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Nelle rispettive storie della cultura giuridica moderna in Europa, sia Tarello, che Cavanna avvertivano che per evitare vane forme di ipostatizzazione, è necessario affrontare lo studio dei movimenti dottrinali anche attraverso la ricostruzione del processo di mutamento dell’istruzione giuridica. Entrambe ripercorrevano dunque le tappe della frantumazione e differenziazione del modulo universale di educazione giuridica di origine medievale, osservando che attraverso il portato di mutamenti storici quali la Riforma, lo sviluppo assolutistico dello stato e il pensiero umanistico, già nel corso del Cinquecento l’unicità e identicità dello studio e dell’insegnamento del diritto si erano andate scomponendo. Tale processo avrebbe investito, dalla seconda metà del Seicento, le istituzioni universitarie europee continentali, e queste si sarebbero andate riformando col fine di adeguarsi alle necessità pratiche correlate ai contesti storico-politici dei diversi territori, elaborando programmi d’insegnamento nei quali il diritto romano e il diritto canonico non costituivano più la totalità delle materie di studio.52 In Francia la riorganizzazione degli studi avvenne

attraverso l’ordinamento universitario predisposto da Colbert e sancito da Luigi XIV nel 1679, in corrispondenza alle finalità politiche dell’assolutismo monarchico e all’esigenza di fornire ai licenziati una preparazione utile innanzitutto alla pratica forense di magistrati- giudici e avvocati. Nell’area germanica il rimodernamento degli studi seguì piuttosto l’esigenza pratica di fornire un’adeguata conoscenza del sistema imperiale agli studenti di legge per attrezzare la loro attività di futuri burocrati; a tale scopo si introdussero corsi di ius publicum, già nella prima metà del Seicento nei territori protestanti, ma solo

52 Cfr. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna cit., pp. 98-105; A.

Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, Milano, Giuffrè, 1982-2005, vol. I, pp. 369-377 e vol. II, pp. 53-59.

intorno alla metà del Settecento nelle università cattoliche.53 La prima

cattedra di diritto naturale in Europa risale al 1660, ossia alla nomina di Pufendorf a professore di filosofia e di diritto di natura e delle genti, «philosophiae et iuris naturae ac gentium», presso la facoltà di filosofia dell’Università di Heidelberg. Cattedre con titoli simili sarebbero poi state istituite anche nelle facoltà giuridiche, e anche per questa nuova materia si sarebbe assistito a una diversa diffusione a seconda degli orientamenti protestanti oppure cattolici delle istituzioni ufficiali del sapere.

Per ricostruire le forme di recezione delle dottrine del moderno diritto naturale nel Granducato toscano durante la prima metà del Settecento, è dunque opportuno osservare quando e soprattutto come nello Studio pisano i corsi universitari accolsero gli insegnamenti di questo tipo. Come è stato ricostruito in più occasioni dagli interventi storiografici dedicati alla storia della cultura del Granducato e dell’Università di Pisa, il paradigma dominante degli ambienti intellettuali toscani della prima metà del Settecento corrisponde alla tradizione culturale cattolica, e i connotati dell’Università di Pisa possono essere rappresentati dall’ortodossia aristotelico-scolastica nelle discipline filosofiche e dal neocultismo per gli insegnamenti giuridici, almeno fino agli anni Trenta.54 Così, prima di passare ad illustrare

l’articolazione dei programmi d’insegnamento filosofico-giuridici in vigore presso lo Studio pisano negli ultimi anni della dinastia medicea, può essere opportuno ricordare rapidamente le date in cui furono istituite le cattedre di diritto naturale nell’area austro-germanica, con particolare riferimento, appunto, ai territori dominati dalla tradizione culturale cattolica.

53 Cfr. M. Stolleis, Storia del Diritto Pubblico in Germania, I. Pubblicistica

dell’ Impero e Scienza di Polizia 1600-1800, Milano, Giuffrè, 2008, p. 308.

54 Cfr. R. Pasta, Editoria e cultura nel Settecento, Firenze, Olschki, 1997; Id.,

Fermenti culturali e circoli massonici nella Toscana del Settecento, in Storia d'Italia. Annali, vol. XXI, Torino, Einaudi, 2006, pp. 447-483.

