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Quarto Capitolo Lo spazio condiviso

4.3 Dislocazioni e mobilità in rimozione

Il complesso rapporto esistente tra territorio, mobilità (in)sostenibile e processi identitari rappresenta una delle questioni più controverse che è dato osservare all’interno del contesto bosniaco il che implica la necessità di accennare innanzitutto dell’aspetto relativo ai diversificati movimenti di popolazione che hanno interessato e interessano tuttora questa porzione di Balcani.

L’alternarsi di diversi esodi di popolazioni, nel quadro delle operazioni di scambio che hanno visto come protagonisti soggetti loro malgrado in movimento e in particolare, i numerosi episodi di “mobilità forzata”, oltre ad avere innescato svariati processi di

140 Si tratta di una festività religiosa musulmana che si celebra due volte nel corso di un anno: Ramazam-

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ridefinizione identitaria, hanno concorso anche a de/ristrutturare lo spazio relazionale, arrivando a incidere inevitabilmente sulle tradizionali traiettorie di mobilità e sulle stesse scelte di un possibile “rientro” (Jansen, 2007; 2011).

A causa della guerra circa due milioni di persone, corrispondente a metà della popolazione complessiva del paese, è stata costretta ad abbandonare la propria casa, costretta a dislocarsi in altri territori, in termini di trasferimenti interni o verso destinazioni estere.

Secondo stime dell’UNHCR, al 2010, coloro che hanno fatto ritorno in Bosnia risultano essere complessivamente 1.029.056 persone di cui 449.365 fuggite all’estero e 579.691 sfollati “interni”, rifugiati in quelli che sono di fatto diventati veri e propri “cantoni etnici” 141, e comunque in luoghi diversi da quelli di origine.

I cd. “ritorni delle minoranze” (minority returns), in territori in cui la loro etnia di appartenenza non rappresenta la maggioranza sarebbero, sempre secondo la stesse stime, complessivamente 469.594142.

Una conferma a quest’ultimo dato, potrà però giungere solo col censimento che si terrà nel 2013: fino a quella data, infatti, non si può affermare con certezza quanti siano coloro che, pur avendo fatto ritorno nei territori da cui sono fuggiti, abbiano effettivamente deciso di rimanervi oppure abbiano deciso di optare per la pratica dello “scambio”, ricorrendo cioè alla vendita delle proprie case di origine con contestuale trasferimento verso altri luoghi in cui sentono di costituire parte della “maggioranza”. Tale dubbio, dell’effettivo avvenuto “ritorno”, trova conferma anche in alcune delle testimonianze raccolte:

“Parlo per me, ma ti assicuro che conosco molte persone che hanno fatto la mia stessa scelta. Sono originario di un paese dell’Erzegovina. Ma ora preferisco vivere qui. Non ho paura di ritornare, capisci? Ho solo paura di non ritrovare più quello che avevo lasciato. La mia casa l’ho venduta, tramite un’agenzia”. (Testimonianza 96, Foca, 2010, Cfr.

Appendice).

141 Si registra comunque un netto miglioramento rispetto al passato. Infatti, secondo i dati forniti dall’Alto

Commissario ONU, nel 1999 il ritorno in Bosnia si attestava sul dato di 610.000 persone di cui 340.000 rifugiati all’estero e 270.000 sfollati interni. sul dato complessivo.

142 Sempre secondo le stime del 1999, all’epoca si contavano solo 100.000 persone rientranti nella

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In particolare la mancata rielaborazione della fuga è ricondotta non solo alla particolare conseguenza della guerra, ma anche a fattori strettamente connessi ai cambiamenti intervenuti all’interno della propria comunità di riferimento:

«Vagare da una terra all’altra in cerca di gente che mi senta sorella di vita e non trovarli, perché dovinque io vada sono sempre straniera. Nonostante questo, puntualmente, appena scendevo dal traghetto, ad Ancona, ritornava la nostalgia, che mi accompagnava per tutto l’anno, fino alla vacanza successiva. È una nostalgia strana la mia; è la nostalgia di qualcosa che non c’è più, è la nostalgia dei miei primi 12 anni, la nostalgia della foto di Tito attaccata in casa, dei pic-nic per la festa del primo maggio, del rito del caffè bosniaco, della musica bosniaca, delle tradizioni assurde e dell’arte dell’arrangiarsi dei bosniaci. È la nostalgia della casa calda e accogliente della nonna, della voce dello zio che mi prendeva sempre in giro, delle storie fantascientifiche del papà, dei parchi dove andavo a giocare e delle strade che percorrevo ogni giorno. Nostalgia di una vita normale, senza troppi colpi di scena; nostalgia della serenità costante. Nostalgia di certi profumi, certe voci del vicinato, particolari colori dell’aria. Ma tutta questa nostalgia, una volta tornata in Bosnia, si scontra con la realtà. E la realtà è una realtà di morte, di miseria» (tratto da Mujčić, 2007: 53).

Chi ha scelto di fare ritorno nel proprio luogo di origine si è trovato di fronte non solo a una vera e propria distruzione materiale del proprio habitat esistenziale, ma anche ad affrontare una realtà sociale completamente diversa, plasmata da nuovi valori e completamente ridimensionata: diventati stranieri nel proprio paese, anche in certi casi neanche ben accolti nelle terre che fino all’inizio degli anni ‘90 erano e sentivano loro, sono stati costretti, in alcuni casi, ad accettare di confrontarsi con questi nuovi universi di significato, a differenza di coloro che invece hanno preferito rinunciare di tornare nelle proprie case, perlomeno stabilmente:

“Tanta gente del mio quartiere è andata via. È riuscita a trovare un lavoro all’estero e ora qualcuna di queste vi fa ritorno solo in estate e non sempre ogni anno. Io no. Sono rimasta qui. E rimango. Non voglio viaggiare. Non posso. Con quello che guadagno dovrei a forza emigrare, trovarmi un posto di lavoro e fare come gli altri. No. Preferisco rimanere qui. Tanto cos’altro vuoi che debba succedere da queste parti?”

(Testimonianza 20, Prijedor, 2010, Cfr. Appendice).

L’evento del “ritorno” (o mancato ritorno) verso quella che è da considerarsi una sorta di “meta sognata”, quel luogo rappresentato dalla “casa” (Black, 2002) depositaria di

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memoria e identità (Brown, 2001), ma anche di rinegoziazione/negazione di appartenenza, è vissuta, in molti casi, in modo contradditorio, soprattutto come testimonia il caso di questo signore che nonostante tutto ha scelto di fare ritorno nella città di Banja Luka:

“Non ho ancora capito perché è successo tutto questo. Da un giorno all’altro ho dovuto lasciare la mia casa, le mie cose, i miei amici. Molti dei miei amici, di Prijedor anche loro hanno dovuto lasciare tutto. Adesso si sono trasferiti a Sarajevo. Anche loro sono di religione musulmana. Avevo tanti amici a Prijedor. Serbi, come adesso si sussurra. Ma io sono cresciuto con loro, ho giocato e sofferto con loro. Sono andato anche in vacanza con alcuni di loro e la mia famiglia. In Croazia. I miei avevano una casa sulla costa, mi pare fosse il 1983. Li avevo invitati a venire con noi anche perché c’era una ragazza che mi piaceva tra loro. Adesso io mi sento uno straniero che vive in un paese che non riconosco come il mio. Infatti non è questo il mio paese. La Jugoslavia era il mio paese”

(Testimonianza 59, Banja Luka, 2010, Cfr. Appendice).

Figura 4.7- Cartelli di promozione del turismo croato a Banja Luka, nella Republika

Srpska di Bosnia (Fonte: Nostro Archivio)143.

143 Le scritte, in cirillico, con cui sono stati imbrattati i cartelli invitano a non dimenticare il 1941-1945 e

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Purtroppo a fronte di un tale tipo di testimonianza che sembrerebbe incoraggiare l’avvio di un processo di riconciliazione definitivo tra le parti, vi è da rilevare specularmente anche la presenza di coloro che costretti loro malgrado in ambienti sociali chiusi, isolati e refrattari, soprattutto con riferimento a quelle generazioni cresciute fra gli orrori della guerra e l’odio inter-etnico, riportano impressioni diverse e mettono in evidenza l’aspetto performativo che l’esistenza di questi “spazi distintivi” esercitano nei processi di ricostruzione identitaria:

“Io sono musulmano. Anche la mia famiglia, quasi tutta a dire la verità perché alcuni parenti di mia madre sono di religione ortodossa. Io non credo però che ho qualcosa da condividere con quelli della Srpska. Loro sono diversi da noi. Dopo la guerra qui è tutto cambiato. C’è stata una crisi economica dopo la distruzione di parte dell’acciaieria che ha da sempre dato lavoro alla gente del posto. Ora si sta ricominciando, ma non è facile. Sono arrivate anche delle imprese estere che hanno comprato molte delle nostre fabbriche, ma non credo che tutto ciò possa bastare per rimettere le cose a posto”

(Testimonianza 9, Zenica, 2010, Cfr. Appendice).

All’attraversamento “fisico” dei confini, deve necessariamente affiancarsi tra l’altro un discorso relativo alla linea di demarcazione mentale che incide sulla ripresa effettiva degli scambi.

La scrittice Mujčić ad esempio racconta:

«Degli amici di un tempo, ne erano rimasti ben pochi. Molti se n’erano andati ancora prima della guerra, altri invece alla fine del conflitto. Vedendo che la situazione non accennava a migliorare, l’emigrazione si era intensificata tra il 1998 e il 2000. Tutti però ritornavano in città per le vacanze. Ciascuno tornava, per pochi giorni o settimane, con un nuovo accento, chi più chi meno in difficoltà con la grammatica della nostra lingua madre. Alcuni, ormai, stranieri o quasi» (tratto da Mujčić, 2009:72).

