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Quarto Capitolo Lo spazio condiviso

4.4 La visibilità dei confini invisibil

Come si è visto nei precedenti paragrafi, il supporto materiale insito nella costruzione di un sistema articolato di confini all’interno di una singola entità statale, rappresentata dalla Bosnia Erzegovina, ha contribuito ad ampliare un senso collettivo di percezione della divisione che tende a nutrirsi di pratiche di differenziazioni rispondenti a logiche riconducibili a matrici nazionaliste.

Nulla di eccezionale, se non fosse che tali politiche di divisione avvengono nell’alveo di una “recente” realtà statale che dovrebbe, almeno a livello teorico, riconoscersi quale unica entità, espressione di un sentimento nazionale condiviso.

A ciò si aggiunga un ulteriore elemento di problematicità, fornito dal costante ricorso a diversificati supporti ideologici alla base del processo di frammentazione che è dato evincersi da un’osservazione più attenta.

Si tratta non solo di una volontà di separazione volta a delimitare lo spazio attuale ma anche a ricostruire le biografie non di diverse nazioni, come vedremo nel capitolo successivo, ma di popolazioni che condividono e si contendono uno stesso territorio.

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Siamo ben distanti dalla teoria di Anderson (1996) sulla funzione ideologica assunta dai confini nella costruzione dello stato nazione .

Qui si è piuttosto di fronte a confini interni e persistenti all’interno di uno stesso stato questo sì probabilmente “immaginato”, ma non nell’accezione andersoniana, anche soprattutto con riferimento al perimetro esterno della nazione. In Bosnia è dato piuttosto osservare la tendenza alla differenziazione delle mappe nazionali “interne” che rendono alquanto problematico il costituirsi e il consolidarsi stesso dell’idea di appartenenza nazionale. Anche a fronte dei numerosi tentativi da parte di operatori locali, il più delle volte affiancati da Ong internazionali, di promuovere le ricchezze culturali, paesaggistiche e ambientali custodite dal paese, si continua a percepire questo territorio come “ non sicuro”, tale da suscitare, almeno per i non addetti ai lavori, sensazioni diffusi di timore e diffidenza. Come rileva Luca Leone nel suo libro Bosnia Express:

«Il turismo in Bosnia, semplicemente, non esiste. Basti pensare ai dati delle affluenze del giugno 2010 nella Federazione, a titolo esemplificativo: 42.287 turisti, per complessivi 88.379 pernottamenti, hanno visitato le terre a maggioranza cattolico-musulmana, che annoverano gioielli come Sarajevo, Mostar e Počitelj, oltre alla gettonatissima Međugorje. La maggior parte dei turisti provenivano da Turchia (14,4 per cento), Croazia (11,8) e Slovenia (7,8). Questi dati così miseri, eppure hanno fatto gridare al miracolo, poiché rappresentano in incremento del 25 per cento circa rispetto allo stesso periodo del 2009. Si tratta di cifre ridicole – da media città turistica italiana, francese o spagnola – per un Paese come la Bosnia» (tratto da Leone, 2011a: 137-138).

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In effetti, a parte alcune aree, in cui è dato riscontrare un considerevole afflusso turistico, soprattutto nella regione di Mostar, dove oltre all’omonima città, famosa per il suo famoso ponte (Figura 4.10), si registra annualmente un numero considerevole di presenze di visitatori provenienti da tutto il mondo, tappa tra l’altro obbligata nei tour di pellegrinaggio di Međugorje (Figura 4.11), le altre località del paese rimangono, di fatto pressoché sconosciute (Figure: 4.12; 4.13; 4.14).

Figura 4.11- Medjugorije (Fonte: Nostro Archivio)

La spiegazione a tale situazione, a fronte delle bellezze che custodisce il paese, risulta non essere del tutto univoca. Innanzitutto, si tratta di una questione legata alla promozione a livello internazionale del territorio che, senza necessitare di analisi approfondite, si può affermare con assoluta certezza essere abbastanza scarsa se non del tutto assente.

Secondariamente vi è il fattore riconducibile alla presenza di territori minati che continuano di fatto a rappresentare l’elemento più materiale di ostacolo al libero movimento presente su questo territorio (Mitchell, 2004).

Infine vi è la componente riconducibile ancora una volta alla struttura amministrativa e governativa estremamente frammentata del paese che non contribuisce all’instaurarsi di un’operazione unitaria di promozione del territorio e delle sue risorse.

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Figura 4.12 - Dintorni di Mostar. Il fiume Neretva (Fonte: Nostro Archivio)

Il caso di Mostar e soprattutto la persistenza al suo interno di divisioni irriducibili può aiutare a comprendere meglio il quadro all’interno del quale si sta discutendo, soprattutto con riferimento all’ultima causa individuata che di fatto costituisce un fattore di impedimento allo sviluppo turistico del territorio.

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A distanza di quasi venti anni dalla fine del conflitto che ha sconvolto in modo drammatico un’area che nel passato ha annoverato uno dei più alti tassi di matrimoni misti144 dell’intera Jugoslavia, seconda solo a Vukovar, Mostar rappresenta infatti l’emblema di come le divisioni territoriali conducano sostanzialmente a una situazione di stallo e di riproduzione pressoché infinita di solchi di identità e appartenenze autoreferenziali.

Con la popolazione serba “dislocata” al di là del vicino confine amministrativo della Repubblica Srspska e quella croata e musulmana a contendersi e dividersi il territorio cittadino, situazione conseguente all’espulsione della popolazione musulmana dalla sponda Ovest a quella Est del fiume Neretva145, la città di Mostar è l’emblema tangibile di un confine “costruito” che non ha caratteristiche tali da renderlo visibile, se non attraverso un’analisi più approfondita di quegli spazi condivisi che risultano in definitiva continuamente contesi.

Figura 4.14 - Dintorni di Mostar. Počiteli (Fonte: Nostro Archivio)

144 Il dato costantemente citato di Mostar come città simbolo delle unioni “miste”, rischia di costituire una

sorta di elemento pregiudiziale e di perpetuazione della logica basata sulla distinzione etnica. Tuttavia, in tale sede, si vuole solo rimarcare il fatto che anche un contesto di mescolanza e piena integrazione, non ha affatto costituito un deterrente a tutti gli avvenimenti che si sono incastonati nello scoppio della guerra civile degli anni ’90.

145 Questo fiume, scenario della cd. “Battaglia della Neretva” di cui esiste anche un assai celebre film per

la presenza tra gli attori dello stesso Maresciallo Tito, riporta alla mente il 1943, anno in cui quest’ultimo, insieme ai suoi partigiani, circondati dalle truppe italo-tedesche, riescono nell’impresa apparentemente disperata di sfuggire all’annientamento, trasportando tutti i feriti per impervi sentieri di montagna.

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Le conseguenze delle distruzioni perpetrate ai danni della società civile (soprattutto musulmana) da parte in un primo tempo dalla Jna e dalle milizie serbo-bosniache e successivamente delle forze croate sono ancora incise sulle mura di edifici pubblici e di case private: il susseguirsi di tombe e ossessionanti gare di supremazia religiosa, comporta una operazione di spazializzazione che ha come emblema la separazione di croati e musulmani lungo le due sponde del fiume (rispettivamente a Ovest e a Est).

Figura 4.15- Edificio distrutto a Mostar lungo il Bulevar (Fonte: Nostro Archivio)

La gran parte degli edifici che presentano ancora oggi i segni della guerra si trovano tra l’altro a poca distanza dalla zona turistica del ponte, su quella che durante i combattimenti rappresentava la linea del fronte e che per molti anni, come tuttora, è percepito dai cittadini come un vero e proprio confine che solca l’interno della città (Figura 4.15).

Si tratta del famigerato “Bulevar narodne revolucije” che rappresenta di fatto la linea di confine est-ovest di una città che può definirsi “speculare”: una tipico esempio di città divisa a livello di quotidianità in cui è dato assistere ad una vera e propria spartizione “etnica” che si insinua nei meandri dell’educazione, dello sport, del trasporto, della cultura, del tempo libero, della socialità.

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Tale immagine di città divisa stride con la massa di turisti che, quotidianamente la invadono: si tratta in maggioranza di persone provenienti da Medjugorje146, situata ad una quarantina di minuti da Mostar, che dedicano in genere un paio di ore per la visita del ponte e della città vecchia, oltre che, come si è avuto modo di constatare personalmente durante il soggiorno a Mostar, al pellegrinaggio alla già citata Chiesa dei Francescani. Questa famigerata opera architettonica, ricostruito in cemento armato,solo nel ricordo delle sue originarie sembianze, ha rappresentato nel passato un simbolo, tra l’altro più volte strumentalizzato, di una società jugoslava tollerante, pluralista e multiculturale, a testimonianza della possibile convivenza pacifica tra le diverse etnie componenti la Federazione.

L’immancabile visita al vecchio ponte (lo Stari Most)147 di origine ottomana e risalente al XVI secolo rappresenta un rito turistico da cui è impossibile sottrarsi che però è vissuto, soprattutto dagli stranieri come un ulteriore oggetto da consumare, e che difficilmente svela le difficoltà insite in questa città (Figura 4.16). Il racconto di un turista italiano, incontrato in un ristorante adiacente ad una delle torri del ponte, rende conto dell’estrema difficoltà insita nel comprendere la deformazione identitaria in atto che innerva la città:

“Siamo una cinquantina di persone, veniamo da Bari. Stamattina siamo arrivati a Medjugorie e stasera ritorniamo lì a dormire. Ognuno ha scelto come trascorrere un paio di ore qui. Le nostre mogli hanno preferito fare un giro tra le botteghe, noi abbiamo preferito rimanere un po’ qui a mangiare queste braciole (nda: si tratta in effetti di cevapci), poi più tardi le raggiungiamo. Mi hanno detto che da queste parti puoi trovare di tutto in vendita. Anche proiettili dell’ultima guerra, quella di qualche anno fa. È vero?” (Testimonianza 86, Mostar, 2010, Cfr. Appendice).

146 Cittadina dell’Erzegovina, famosa per il cd. “miracolo mariano”. Il 24 giugno 1981, l’apparizione della

Madonna, evento comunque ancora non ufficialmente riconosciuto dalla chiesa cattolica, segna l’inizio di un pellegrinaggio che comunque continua a presentare diversi risvolti ambigui.

147 Costruito, per volontà di Solimano il Magnifico, dall’architetto turco Mimar Hajrudin, tra il 1566 e il

1577, in sostituzione di un precedente ponte di legno sorretto da catene, tale opera si contraddistingue per il suo arco a schiena d’asino, con curva policentrica e asimmetrica, e per l’utilizzo di una pietra locale, la

tenelija. Le spalle del ponte erano difese da due torri bastionate: la Halebija e la Tara. Le due torri:

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Figura 4.16- Turisti sullo Stari Most (Fonte: Nostro Archivio)

La descrizione che ne fa Predrag Matvejević rende conto di tale affermazione:

«Noi lo chiamavamo semplicemente “il vecchio” come si fa con un padre o un amico- “vecchio mio”: ci si dava appuntamento “sul vecchio”; ci si bagnava “sotto il vecchio”, i più temerari di noi si tuffavano “dall’alto del vecchio” nelle acque del fiume più verde del mondo” […] Il nostro Vecchio era molto di più di un semplice monumento. Serviva a tutti, univa i diversi. In esso era immurata la memoria dei nostri avi; era il simbolo di tante generazioni. Non allacciava soltanto due sponde – su quel ponte l’Oriente e l’Occidente si stringevano le mani. È stato possibile abbatterlo, ma non si poteva abrogarlo. Continuava ad esistere con noi, e in noi» (tratto da Matvejević, 2005: 124). Distrutto dai nazionalisti croati il 9 novembre del 1993, in quanto probabilmente elemento di visibilità della presenza musulmana nella città148, il ponte può essere assunto come uno degli esempi più paradigmatici nell’ambito dell’uso strumentale delle ridefinizioni identitarie: la sua ricostruzione è avvenuta nel 2005 ad opera della

148La distruzione del ponte è stata interpretata da molti studiosi come un’azione simbolica tesa ad

annullare una realtà attraverso cui nel passato era stato possibile instaurare condizioni pacifiche di contatto e di scambio tra diverse culture. Riteniamo tale spiegazione insufficiente.

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comunità internazionale, insieme a quella dell’attiguo quartiere ottomano del kujundžiluk.

L’eccessiva spettacolarizzazione dell’evento, da ricondurre tra l’altro alla necessità da parte della comunità internazionale, di restituire alla comunità locale e all’opinione pubblica mondiale, un’immagine di compiuta riappacificazione e di ritorno alla normalità, se da un lato ha consentito un rilancio significativo del settore turistico, come principale attività economica dell’area, allo stesso tempo ha oscurato il fallimento di una ricostruzione incompleta che continua a presentare contraddizioni in termini di memorie contese e di divisioni non solo simboliche (Figura 4.17).

