificati nella valorizzazione della conoscenza storica, del diritto di natura e del diritto pubblico quali fonti e fondamento della scienza giuridica.

Le notizie su Giuseppe Averani sono invece più numerose.81 La

storiografia ha infatti più volte insistito sull’importanza del contributo offerto dall’Averani per la formazione del ceto dirigente della Toscana.82 Laureatosi presso l’Università di Pisa nel 1685, fu originale

continuatore del cultismo giuridico, ossia dello studio filologico e storicizzante del diritto romano, e dal 1687 ricoprì, presso il medesimo ateneo, la cattedra di diritto civile col ruolo di ordinario, cessando però l’attività d’insegnamento, per motivi di salute, intorno al 1724. Filosoficamente ispirato dalla lezione platonica piuttosto che da quella cartesiana-malebranchiana fu nominato dal granduca “Istruttore e Maestro” del giovane figlio Gian Gastone sia per le istituzioni civili che per gli studi di fisica.83 La sua fama attirò diversi studenti e uomini di

cultura sia italiani che stranieri. Sotto la sua direzione il Brenckman studiò le Pandette medicee e in seguito agevolò l’edizione, a cura del

1697, vi sarebbe rimasto fino al 1719, anno in cui divenne auditore della Consulta, cfr. Edigati, Neri Badia, Giovanni Bonaventura, in Dizionario biografico dei giuristi

italiani cit., l’autore nota che Neri Badia sarebbe stato ancorato alla tradizione di

diritto comune nelle decisioni in ambito privatistico, e aperto agli indirizzi giusnaturalistici pufendorfiani nei responsi in campo pubblicistico; Carranza,

L'Università di Pisa e la formazione culturale del ceto dirigente toscano del Settecento

cit., pp. 508-510.

81 Cfr. N. Carranza, Averani, Giuseppe, in DBI, 1962, vol. IV, pp. 658-9. 82 Tra coloro che con lui si laurearono vanno almeno nominati Giovanni

Battista Maures, Scipione de’ Ricci, Giulio Parasacchi, Antonio Niccolini e Pompeo Neri; numerosissimi poi gli esponenti dell’intellettualità toscana del Settecento che ricavarono dai suoi insegnamenti elementi sostanziali per il loro percorso formativo così da poter essere considerati a pieno titolo suoi allievi; tra questi si annoverano Bernardo Tanucci, Leopoldo Andrea Guadagni, Giulio Rucellai, Angelo Tavanti, Anton Filippo Adami, Cosimo Amidei, Francesco Benedetto Mormorai, Angelo Maria Bandini e Francesco Seratti. Cfr. Carranza, L’Università di Pisa e la formazione

culturale del ceto dirigente toscano cit., pp. 514-522.

83 Di Averani si loda l’ecletticità degli interessi, che spaziarono dalla fisica

sperimentale allo studio del greco e della storia antica, non superficialmente trattati ma rigorosamente approfonditi, tanto che Vincenzo Viviani, ancora prima che Cosimo III lo nominasse professore di istituzioni di diritto civile presso lo Studio pisano subito dopo il suo addottoramento, gli propose una cattedra di matematica presso l’Università di Bologna.

Noodt, delle Interpretationes Juris dell’Averani pubblicata, dapprima a Leida e in due periodi – i primi due libri nel 1716 e i successivi tre negli anni che vanno dal 1740 al 1746 – e poi, come opera completa in due volumi, a Lione nel 1751. Tra i letterati esteri che nelle proprie opere testimoniarono la stima nei confronti del professore pisano, l’editore contemporaneo Gaetano Albizzini ricordava tra gli altri il Noodt, il Barbeyrac, il Bynkershoek, l’Heinecke e Le Clerc.84

