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Quarto Capitolo Lo spazio condiviso

4.2 Ferite di guerra e ansie di identità

Gli anni della guerra hanno inevitabilmente scosso il contesto bosniaco (Figura 4.1). Con la fine delle ostilità, se i nazionalisti serbi e quelli croati sono riusciti ad ottenere il loro obiettivo principale, l’omogeneizzazione etnica e il controllo anche se informale dei territori contigui alle rispettive madrepatrie, la popolazione musulmana è ancora alla ricerca (in molteplici sensi) di una propria “casa”:

«[..] most ethnic Serbs and ethnic Croats started to perceive Serbia or Croatia respectively as “their” states, regardeless of their places of residence. They refused loyalty to Croatia and Bosnia (in the case of most ethnic Serbs) or to Bosnia (in the case of many ethnic Croats, particulary in Western Herzegovina) and hoped that their ethnic state’s border would expand so as to encompass politically and legally their place of residence even if it were located in territories where they lived as a minority» (Štiks, 2009: 252).

Figura 4.1 Cartina degli Accordi di Dayton

123 Per la trattazione delle principali fasi della guerra in Bosnia Erzegovina si rimanda al terzo capitolo del

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Nel 1995 in seguito agli Accordi di Dayton (DPA- Dayton Peace Agreement o anche detti GFPA- General Framework Agreement on Peace), che hanno formalmente sancito la fine della guerra civile124, la Bosnia-Erzegovina125, che occupa complessivamente una superficie di 51197 km2, è stata suddivisa in due entità confederate126, che ricalcano (sic!) in modo quasi perfetto la linea del fronte al momento del cessato il fuoco: la Repubblica serba della Bosnia-Erzegovina (Repubblica Srpska- 49% del territorio), la cui popolazione risulta prevalentemente di origine serbo-bosniaca127, e la Federazione croato-musulmana della Bosnia Erzegovina (Federacija Bosne i Hercegovine -51% del territorio) in cui prevalgono le componenti di bosgnacchi128 e croato-bosniaci129. A

queste due entità, se ne aggiunge una terza, costituita dal distretto autonomo di Brčko che gode di uno statuto speciale riconosciuto dall’ONU130.

124 Gli Accordi di Dayton, firmati il 21 novembre 1995, nella base americana di Dayton nell’Ohio, tra le

delegazioni guidate dai tre presidenti Slobodan Milošević, Alija Izetbegović e Franjio Tuđman con la mediazione del Vicesegretario di Stato statunitense per gli Affari europei Richard Holbrooke e del Segretario di Stato USA, Warren Christopher.

125 In base all’Art 4 della Costituzione bosniaca, il Parlamento Federale (Skupština) è di tipo bicamerale,

costituito da una Camera dei Rappresentanti composta da 42 membri, eletti per 2/3 dalla Federazione croato-musulmana e per 1/3 dalla Repubblica serba e dalla Camera dei Popoli, composta da 15 membri, 10 eletti dal Parlamento della Federazione croato-musulmana (5 croati e 5 bosgnacchi) e 5 dal Parlamento della Repubblica serba.

126 È l’annesso 4 dell’Accordo di Dayton che stabilisce le due principali divisioni politico-territoriali,

definendo i poteri e le funzioni governative.

127 La Repubblica Srpska è costituita da sette regioni: Banja Luka; Bijelina; Doboj; Foča; Sarajevo-

Romanja; Trebinje; Vlasenica. Il parlamento della Repubblica serba è costituito da un’unica Assemblea nazionale composta da 83 membri.

128 Il termine bosgnacco sta a indicare non tanto una connotazione religiosa quanto attesta coloro che si

riconoscono nella connotazione nazionale dei musulmani di Bosnia.