Il processo di ristrutturazione del senso di appartenenza al territorio, costituisce un ostacolo in termini di ricomposizione di frammenti di una società che nel passato, condivideva pratiche quotidiane comuni resa ancora più evidente se si prende in considerazione un’ulteriore questione, nella quale ci si è imbattuti durante la lettura di articoli e saggi relativi all’area, è la cd. “diaspora bosniaca”, che corrisponde, a livello generale, all’analisi di Appadurai, a proposito della connessione esistente tra le trasformazioni dello stato nazione e appunto i fenomeni diasporici:

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«Uno dei fattori principali che può dar conto delle lacerazioni nell’unione tra stato e nazione è che il genio nazionalista, mai contenuto perfettamente nella lampada dello stato territoriale, è ora diventato diasporico. Trasportato nei repertori di popolazioni sempre più mobili fatte di profughi, turisti, lavoratori ospiti, intellettuali transnazionali, scienziati e immigrati clandestini, questo genio è sempre meno limitato dalle idee di confine spaziale o sovranità territoriale» (Appadurai, 2001: 208).

Nel caso specifico, in uno studio sulla delocalizzazione dei conflitti odierni Demmers (2002) parla di “virtual conflict”. A tal proposito, in alcune delle testimonianze è riportato un sentimento di distanziamento verso coloro che, pur appartenendo alla medesima “etnia”, hanno deciso di abbandonare il paese trovando rifugio all’estero:

“Io avevo un amico che alla fine della guerra si è trasferito in Olanda. Non lo sento più da alcuni anni. Si è rifatto una vita lì. Ha sposato credo una ragazza spagnola. Ma non credo sia felice. Non puoi esserlo quando abbandoni il tuo paese. Un paese distrutto dalla guerra, quando è andato via lui. Ma un paese che è tuo. Io non voglio parlare della guerra. Altri tuoi colleghi mi hanno già fatto delle domande. Non voglio più rispondere. Solo dimenticare. Però quello che posso dirti con certezza è che io nonostante tutto sono rimasto qui. Gli altri sono andati via. E non capisco perché non ritornano. Così riscoppia la guerra. Te l’assicuro”. (Testimonianza 61, Prijedor, 2010, Cfr. Appendice).

Nella capitale della Repubblica Srpska, Banja Luka, situata al confine delle regioni della Krajina (kraj, in serbo-croato, significa per inciso, “fine”), la linea di confine più occidentale che, nei secoli scorsi ha diviso l’Impero austro-ungarico da quello turco, ha rappresentato nel passato uno dei migliori esempi di convivenza e scambio interculturale di quello che è stato il laboratorio Jugoslavia.

L’arrivo di un considerevole numero di profughi serbi dalla vicina Croazia e la contestuale espulsione della popolazione musulmana, ha modificato il quadro demografico della città:

“Non ho deciso io. Sono stato costretto a venire qui. Non è la mia città. Io ho perso tutto. Ora sto rifacendomi una vita ma non è facile. Ho trovato un lavoro come muratore presso una ditta di qui, ma le cose non sono semplici. Siamo tutti serbi. Però non siamo tutti gli stessi. Io sono diverso da loro” (Testimonianza 16, Banja Luka, 2010, Cfr.

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A questo elemento se ne deve aggiungere un altro, specifico di questa particolare area che riguarda il ritorno di molti profughi invece di origine musulmana. Durante la visita alla Trdjava (Figura 4.8) la fortezza della città di Banja Luka attraversata dal fiume Vrbas abbiamo conosciuto Sanja, una donna della RS, che ha dimostrato col suo racconto di essere consapevole che qui nulla può ritornare come una volta:

“La guerra è finita. Ma non è più lo stesso. Io sono di Prijedor ma per molti anni sono stata in Germania. Ho dovuto lasciare la mia casa perché altri hanno preso il mio posto (serbi, nda.). Sono potuta tornare ma ora sono sola. Ho di nuovo la mia casa, è vero, ma non ho più la mia vita di un tempo. Sono ragioniera ma adesso mi adatto a fare qualche lavoretto come rappresentante di cosmetici” (Testimonianza 15, Banja Luka, 2010).

Figura 4.8 Trdjava- Banja Luka (Fonte: Nostro Archivio)

Lo stesso reiterare una verità costruita che manca di rendere conto di un piano “locale” di spartizione della Bosnia tra nazionalisti serbi da un lato e croati dall’altro, contribuisce a restituire l’immagine di come la pulizia etnica oltre a costituire il principale emblema di una guerra fratricida, esemplifica quella condizione “umana”, per parafrase Malraux, che stride con la realtà di un territorio che, a prescindere dalle divisioni, conserva più di un tratto di comunanza culturale:

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«Questa è la Bosnia. Tre diverse opinioni sulla stessa cosa, opinioni diverse, sulle quali non è possibile mettersi d’accordo, e che tuttavia sei costretto ad osservare sorseggiando il caffè. Il buon caffè bosniaco, questa calda, nera bevanda assicura la salvezza di questa repubblica. Non voglio neanche pensare a quando non sarà più possibile prendere assieme il caffè» (citato in Pirjevic, 2001: 125).

Figura 4.9 – Il tipico caffè bosniaco