Seppur esponente di quella cultura giuridica pisana fedele alla supremazia del diritto romano, l’Averani non trascurò le dottrine giusnaturalistiche e contrattualistiche, celebrandone in particolare i principi esposti dal Grozio, che, assimilate ed approfondite, saranno poi presenti nell’opera dei suoi più dotati allievi. La posizione dell’Averani circa il giusnaturalismo è espressa in modo chiaro e sintetico da un passo dell’orazione funebre dedicatagli da Antonio Niccolini – recitata nell’accademia funebre allestita a Palazzo Corsini il 28 aprile del 1745 – dove l’allievo ricordava che il perduto maestro:

avanti a tutti ci additò, quanto facilmente al possesso della Ragione della natura, e delle genti si possa pervenire, purché, per conseguire il primo, di buona Filosofia, madre di ogni perfetto discorso, e in ispecie di quella parte di essa, che il bene considera, come giusto, onesto, e decoroso, voglia l’uomo guarnirsi, profittando degli utilissimi lumi, che in gran copia incontrandosi nel corpo delle Romane Leggi da valorosi Filosofanti composte, ad esso ci stradano; e pel secondo alla Filosofia si aggiunga un ampia notizia degli storici fatti, e dell’uso universale delle Nazioni.85

Ma una prova evidente dell’interesse dell’Averani per Grozio e per le sue teorie sulle questioni fondamentali delle relazioni

84 Cfr. G. Albizzini, Memorie e notizie spettanti alla vita di Giuseppe Averani

avvocato fiorentino, in Averani, Lezioni Toscane cit., pp. XXXI-XXXII, (p. XXVIII),

dove si ricorda che diverse sue osservazioni filosofiche, fisiche e meccaniche furono persino pubblicate negli atti della Royal Society di Londra, di cui fu membro.

85 A. Niccolini, Delle lodi di Giuseppe Averani. Orazione funerale del March.

Antonio Niccolini Accademico della Crusca. Detta da lui pubblicamente in essa Accademia il dì 28 Aprile 1745, in Averani, Lezioni Toscane cit., tomo II, p. XXIV,

indicativamente il Niccolini narrava anche l’episodio in cui l’Averani aveva tenuto, alla presenza del re di Polonia Augusto II, una pubblica lezione in cui trattò l’argomento delle «Rappresaglie alla Ragion delle genti appartenenti».

internazionali86 nei primissimi anni del Settecento, è la De iure belli, et

pacis disputatio del 1703,87 firmata da un suo allievo Philippus

Willelmus Souterus.88 Phillip Wilhelm von Sutter era uno studente

speciale, potremmo dire; nato a Düsseldorf (e qui battezzato il 31 maggio 1681), questi risulta aver incrociato la biografia di Anna Maria Luisa de’ Medici, moglie del principe elettore Giovanni Guglielmo Neuburg, nel periodo in cui la Medici si trasferì presso la capitale del Palatinato (luglio 1691-ottobre 1717). Inoltre, ragionevolmente in virtù dell’ufficio del padre Johan Daniel von Sutter, alto funzionario di stato (membro del consiglio di guerra) del Palatinato, Philip Wilhelm intrattenne rapporti con la corte; nel 1704 compare, infatti, col titolo di consigliere aulico (Hofrat), nonché marito di una dama di compagnia della Elettrice Palatina, di origine turca, battezzata col nome di Anna Maria Maddalena Luisa Medici.

La De jure belli, et pacis disputatio, che già nel titolo testimonia l’intenzione di cimentarsi con la riflessione sull’ordine internazionale, presenta un elogio del sovrano Cosimo III de’ Medici particolarmente interessante; questo è fondato sulla capacità del granduca di conservare il proprio paese in pace durante un periodo di vicende belliche che avevano coinvolto sia l’Europa, che l’Italia. Il governante è dunque elogiato per la sua politica di neutralità, ed è proposto come

86 L’attenzione per Grozio presso gli ambienti intellettuali dell’Università di

Pisa è stata opportunamente indagata in relazione al problema dell’ermeneutica, e dunque all’opera del professore Averani, Interpretationes iuris, su questo si veda Spagnesi, L’insegnamento del diritto a Pisa dal principio del ’700 all’Unità cit., pp. 31-42.