Figura 4.17- Università di Mostar Est (Fonte Nostro Archivio)

In particolare, i processi di riappropriazione identitaria, in cui si tende ad assistere in questa città, ma come si avrà modo di vedere successivamente anche a Sarajevo, basate sull’esclusivismo di appartenenze tra loro non più in comunicazione, in cui ad esempio la componente musulmana della città, tende a reiterare un ricordo degli eventi e a marcare continuamente il territorio impatta sul quotidiano:

“Mi chiedi cosa penso del ponte? Porta un po’ di soldi, soprattutto da quella parte (nda: si riferisce alla parte est della città). I turisti ci sono. In genere gli stessi di Medjugorije, solo di passaggio. Conosco diversi posti in cui alcuni si fermano un paio di notti ma sono altri tipi di turisti. In genere non gruppi organizzati ma persone che hanno scelto di conoscere le bellezze di Mostar e dei dintorni. Non c’è solo il ponte. Ci sono tante cose da vedere a Mostar”. (Testimonianza 88, Mostar, 2010, Cfr. Appendice).

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Gli elementi di differenza sono ravvisabili come si diceva anche nella vita quotidiana, come ad esempio conferma Nenad, un ospite dell’ostello con cui si condivide da un paio di giorni lo spazio di riposo notturno:

“Da una parte della città trovi la birra croata (karlovačko)149, dall’altra la Sarajevsko e fuori della città quella serba (Jelen). Io sono operatore informatico e ho avuto nel passato occasione di lavorare per alcune imprese in tutte e tre le zone. Ora sono solo in vacanza per un paio di giorni. Domani torno al mio paese. Tra ieri e oggi (ma lo

racconta con sorriso ironico, n.d.a.) le ho provate tutte e tre. Me ne è piaciuta di più una

in particolare, la Sarajevsko, e domani, prima di partire vado a riprenderla, dall’altra parte della città” (Testimonianza 85, Mostar, 2010, Cfr. Appendice).

Anche Masotti (2011), nel suo libro “Sarajevo ti entra nel cuore”, riporta un’analoga considerazione proprio con riferimento a una questione apparentemente innocua quale la scelta di una determinata “pivo” (birra) di cui ha testimoniato il nostro precedente interlocutore:

«Qui la birra che bevi si lega all’etnia che abita la località in cui ti trovi, e la “scelta” è fatta a monte, non al tavolo di un bar. “Birre etniche”, in base alla migliore tradizione di appartenenza di questa terra. E così, anche se non sei stato attento a dove ti trovi, perché magari stai attraversando uno dei tanti “corridoi etnici” in cui si frantuma il territorio tra Bosnia e Repubblica srpska, quando ordini una birra, la realtà ti si dipana con chiarezza e non c’è possibilità di errore. Marca di birra, etnia e territorio vanno a braccetto in una combinazione assolutamente indissolubile, come dire che solo “birre di casa nostra” si bevono in Bosnia [..] puoi ordinare anche una birra straniera, ma questa è una scelta che non fa paura, perché è cosi “altra” che non rischia minimamente di mettere in pericolo l’integrità etnica di chi la beve» (tratto da Masotti, 2011: 132-133).

Circondata a est dal monte Velež e a Ovest dal già citato monte Hum, Mostar è stata nel passato considerata la “città rossa”, in virtù del sostegno fornito nella lotta contro l’occupazione tedesca: tuttora rimangono tracce della resistenza (Figura 4.19), continuamente sbiadite da processi di rivisitazione delle memorie e di interpretazioni conflittuali di un passato che tende a essere rimosso.

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Figura 4.18- Distruzioni. Prospettiva dalla Torre dello Stari Most (Fonte:Nostro archivio).

Le tracce di opposizione ai ricordi, rinnovati anche a causa dell’ultimo conflitto, presentano elementi contradditori che costituiscono un ulteriore esempio di coesistenza di fattori ambivalenti irriducibili: se è possibile imbattersi a numerosi segni che rimandano alla lotta antifascista contemporaneamente (e paradossalmente) è possibile far esperienza della rivendicazione del sentimento di rigetto verso la stessa lotta partigiana.

Figura 4.19- Manifesto Antifascista a Mostar (Fonte: Nostro Archivio)

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Emblematico è a tal proposito il caso del Cimitero Monumentale Partigiano (Figura 4.20-4.21), ideato nel 1965 dall’architetto Bodgan Bodganović che si trova nella parte ovest (croata) della città di Mostar: uno dei simboli più significativi di una memoria storica, fino a pochi decenni fa condivisa, dedicato alla guerra di resistenza condotta durante la seconda guerra mondiale, si ritrova in uno stato di abbandono tale che testimonia non solo la volontà di negazione di una serie di valori legati alla Resistenza in cui l’amministrazione nazionalista croata non intende riconoscersi, ma conferma anche il contestuale processo di rimozione delle esperienze condivise che hanno strutturato questi territori nel corso dei secoli.