129 La Federacija, la cui origine risale agli Accordi di Washington (1994) che ha posto fine al conflitto tra

bosgnacchi e croato bosniaci, è ulteriormente suddivisa, dal punto di vista amministrativo, in dieci cantoni (tra parentesi è riportato il capoluogo seguita dalle municipalità in cui i cantoni risultano a loro volta suddivisi): Una-Sana (Bihac- 8); Bosanska Posavina (Odzak-3); Tuzla (Tuzla-13); Zenica-Doboj (Doboj/Zenica-12); Goradze Podrinje (Goradzde-3); Erzegovina Occidentale (Siroki Brijeg-4); Sarajevo (Sarajevo-9); Bosnia Occidentale (Livno/Tomislavgrad/Kupres-6); Bosnia Centrale (Travnik-12); Erzegovina-Naretva (Mostar-9). Questi ultimi due cantoni (misti), a loro volta hanno statuti speciali a garanzia della rappresentanza delle comunità. Il Parlamento della Federazione croato-musulmana è costituito da una Camera dei Rappresentanti composto da 140 membri e da una Camera dei Popoli con 80(74) membri, eletti dai consiglieri dei dieci cantoni, che rispetta la rappresentanza tra bosniaco- musulmani e croati.

130 L’Annesso 2 degli Accordi di Dayton fa specifico riferimento allo status di quello che è conosciuto

come il “corridoio di Brčko”: posto al confine con il fiume Sava, prima della guerra la popolazione del distretto era a maggioranza croata. L’importanza strategica di tale area è riconducibile al fatto che essa

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Tale impostazione ha creato i presupposti per proseguire con altri mezzi, questa volta pacifici e di ispirazione formalmente democratica, la costruzione di territori divisi etnicamente, istituzionalizzando di fatto la logica nazionalistica e in particolare rispondendo a una logica etno-nazionalistica contrapposta a quel modello multiculturale che ha contraddistinto tale area per secoli.

Figura 4.2- Il parco della cittadina di Brčko (Fonte: Nostro Archivio).

Il riconoscimento della Bosnia-Erzegovina come stato unitario, è passato attraverso un tacito riconoscimento della legittimità insita nella territorializzazione delle omogeneizzazioni etniche: l’aver stabilito l’esistenza di queste due distinte entità, ha creato infatti tutti i presupposti per replicare all’infinito una logica di differenziazione, in cui l’elemento “immateriale” di una linea di “pace” presenta risvolti importanti sul quotidiano dei soggetti che ne fanno esperienza.

A separare le due entità vi è difatti la cd. IEBL (Inter Entity Boundary Line), una linea, della lunghezza totale di circa 1080 km, che al tempo della firma degli accordi di pace coincideva sostanzialmente con la linea del fronte: ora sta a rappresentare una demarcazione territoriale non controllata militarmente, che assicura formalmente la libertà di transito (Chaveneau-Lebrun, 2001).

rappresenta una linea di collegamento tra la Serbia e la Repubblica Srpska, a maggioranza “serba”. Per tale motivo, l’Alto Commissario dell’Onu ha deciso di non assegnare il territorio a nessuna delle parti contendenti, dichiarandone l’autonomia.

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L’unico elemento di materialità che assume tale “confine invisibile” che difatti non è né un confine interno né tanto meno internazionale (Sanguin, 2001) è rappresentato dall’alternanza dei caratteri cirillici e latini ben visibili sui cartelli stradali che tendono a marcare costantemente il territorio.

Figura 4.3. La IEBL

“Un ragazzo italiano di Udine, di ritorno da Belgrado e in viaggio con me sull’autobus verso Banja Luka, mi ha raccontato che alcuni dei suoi amici erano stati l’anno scorso a Bihać per cui ha pensato di fare anche lui con la sua ragazza una vacanza “ alternativa”, così ha detto. Quello che mi ha colpito è stato soprattutto il riferimento alla cartellonistica stradale che, a detta di lui, condiziona oltremodo anche la possibilità di viaggiare in Bosnia, almeno autonomamente. Probabilmente si tratta di un’esagerazione, derivante dalla scarsa conoscenza del posto, comunque, rimane il fatto che anche io avevo notato la stessa cosa nel viaggio sulla tratta Belgrado-Sarajevo, ma ciò che in quel caso aveva attirato la mia attenzione era stato piuttosto l’alternarsi dei caratteri, di una lingua che molti mi assicurano, nonostante tutto, essere sostanzialmente la stessa» (Note

di campo, Banja Luka, 2010, Cfr. Appendice).

La IEBL, (in rosso nella Figura 4.3) frontiera passibile di traslazione in confine immateriale marcato da elementi materiali, in questo ultimo caso prettamente “alfabetici”, replica, spazialmente e temporalmente, le logiche di una divisione etnica che ha contraddistinto il decennio di guerra, e istituzionalizza di fatto il discorso insito nelle pratiche nazionalistiche fondate sulla creazione “artificiosa” di un presunto legame tra popolazione e territorio e in cui viene di fatto sancito il principio della coincidenza di appartenenza ad una data comunità sulla base del segmento territoriale in cui si risiede,

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cosi come tra l’altro era previsto in tutti gli accordi di pace precedenti alla firma di Dayton131.

Circostanza del tutto nuova se si considera la distribuzione della popolazione prima della guerra, quale risulta dal censimento svolto nel 1991 nell’allora Ex Jugoslavia, in cui è possibile ravvisare l’assenza di significative concentrazioni territoriali di tipo “etnico”: su una popolazione di 4.300.000 abitanti, la comunità bosniaco-musulmana132 costituiva la maggioranza della popolazione (44%); i serbi-bosniaci il 31%, e i croato- bosniaci il 17%; il resto era costituito da jugoslavi (6%) e da sparute minoranze di montenegrini e rom, di fatto sparsi su tutto il territorio repubblicano.

L’avvento di una graduale omogeneizzazione territoriale ha contribuito a rendere meno complesso il quadro di composizione di popolazioni improvvisamente divenute differenti tra loro, ma nel contempo ha dato luogo a processi di costruzione artificiale del senso di appartenenza, conseguenza, ma anche ragione di mobilitazione alla guerra:

«Oggi in Bosnia è quasi un obbligo appartenere a un gruppo, una etnia o una religione. Si cerca in continuazione d’indirizzare la gente verso la divisione. Mi chiedo ogni giorno come si possa voler dividere una popolazione mista come la nostra. Si deve arrivare a dividere le famiglie per riuscirci? La risposta è nei bosniaci, che quasi a livello inconscio, anche durante la guerra, hanno continuato e proseguono ancora oggi a sposarsi mischiandosi, persino nella Rs» (tratto da Bukvić, 2008: 71).

Optare per la soluzione di “legittimazione delle divisioni etniche”133 ha comportato tra l’altro non solo il mancato raggiungimento di forme pienamente democratiche all’interno delle istituzioni, ma ha significato di fatto “congelare” la situazione ai tempi del conflitto, creando le basi per la costruzione di una serie di “non luoghi” in cui il

131 «While any form f peaceful co-existence would clearly have been a major challenge after almost half a

decade of intensive warfare in the region, the Dayton agreement [..] was dictated by the logic of partition. Where Bosnia used to be a territory in which Bosniaks, Croats and Serbs lived as neighbours, most neighbourhoods are largely segregated today. Politics has arguably been reduced to a correspondence between identity and territory, to what can be called a desire to have one’s own land» (Barnsley-Bleiker, 2008:133).

132 In prevalenza sunnita convertita all’islam, soprattutto durante il periodo di occupazione turca.

133 Le conseguenze sono state non solo interne ma anche nei rapporti con l’esterno: oltre alle

problematiche connesse ai processi di progressiva integrazione all’Unione Europea, uno degli aspetti più rilevanti che è necessario sottolineare riguarda la percezione e la reiterazione di un’immagine di società composta da soggetti che non sono “naturalmente” in grado di convivere insieme, e che necessitano inevitabilmente di strutture basate sulla divisione tali da scongiurare la possibilità di nuovi scontri.

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senso dell’appartenenza, la convivialità, gli scambi, la mobilità stessa dei soggetti continua a essere drammaticamente condizionata.

Il rischio quindi insito nel raccontare l’attuale situazione in Bosnia Erzegovina, è quello di essere attratti da una lettura di tipo “etnico”, senza tener conto delle conseguenze che proprio questa impostazione (anche accademica e ideologica) ha determinato in termini di ricomposizione di una società che, lungi dall’essere “statica”, e quindi riconducibile a precise e fisse categorie di appartenenza è piuttosto basata su meccanismi di tipo “dinamico”, in cui la scoperta/invenzione della “differenza” costituisce un esercizio quotidiano.

Le tracce di identità che possono render conto dell’artificialità alla base di tali dinamiche e che soprattutto confermano l’esistenza di un apparato esterno alla loro formazione sono sostanzialmente quelle indicate da Smith (1998), che come detto, pone l’accento su quella che è da considerarsi la dimensione culturale all’origine delle operazioni di differenziazione tra nazioni.

Tra i diversi elementi individuati dall’autore, ovvero la riscoperta di un mito di discendenza comune, la condivisione di una memoria del passato, l’utilizzo strumentale dei simboli alla base delle costruzioni collettive e infine il riconoscimento di un’appartenenza e comunanza di tipo culturale si è scelto di approfondire, almeno in questo capitolo, l’ultimo aspetto che, d’altronde è emerso di frequente nel corso della ricerca.

In particolare, si tratta di rendere conto di alcune specifiche tracce (marcatori) identitari che provengono sia dalle testimonianze raccolte sia dalla consultazione di diversi studi dedicati a quest’area. La prima traccia è rappresentata dal fattore linguistico.

Fino ad un recente passato in Bosnia, come nella maggior parte degli altri stati della Federazione jugoslava, la lingua ufficiale era il serbo-croato. L’unico elemento di differenza riscontrabile consisteva sostanzialmente nelle modalità di scrittura della stessa: caratteri cirillici in Serbia e Montenegro, latini in Croazia e in Bosnia134. Una mera distinzione in fin dei conti dal momento che ogni Repubblica all’epoca adottava entrambi i sistemi di scrittura (Leto 2011).

Attualmente anche questo segno di precedente “unità” è stato smantellato: nella FiBH, l’alfabeto cirillico è stato infatti abolito, confermando l’assunto che la differenziazione

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dall’Altro passa attraverso anche una costante negazione del passato, in questo caso abbastanza recente, fissando presunte diversità culturale: il paradosso, in questo specifico caso, è che questa operazione di distinzione riguarda croati e bosniaci da un lato e serbi dall’altro.

E infatti il processo è in costante divenire. Anche la lingua parlata ha subito una sorta di tripartizione135: bosniaco, serbo e croato che, come vedremo meglio nel capitolo successivo, pur rappresentando tre nomi diversi attribuiti sostanzialmente ad uno stesso idioma, sono divenute le lingue “ufficiali” dei rispettivi Stati di riferimento e che anche all’interno dello stesso suolo bosniaco tende a differenziarsi proprio per la presenza dei tre diversi gruppi “etnici”. In visita a una famiglia di amici “musulmani”, in un villaggio della Bosnia centrale, abbiamo avuto modo di notare in prima persona la diffusione di tale consuetudine quando la nonna, con cui avevamo scambiato alcune battute in serbo- croato ha chiesto al nostro accompagnatore “serbo-bosniaco” se eravamo “od naših” (dei nostri) e quello, di rimando: “no, sono italiani, ma parlano naš jezik”(la nostra lingua).

È un problema di definizione in un paese come la Bosnia-Erzegovina ancora dilaniato dalle logiche dei contrapposti nazionalismi, per cui la scelta di una parola o di un’espressione piuttosto che un’altra o la scelta di scrivere usando l’alfabeto cirillico o latino diventa affermazione di identità e, a volte, può essere (volutamente o meno) interpretato come un gesto di sfida quando ci si trova in un territorio supposto altro. La maggioranza della popolazione ha interiorizzato tali meccanismi, li conosce e li rifiuta, ricorrendo spesso all’uso di parole neutre, politicamente corrette.

Per le componenti “nazionaliste” l’ipotesi di riconoscere, di condividere una lingua comune rappresenterebbe evocare un’idea di unità che è continuamente avversata: lo dimostra lo stanziamento di fondi e l’organizzazione di numerosi congressi, pur nella precaria situazione economica del paese, che ha come obiettivo ultimo la costituzione di gruppi di ricerca ad hoc incaricati di definire una lingua bosniaca “originaria”, diversa dal serbo o dal croato:

135 L’aspetto linguistico e in particolare la questione della “lingua rinnegata” sarà oggetto di

approfondimento nel capitolo successivo, nell’ambito del discorso sulle ricostruzioni identitarie in atto nei paesi della ex Jugoslavia.

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«Nell’immediato dopoguerra a Sarajevo mi capitava che negli uffici pubblici non mi rispondevano se salutavo come sempre “dobar dan”, cioè “buon giorno”. Pretendevano che salutassi “selam aleikum”, che sarebbe la stessa cosa ma in arabo, a loro avviso più appropriato per i musulmani. E io per dispetto rispondevo in inglese, o in italiano, dicevo che l’arabo, l’inglese o l’italiano sono tutte lingue straniere per i bosniaci. [..] Anche tra i musulmani bosniaci si sono fatti avanti i linguisti patrioti, proponendo di mettere l’”h” dove non c’era mai stata prima. Così per un periodo in Bosnia si beveva KaHva invece di caffè. La maggior parte di progetti di lingua pura sono stati bocciati nei programmi televisi più popolari, come il “Grande fratello”. I concorrenti, da tutte le parti dell’ex Jugoslavia, parlano la stessa lingua, la nostra, e nessuno ci fa caso se l’altro dice belo o bijelo; come pure il più vasto pubblico che segue questi programmi in tutte le ex repubbliche jugoslave» ( tratto da Nuhefendić, 2011: 102).

L’elemento di problematicità in questo specifico contesto è rappresentato proprio dal fatto che la coesistenza dei tre gruppi sullo stesso territorio “nazionale” non annulla l’utilizzo differenziato della stessa lingua, quella appunto bosniaca, il che oltre a mettere in seria discussione la prospettiva herderiana di “una lingua-una nazione” ha delle ripercussioni sulla stessa organizzazione socio-culturale della comunità.

Ad esempio sul sistema scolastico. Bambini che crescono su uno stesso territorio “nazionale” pur parlando sostanzialmente la stessa lingua, non riescono più di fatto a leggere testi scritti dai cd. ”Altri” o comunque sono incoraggiati a parlare una determinata versione dello stesso idioma, che corrisponde a quella che si riconosce essere come specifica all’interno della propria comunità di riferimento.

La creazione della differenza culturale transita in particolare nella separazione dei sistemi scolastici e costituisce un’importante fonte di legittimazione per tutti i gruppi di matrice nazionalista.

Esistono tre sistemi educativi diversi che hanno come referenti i tre governi della Repubblica croata dell’Herzegovina, della Repubblica Srpska e della Repubblica di Bosnia-Herzegovina, con conseguenze significative anche in termini di mobilità scolastica:

«[..] la segregazione scolastica e la separazione dei curriculum su base etnica, soprattutto per ciò che riguarda l’insegnamento differente della lingua e degli alfabeti, andasse nella direzione di impedire la mobilità degli alunni al di fuori della porzione di territorio governata dal gruppo etnonazionale d’appartenenza che diventava per essi straniera.

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L’estensione alla scuola superiore e alle università di questa logica segregazionista ha finito per disincentivare fortemente la mobilità sul territorio degli studenti che, trasferendosi da una scuola all’altra, non si vedevano riconosciuti i titoli di studio acquisiti in istituti in cui l’insegnamento era stato condotto secondo curriculum di gruppi etnici differenti» (Lofranco, 2011: 438).

Proprio a proposito del progressivo processo di etnicizzazione del sistema accademico universitario, una ricercatrice dell’Università di Mostar racconta:

“Prima non esistevano tante università in Bosnia. Ora sono sparse sul territorio e non riescono, in alcuni casi, a garantire neanche un soddisfacente livello di formazione. Innanzitutto perché sono troppo piccole e tra l’altro, alcune di loro, sono gestite male. In secondo luogo, c’è il fenomeno, tutto bosniaco, della richiesta di docenti “nazionali”, per cui quelli della Repubblica Srpska fanno riferimento a Belgrado, mentre quelli di Mostar Ovest, ricorrono a professori provenienti dalla Croazia”. (Testimonianza 87, Mostar,

2010, Cfr. Appendice).

Una seconda traccia identitaria che può essere presa in considerazione è quella relativa al fattore religioso.

Innanzitutto dei dati. I bosgnacchi136 sono in prevalenza concentrati nella Bosnia Erzegovina e le stime parlano di circa 1.910.000 individui. Nel Sangiaccato serbo sono 140.000 mentre in quello montenegrino 60.000; in Kosovo e in Macedonia, sono rispettivamente 60.000 e 20.000; in Croazia 20.000 e in Slovenia 30.000 e infine nel sud del Montenegro 10.000137. Il peso relativo, rimanendo al caso della Bosnia si aggira intorno al 45-50%.

Al di queste informazioni statistiche (tra l’altro approssimative, a causa del mancato censimento che, nel caso specifico della Bosnia si terrà solo nel 2013, ciò di cui si

136 Dal 1968 fino a parte del 1993, con il termine Musulmano, in senso nazionale, si indicavano i

musulmani di lingua serbo-croata. In seguito, si è deciso di abbandonare tale denominazione “nazionale”, optando per il termine “Bosgacco” che ancora una volta si riferisce ai musulmani di lingua serbo-croata. Col termine generico di “Bosniaco”, ci si riferisce invece alla totalità degli abitanti della Bosnia Erzegovina.

137 Altri gruppi di musulmani, in senso religioso e non bosgnacchi sono rappresentati dagli albanesi del

Kosovo, circa 1.610.000 persone, della Macedonia occidentale (510.000), del sud della Serbia (60.000), dell’est del Montenegro (10.000), della Croazia (15.000) e della Slovenia (5.000). Per ciò che attiene la percentuale in rapporto ai singoli paesi, in Kosovo rappresentano circa il 90% della popolazione, in Macedonia il 32% (soprattutto di origine albanese) in Montenegro il 17%, in Serbia il 3% in Slovenia il 2% e infine in Croazia l’1%. Tutti i dati forniti in nota e quelli citati nel testo provengono da Bougarel (2011: 451-452).

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intende render conto è piuttosto il ruolo che la componente religiosa, in termini di espediente “discorsivo” ha rivestito nel corso della guerra, e come continui tuttora a svolgere un importante elemento catalizzatore all’interno dell’area oggetto di studio. In effetti anche da alcune delle testimonianze raccolte emerge il ruolo che si può assumere a posteriori svolto nelle pratiche di differenziazione su base religiosa:

“Credo onestamente che l’unica cosa che un tempo costituiva un elemento di riconoscibilità, e ora di diversità, era la religione, credere a una cosa piuttosto che ad un’altra. Non era una questione di andare in chiesa o in moschea. Io per esempio raramente andavo in chiesa. Ma la mia è da sempre una famiglia cattolica. Ora vedo che tante persone, anche amici con cui un tempo andavo in giro a non fare nulla, frequentano