87 Phillip Wilhelm von Sutter (francesizzato De Souter), De jure belli, et pacis

disputatio sub clementissimis auspiciis regiae celsitudinis Cosmi 3. magni Etruriae ducis in Pisana Academia publice propugnanda proponitur a Philippo Willelmo de Souter Germano sub praesidio Josephi Averanii in eadem Academia juris civilis professoris ordinarii, Florentiae, typis Regiae Celsitudinis, Apud Petrum Antonium

Brigonci, 1703.

88 Per notizie biografiche sui Sutter si può consultare anche il sito

www.ahnenforschung.net; sul viaggio di P. W. in Italia sono in corso ricerche archivistiche.

modello di governo che non ha avuto bisogno dell’uso delle armi perché sufficientemente armato di giustizia:

De Jure Belli, et Pacis disputaturus de tuis maximis laudibus cogor, Clementissime Principum, cogitare. […] Quis enim non jure miretur in tam turbida tempestate, qua concutitur Orbis terrarum, et maxima regna belli fluctibus pene obruuntur, te ad reipublicae clavum sedentem hos omnes turbines, et procella, et aestus declinasse, et tranquillo mari navigari? Quis, quum videat ardentem Europam, ardentem Italiam bello, Etruriam vero solam communis expertem incendii, non obstupescat? Sed nimirum tua virtus est altior, quam ut ullo belli turbine, aut flamma possit afflari; et quemadmodum Olympus excedere nubes dicitur; sic ea major humano fastigio, omnibus circa horribili tumultu concussis, et perturbatis, perpetua tranquillitate perfruitur. Nec Tu opus habes armis, quum justitia satis armatus esse videaris, quae complexa pacem indissolubili foedere cum ea conjungitur; et ostendis exemplo esse verissimum dictum, quod Agesilaus fortissimus, et sapientissimus Rex usurpavit; nihil opus futurum bellica virtute, si justitia a mortalibus coleretur.89

Una tale celebrazione della politica neutrale del sovrano mediceo è ancor più valorizzata – per contrasto – dalla concezione che l’autore ha della guerra come dato originario del diritto delle genti; questa idea è ripresa e approfondita nella tesi I, «Datur Pax: datur Bellum. Illa est juris naturalis; hoc a jure gentium est introductum». Così già dai primi passi emerge che le guerre vanno considerate come introdotte tra i popoli dalla «ratio naturalis», ma vanno regolate dal diritto delle genti.90 Poiché la natura non aveva distinto i dominii, né aveva

previsto gli schiavi, e neppure la guerra, a queste esigenze aveva supplito il diritto delle genti; pur tuttavia – l’autore sottolinea ancora una volta – il diritto delle genti non ha annullato il diritto naturale che è immutabile:

Primum, quia bellum est contra statum naturalem potius, quam contra jus naturale; neque enim pax est ex praecepto juris naturalis, sicut nec communio rerum, nec libertas hominum. Secundum statum naturalem res communes sunt; homines liberi sunt; tranquilla pax floret; non quia ita praecipiat jus naturale; sed quia natura neque dominia distinxit, neque

89 Sutter, De jure belli, et pacis disputatio cit., pp. 3-5, della dedica rivolta

dall’autore al granduca Cosimo III de’ Medici.

quemquam servum fecit, neque bellum instituit. Quod natura non fecerat, supplevit jus gentium. Supplendo autem non tollit jus naturale.91

Questa concezione è ripresa, come si vedrà, nella tesi IX. Illustrando poi la distinzione tra stato naturale e diritto naturale, l’autore conclude sostenendo che la guerra, sebbene sia contro lo stato naturale, venga soprattutto, «maxime», intrapresa non tanto per sovvertire, ma piuttosto per conservare lo stato di natura, così come per curare il malato, questi può essere tormentato dai medici: «Praeterea licet bellum sit contra statum naturalem, tamen finis belli est statui naturali maxime consentaneus. […] Quare bella gerentur non ad evertendum, sed ad conservandum statum naturalem; quemadmodum sanitatis causa a medicis torquentur aegroti».92

La dissertazione continua presentando, in quindici tesi, un’articolata esposizione dei maggiori temi del bellum iustum e dello

ius belli, ossia della giustificazione e della legalità di una guerra,

attraverso un’erudita esposizione delle auctoritates antiche e moderne, e tra quest’ultime è proprio Grozio ad occupare un posto di rilievo col suo De jure belli ac pacis.