Figura 4.20- Ingresso al Monumento Partigiano. Mostar (Fonte: Nostro Archivio)

Un ulteriore esempio che testimonia la frammentazione territoriale nonché sociale della Bosnia è rappresentato dal caso di Sarajevo, città che Zanini ha definito un caso emblematico di “spazio di confine” (Zanini, 1997: 156).

Capitale sia della Bosnia Erzegovina (BiH) sia della Federazione della Bosnia- Erzegovina (FBiH), oltre che del Cantone di Sarajevo, è attraversata dal fiume Miljačka e circondata da diverse catene montuose, tra cui il monte Trebević. Quest’ultimo, sin dall’antichità ha goduto di un alone quasi magico, per tutte le popolazioni slave che abitavano alle sue pendici: a partire dagli anni ’50 del secolo scorso questo monte, divenuto parco naturale ai tempi di Tito, si è sempre caratterizzato per la presenza di numerosi attività ristorative e conviviali, meta di escursioni domenicali da parte di tutti gli abitanti di Sarajevo.

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Oltre alla presenza di una teleferica che dal 1959 permetteva di raggiungere le sue cime direttamente dal centro della città è stato anche una delle più importanti sedi dei Giochi Olimpici Invernali tenutesi nel 1984150.

Tuttavia con l’inizio dell’assedio di Sarajevo (1992), da parte delle truppe serbo- bosniache, disposte proprio sulle sue alture, con un pieno controllo del “campo visivo” della città, una sorta di panopticon foucaltiano, si è attivato un processo di rimozione del luogo in termini sia di attribuzione di senso sia di fruibilità dello stesso.

Figura 4.21- Monumento Partigiano. Mostar (Fonte: Nostro Archivio)

Nel primo caso è da rimarcare l’esemplificazione del rapporto memoria/oblio di cui è possibile fare esperienza quotidiana:

«Vedi quel monte lassù? Io non ci sono mai stato. Ma mia sorella, che è un pò più grande di me, mi racconta che da piccola, con i miei genitori ci andava ogni domenica. E lì mangiavano, giocavano, si incontravano con gli amici. Prima esisteva una funicolare, ma è stata distrutta durante le guerra. Potevi raggiungere la cima in poco tempo. Ora è solo un ammasso di terra che copre la città» (Testimonianza 12, Sarajevo, 2010, Cfr.

Appendice).

D’altra parte, nell’immaginario collettivo questa è ancora quella “prima linea del “fronte” da cui si è dipartito l’assedio più lungo che ha dovuto subire una capitale europea, almeno in epoca moderna:

150 In quella occasione si disputarono le gare di bob. Le altre sedi designate erano i monti Igman,

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«Pensa che proprio le piste di bob sono state usate come trincee dai serbi per difendersi dagli attacchi del nostro esercito. Se provi ad andare lassù, almeno così mi hanno raccontato, o perlomeno fino a qualche anno fa, trovi solo la pista piena di buchi»

(Testimonianza 12, Sarajevo, 2010, Cfr. Appendice).

Lo stravolgimento del paesaggio, con la pressoché totale distruzione delle infrastrutture sportive presenti, oltre che della stessa teleferica e di molte strutture ricettive presenti nell’area151, è da imputare non solo alle azioni militari delle truppe serbo-bosniache ma anche all’intervento delle forze Nato, che ha reso questo luogo “inaccessibile” almeno per due ordini di fattori.

Innanzitutto il monte è solcato dalla IEBL di cui si è avuto modo di trattare in precedenza che, di fatto rappresenta quel confine invisibile che tende a materializzarsi e a ostacolare i passaggi152; in secondo luogo la presenza di numerosi campi minati rende di fatto rischioso usufruire come un tempo di questo spazio “di convivialità condivisa”. Anche se la maggior parte delle opere di sminamento, nel corso di questi ultimi anni, sembra ormai essersi conclusa, rimane comunque il fatto che molti continuino a non essere pienamente convinti dell’effettivo completamento della bonifica dell’area, riconducibile probabilmente alla pratica, che riguarda comunque diverse zone dell’ex Jugoslavia coinvolte nel conflitto, di mappe volutamente alterate, imprecise, da cui non è pertanto possibile risalire con certezza né al numero effettivo delle mine sparse sul territorio né tanto meno circoscrivere in modo sicuro le aree oggetto di ulteriore