Presso l’Università protestante di Halle l’istituzione di una cattedra di diritto naturale avvenne nel 1694, ma nelle università austriache gestite dai gesuiti, la difesa dell’ortodossia ostacolava la circolazione delle opere giusnaturalistiche, perché intese come diretta emanazione della cultura protestante, e identificate come pericolosamente sovversive in relazione alle vicende di alcuni stati protestanti, in cui le dottrine del moderno diritto naturale erano servite a giustificare la resistenza all’imperatore e la difesa delle libertà individuali. Relativamente alla cultura ufficiale austriaca sono dunque da ricordare le fondazioni di cattedre di diritto naturale presso le università cattoliche di Freiburg im Breisgau, ricoperta da Siegmund Stapff, nel 1716; di Salisburgo, che rimaneva tuttavia sotto l’influsso benedettino, nel 1722; di Innsbruck nel 1733, anno in cui una cattedra di diritto naturale e storia dell’Impero, affidata a Paul Joseph Riegger, allievo di Stapff, era intesa essenzialmente a conciliare le teorie giusnaturalistiche all’ortodossia cattolica; di Praga nel 1748, affidata a Franz von Bourgignon. Solo con la riforma del 1753 la gestione delle università sarebbe stata sottratta ai gesuiti per sottoporla al governo, e solo così nei nuovi piani di studio la rilevanza del diritto romano e canonico sarebbe stata ridotta. In seguito a ciò, dunque, presso l’Università di Vienna sarebbe stato affidato a Riegger un corso «specificatamente giurisdizionalista», e soprattutto, nel 1754, sarebbe stata istituita una cattedra di diritto naturale, il cui insegnamento, affidato a Karl Anton Martini, venne previsto perfino come corso obbligatorio del primo anno «divenendo la base di tutto l’insegnamento giuridico».55

Per l’area italiana, la storiografia ha ben registrato la difficoltà della penetrazione del giusnaturalismo, con l’eccezione del Regno di Napoli, dove verso la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII è stato

accertato un risveglio intellettuale critico nei confronti della tradizione aristotelico-scolastica.

Per quanto riguarda lo Studio pisano, un prezioso articolo di Danilo Marrara ha puntualmente verificato come, a distanza di quasi due secoli, fosse ancora in vigore la normativa statutaria di Cosimo I, la quale prescriveva, oltre all’orario, anche i libri di testo delle discipline fondamentali per l’ateneo.56

Per illustrare quanto tali decreti imponessero una sostanziale ortodossia aristotelica negli insegnamenti filosofici si può ricordare che: i docenti di logica, svolgendo i loro corsi biennali propedeutici, dovevano spiegare, ad anni alterni, gli Analytica priora e Analytica

posteriora di Aristotele; i professori di filosofia naturale, ossia di fisica,

erano tenuti nel corso del proprio triennio ad adottare i libri aristotelici

Physica, De caelo, De anima, De generatione et corruptione, Meteorologica e gli scritti compresi sotto il titolo Parva naturalia;

l’insegnante di metafisica era anch’egli costretto, durante i suoi corsi biennali, a spiegare la Metaphysica aristotelica. A ciò si aggiunga che pure le importanti cattedre di matematica e di filosofia morale (quest’ultima particolarmente rilevante per ricostruire il corso che ebbe nello Studio pisano l’insegnamenti di diritto naturale) erano vincolate ad autori e dottrine classiche: sulla prima, trasferita al collegio dei teologi allorché venne assegnata all’abate camaldolese Guido Grandi (1714/15), incombeva l’obbligo d’insegnare gli Elementa di Euclide, le opere di Archimede e i Libri Conicorum di Apollonio Pergeo; sulla seconda, seppur non prevista dagli statuti, gravava l’onere di esporre l’aristotelica Ethica Nicomachea o più genericamente di trattare delle virtù «iuxta veterum philosophorum sententias».

Per ricostruire la didattica del corso di laurea in scienze giuridiche, ossia in utroque iure, è opportuno ricordare che le discipline

56 Cfr. Marrara, Le cattedre ed i programmi d'insegnamento dello Studio di

fondamentali del corso erano appunto il diritto civile, cioè il diritto romano comune,57 e il diritto canonico. Gli studenti infatti non si

sarebbero potuti presentare all’esame di laurea senza produrre le “fedi di dottorato” conseguite nei tre livelli stabiliti per questi insegnamenti, rispettivamente affidati agli istitutisti, agli straordinari e agli ordinari. Dei corsi propedeutici erano incaricati gli istitutisti: quelli civili dovevano provvedere a spiegare ogni anno, leggendone esclusivamente il testo con le glosse, uno dei quattro libri delle Institutiones giustinianee e, analogamente, erano tenuti a fare i colleghi canonisti per i quattro libri delle Institutiones Iuris Canonici. Ai professori straordinari i ruoli prescrivevano l’insegnamento di alcune parti del

Corpus Iuris Civilis e del Corpus Iuris Canonici ad integrazione dei

corsi dei loro colleghi ordinari. Su quest’ultimi gravava l’incarico di interpretare, qualora fossero professori di diritto civile, le sezioni del

Corpus Iuris Civilis pertinenti sia al Digestum Vetus che al Codex

(nelle cattedre antimeridiane), sia al Digestum Infortiatum che al

Digestum Novum (nelle cattedre pomeridiane); se professori di diritto

canonico erano vincolati ad illustrare le decretales pontificie raccolte nel Corpus Iuris Canonici. Negli ultimi anni del Granducato mediceo scomparvero i corsi straordinari di diritto canonico e furono presenti alcuni insegnamenti non previsti dagli statuti come il diritto feudale e il diritto criminale, nei quali venivano commentati, rispettivamente, i

Libri Feudorum ed alcuni titoli del libro XLVIII del Digesto.58

57 Per diritto comune si intende quel diritto residuale che si applica a tutti

eccetto le deroghe costituite dalle leggi particolari applicate a determinati tipi di persone, beni e rapporti. Nel corso del XVIII secolo negli antichi Stati italiani il sistema giuridico era organizzato sulla distinzione tra il diritto comune suppletivo e il diritto particolare dello stato (legislazione, usi e consuetudini), quindi il diritto generale ammetteva moltissime deroghe fondate su diritti particolari originati da antichi privilegi o dall’appartenenza ad alcune categorie di persone. Per “diritto generale” si intende il sistema costituito dal diritto proprio dello stato più il diritto comune; nei primi anni del secolo il rapporto tra il diritto generale e il diritto canonico si sarebbe rivelato particolarmente difficile. Cfr. Tarello, Storia della

cultura giuridica moderna cit. pp. 29-30 e 93-94.

58 Cfr. Marrara, Le cattedre ed i programmi d’insegnamento dello Studio di

Di fronte a questi programmi d’insegnamento è stato osservato che furono tuttavia numerosi quei professori che nel corso della seconda metà del Seicento, rivendicando la propria autonomia didattica, si impegnarono per affermare la libertas philosophandi. Ai cosiddetti novatori, che avevano preferito l’atomismo e il metodo galileiano alla fisica aristotelica, si contrapposero però tenacemente coloro che, sulla base dei precetti statutari, asserivano l’obbligo giuridico per i docenti di aderire senza riserve agli insegnamenti di Aristotele.59 In particolare, per la facoltà di legge, l’impostazione

didattica sopra descritta richiamava ampiamente quella tradizionale, tutta incentrata sui commenti al Corpus Iuris Civilis e Canonici; come si è visto solo alcuni insegnamenti si vennero emancipando dalla sistematica del corpus giustinianeo. È dunque necessario riconoscere

discussione settecentesca sull'insegnamento del diritto patrio, «Bollettino storico

pisano», 1983, LII, pp. 17-42. In particolare, per la cattedra di diritto feudale si ricorda che questa fu occupata da Anton Maria Vannucchi dal 1750 al 1792 anno della sua morte; cfr. E. Micheli, Storia dell’Università di Pisa dal 1737 al 1859, Pisa, 1879, ristampa anastatica, Pisa, A. Forni, 1988, p. 39. La istituzione delle cattedre di diritto criminale e feudale è fatta risalire dal Buonamici direttamente a Cosimo I; cfr. F. Buonamici, Della scuola pisana del diritto romano, «Annali delle università toscane», 1874, XIV, p. 19.

59 Del gruppo dei novatori Marrara ricorda soprattutto: l’ordinario di

matematica Alessandro Marchetti, che con le sue taglienti Risposte de’ filosofi ingenui

e spassionati, falsamente detti Democritici, alle obiezioni e calunnie de’ Peripatetici

(11 ottobre 1670) può essere considerato una sorta di portavoce dell’intero gruppo; l’ordinario di medicina teorica Pascasio Giannetti e l’ordinario de morbis mulierum Giuseppe del Papa. Fra gli epigoni dei novatori sono poi annoverati: i “filosofi” Carlo Taglini e Giovanni Lorenzo Stecchi, del primo si deve rammentare la Lettera

filosofica scritta all’Illustrissimo Signor Marchese Gabriello Riccardi, Firenze, 1729,

dove si critica apertamente l’impostazione tradizionalista della didattica dei peripatetici; i medici Niccolò Gualtieri e Antonio Terenzoni, ma pure l’abate camaldolese Guido Grandi, successore di Marchetti alla cattedra di matematica sin dal 1714, in particolare per la sua Q. Lucii Alphei Diacrisis in secundam editionem

Philosophiae Novo-Antiquae R. P. Thomae Cevae cum notibus Jani Valerii Pansi,

Augustoduni (ma Pisa), 1724, e il giurista Giuseppe Averani le cui polemiche contro Aristotele e i peripatetici sono rinvenibili nella raccolta delle sue dissertazioni dal titolo Lezioni Toscane, Firenze, Gaetano Albizzini, 1744-1761. N. Carranza, Prospero

Lambertini e Guido Grandi, «Bollettino storico pisano», 1955-56, XXIV-XXV, pp. 200-

242, indicava trai professori pisani ascrivibili al gruppo dei novatori: Carlo Rinaldini, Alfonso Borelli, Antonio Oliva, Alessandro Marsili, i fratelli Averani, Benedetto Migliorucci, Pascasio Giannetti, Lorenzo Bellini, i Rilli, Gherardo Capassi, Donato Rossetti, Alessandro Marchetti e pure Guido Grandi; tra gli allievi sono ricordati: Carlo Taglini, Pompeo Neri, Giulio Rucellai, Bernardo Tanucci, Leopoldo Andrea Guadagni, Tommaso Perelli e Antonio Niccolini, ivi, pp. 206, 211-212.

che l’articolazione didattica in vigore presso l’Università di Pisa anche nell’ultimo periodo della dinastia medicea, dunque ancora nei primi decenni del XVIII secolo, era improntata sulla tradizione aristotelico- scolastica.

Come si è premesso, la storiografia ha individuato il terminus a

quo del rinnovamento culturale dell’ateneo pisano negli anni Trenta.

Già gli studi di Niccola Carranza avevano ampiamente ricostruito il «piano sistematico ed organico» messo in atto dall’oratoriano parmense Gaspare Cerati (nominato provveditore dell’università dal granduca Gian Gastone de’ Medici nel 1733) per il superamento della crisi ereditata dagli anni del Granducato di Cosimo III. È opportuno ricordare, infatti, che il sovrano mediceo era intervenuto anche direttamente, affinché nelle cattedre pisane ci si attenesse alle dottrine aristotelico-scolastiche senza raccogliere l’eredità galileiana e le teorie che si ispiravano a Democrito. Il nuovo provveditore Cerati promosse il suo programma, muovendosi su tre direttrici: quella disciplinare per riportare l’ordine all’interno della vita universitaria; quella didattica tendente sia al reclutamento di professori dalle provate capacità professionali, sia all’istituzione di nuove cattedre atte ad insegnare materie rinnovate nella loro impostazione didattica; e infine, quella amministrativa volta a regolare gli aspetti finanziari e burocratici.60

60 Cfr. N. Carranza, Monsignor Gaspare Cerati, provveditore dell’Università di

Pisa nel Settecento delle riforme, Pisa, Pacini, 1974, durante gli anni in cui ricoprì

l’incarico di provveditore dello Studio pisano (1733-1769) il Cerati promosse e raggiunse diversi risultati, tra i quali si devono ricordare: l’istituzione della cattedra di diritto naturale e delle genti (1738), così come quella di chimica, di astronomia (1740), la creazione della Biblioteca Universitaria (1742), la costruzione della specola astronomica (1746), l’istituzione della cattedra di fisica sperimentale (1748), il riordinamento del Museo di storia naturale, l’istituzione del laboratorio di chimica, oltre all’impulso dato alla preparazione professionale di chirurghi e notari. Tra i docenti che sostennero e consigliarono il provveditore Cerati sono ricordati: Guido Grandi, Giuseppe Averani, Giovan Lorenzo Berti, Tommaso Vincenzo Moniglia, Dioniso Remedelli, Leopoldo Andrea Guadagni, Anton Maria Vannucchi e Fulgenzio Belelli, mentre tra coloro con i quali sorsero dissidi e polemiche si registrano i soli Raimondo Adami e Giovanni Gualberto De Soria.

Le idee di riordinamento del provveditore possono essere tratte dalla sua Memoria circa il numero e la qualità delle cattedre del 1738. Per gli insegnamenti filosofici il Cerati proponeva un riordinamento delle cattedre di logica, fisica e metafisica; in particolare, la metafisica veniva posta come materia del terzo anno in modo tale da costituire la necessaria – secondo l’impostazione filosofica del Cerati – continuazione della logica e della fisica. Il rammarico del Cerati nella constatazione dello scarso interesse che gli studenti prestavano all’insegnamento della metafisica è esplicito nel suo scritto: il provveditore, invece, considerava la metafisica «tra le Scienze Naturali […] la più sublime […con] il pregio di sollevare la mente dagli oggetti materiali e di fecondarla d’altri principij, per conoscere le cagioni e le proprietà universali di tutte le cose, siccome ancora gli attributi delle sostanze spirituali, e principalmente della suprema di tutte, che è l’Ottimo e Massimo Dio».61

Per quanto attiene al giusnaturalismo, è necessario ricordare che nel corso filosofico così riorganizzato il provveditore Cerati avrebbe desiderato, oltre all’istituzione di una cattedra di fisica sperimentale e storia naturale (questo sarebbe avvenuto solo nel 1748), sopprimere la cattedra di filosofia morale consigliando di istituire al suo posto la cattedra di «Jus Naturale e delle Genti». A tale riguardo, nella stessa

Memoria del 1738, Cerati si esprimeva in maniera assai precisa:

Si potrebbe bensì, col progresso del tempo, sopprimere la cattedra di Filosofia Morale, e ciò per due ragioni. La prima perché, quantunque una tal disciplina sia molto utile e nobilissima, contuttociò nessuno scolare s’applica seriamente ad apprenderla. La 2ª perché erigendosi la cattedra del Jus Naturale e delle Genti, si provvederebbe abbastanza che non mancassero gli insegnamenti principali della moral Filosofia, essendo quella scienza una Filosofia sublime del Giusto e dell’Ingiusto e la fonte non meno di tutte le leggi, ché de’ doveri naturali dell’uomo, in qualunque stato, o sotto qualsivoglia relazione in cui accada di riguardarlo.62

61 Ivi, appendice II, p. 323. 62 Ibidem.

Nel 1738 tale lettura sarebbe stata in realtà “ricostituita” nella facoltà giuridica, in quanto, seppur per un brevissimo periodo, questo insegnamento era già stato attivato e affidato a Pompeo Neri, figlio del professore Giovanni Bonaventura Neri Badia, negli anni accademici 1727/28 e 1728/29.63 E nella sua Memoria il provveditore faceva notare

questa circostanza, ossia che quella «nobile ed utilissima lettura» non era del tutto nuova per l’Università di Pisa, «ma essendo poi egli [Pompeo Neri] stato trasferito allo Studio di Firenze, quello di Pisa è rimasto privo del professore di una scienza tanto feconda e sublime».64

Nella poco successiva Relazione dello stato presente dell’Università di

Pisa composta nel maggio 1738,65 il Cerati sottolineava, inoltre, come

«una Cattedra di Jus Naturale e delle Genti, in cui un eccellente Professore insegnasse la sublime Filosofia del Giusto e dell’Ingiusto e discuoprisse la fonte di tutte le Leggi, sarebbe d’ornamento e di vantaggio segnalato alla stessa Università».66 Ripristinata, dunque, nel

1738, questa cattedra fu assegnata a Francesco Niccolò Bandiera di Siena, che, seppur definito dal provveditore e storico dello Studio pisano Angelo Maria Fabroni di scarsa dottrina e privo d’ingegno, contribuì con i suoi corsi alla diffusione del pensiero di Grozio.67

63 Cfr. Micheli, Storia dell’Università di Pisa cit., p. 38 e p. 46; Marrara, Le

cattedre ed i programmi d'insegnamento dello Studio di Pisa nell’ultima età medicea (1712-1737) cit., p. 113; Id., Pompeo Neri e la cattedra pisana di “diritto pubblico” nel XVIII secolo, «Rivista di storia del diritto italiano», 1986, LIX, pp. 173-202, in

particolare p. 177.

64 Carranza, Monsignor Gaspare Cerati cit., appendice II, p. 319.

65 In parte riportata in Carranza, Monsignor Gaspare Cerati cit., appendice

III, pp. 332-342.

66 Ivi, p. 260.

67 Cfr. Micheli, Storia dell’Università di Pisa dal 1737 al 1859 cit., p. 38 e 46;

Marrara, Pompeo Neri e la cattedra pisana di “diritto pubblico” nel XVIII secolo cit., p. 188. Marrara suggerisce l’ipotesi che il Bandiera avesse adottato come manuale il testo di Philipp Reinhard Vitriarius, Institutiones Juris Naturae et Gentium in usum

Serenissimi Principis Cristiani Ludovici Marchionis Brandenburgici ad methodum Hugonis Grotii; questo testo, sorta di sintesi del De jure belli ac pacis del Grozio,

sarebbe stato ampiamente lodato e in uso anche presso altri atenei come quelli di Pavia e di Parma. I ruoli indicano il Bandiera in cattedra fino al 1765, a partire dal 1769 Giovanni Maria Lampredi avrebbe iniziato a leggere in privato il diritto di natura e delle genti (seguitando quindi a leggere in pubblico il diritto canonico fino al 1773), e sarebbe divenuto ordinario della cattedra di “diritto pubblico” solo nel 1773,

Sembra opportuno ricordare che nella sua Memoria il Cerati aveva proposto anche la riattivazione di «una cattedra delle Pandette»;68 scomparsa da quasi cento anni, questa cattedra sarebbe

stata reintegrata nei ruoli solo a partire dal 1742, anno in cui venne assegnata a Leopoldo Andrea Guadagni che la mantenne fino al 1785.69

Questa proposta può essere fatta rientrare nel già accennato processo di emancipazione di alcune materie dalla sistematica del corpus giustinianeo, favorito a quell’epoca anche dalla diffusione nella penisola del filone culturale del neocultismo (che in questo Studio espresse esponenti di fama internazionale come l’Averani).

La effettiva ricostituzione a Pisa della cattedra di diritto naturale e delle genti sin dal 1738, fa apparire questa università come più aggiornata rispetto agli atenei delle altri stati italiani. A Pavia l’insegnamento sarebbe comparso per la prima volta solo nel 1742, a Napoli nel 1750, a Modena e a Parma nel 1768. Tarello ha fatto notare che solo a seguito delle riforme dell’istruzione superiore, poste in essere nel corso degli anni Settanta, la nuova cattedra avrebbe assunto una maggiore consistenza e continuità.70

La storiografia ha infatti riscontrato che elementi dottrinali del