Grozio è citato principalmente per spiegare le diverse specie di guerra, difensiva, offensiva, giusta e ingiusta. Tuttavia una distinzione significativa deve essere notata: nelle tesi IV e V, dedicate ai differenti generi di guerra, Grozio viene annoverato tra i “teologi”, assieme al Diana, ad Agostino, al Bellarmino, al Molina; mentre, nella tesi IX, a sostegno della necessità di conservare la promessa e la giustizia anche con i nemici, Grozio è ricordato con i giuristi, tra i quali Hotman, Hunnius e Vinnius.

91 Ivi, p. 9.

92 Ibidem. Occorre notare che a sostegno di tale tesi l’apparato di allegazioni è

esclusivamente classico: i passi citati sono tratti dal Corpus giustinianeo, dalle

Philippicae e dal De officiis di Cicerone, concludendo con una citazione dall’epistola

Circa la tesi IV, «Bellorum duo genera sunt: alterum defendendi: alterum offedendi causa suscipitur»,93 si osserva che l’enunciato su cui

si fonda: «Belli justa causa est injuria» è sostenuto sulla base di tre autori, Agostino, Grozio e Bellarmino, cui viene apposta la formula residuale «et omnes Theologi». In particolare, di Agostino si citano la

Quaestio 10 al libro di Giosuè e il libro IV del De Civitate Dei; di Grozio,

il De jure belli ac pacis, lib. II, cap. I, e di Bellarmino, il De Laicis, lib. III, cap. XV. Nella tesi V, «Utrumque belli genus justum esse potest; si et legitima auctoritate, et justa de causa suscipiatur»,94 l’autore

esordisce con l’affermazione che la guerra in difesa di se stessi non solo è giusta ma è necessaria, citando il Pro Milone e il De officiis di Cicerone, assieme al De rhetorica ad Alexandrum di Aristotele; mentre più avanti, riepilogando quanto già espresso, afferma che difendersi con la forza contro la forza è permesso da tutte le leggi. Anche per la prima definizione del genere di guerre giuste si cita Cicerone, De

officiis, lib. I, mentre il De jure di Grozio (lib. II) è citato là dove si

illustrano le giuste cause delle guerre secondo quanto definito dai teologi, tra i quali sono citati, oltre a Grozio stesso, Diana, Molina, Bellarmino, ma anche Lipsio;95 con tutto ciò, l’autore maggiormente

citato lungo tutta la tesi V è Agostino.

La tesi IX, «Fides tamen hosti data, sive a belli Duce, sive a privato servanda est», si apre con le allegazioni di Agostino, di Quintiliano, e di Ambrogio,96 cui segue l’intervento dell’autore volto a

spiegare come esistano dei diritti comuni tra le parti belligeranti, e

93 Ivi, p. 15. 94 Ivi, p. 16. 95 Ivi, p. 18.

96 Ivi, p. 26. Di Agostino si cita nuovamente l’epistola 189 Ad Optatum

episcopum Milevitanum (ove si pone la questione di quando venga fatta una

promessa, e questa si debba mantenere anche nei confronti del nemico contro il quale si fa guerra, la stessa vada mantenuta tanto più nei riguardi di un amico a vantaggio del quale si combatte), di Quintiliano si riporta un passo delle Declamationes, secondo cui la fides è il supremo vincolo delle cose umane, ed è sacra la lode della fides tra nemici, mentre si ricorda che per Ambrogio appare che anche in guerra sia necessario conservare la fides e la giustizia.

come tali diritti corrispondano al diritto delle genti: «Est enim nobis etiam cum hostibus communio juris gentium […]. Jura communia cum hostibus sunt ipsum jus gentium, quod commune omnium hominum jus est». Sulla scorta di Seneca, Quintiliano, Demostene, Apuleio, Cornelio Nepote e Lattanzio, il diritto delle genti è considerato comune a tutti gli uomini e ciò appare essere funzionale alla necessità di dimostrare che rispettare i patti è conforme alla uguaglianza naturale: