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Tentativi di rinegoziazione: i nuovi spazi di frontiera

QUINTO CAPITOLO Lo spazio diviso

5.4 Tentativi di rinegoziazione: i nuovi spazi di frontiera

Le possibilità di ricostruzione della rete di rapporti sociali nonché economici costituirebbe una risposta concreta ai problemi che attraversano tutti gli stati dell’ex Federazione. Alcuni autori hanno a tal proposito parlato dell’emergere di una Jugosfera, che rappresenterebbe la prova della persistenza di un patrimonio comune che la guerra non è stata in grado di distruggere.

Termine apparso per la prima volta nel 2009 sull’Economist si contraddistingue in modo netto da quello di jugonostalgija (Palmberger, 2008).

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Con quest’ultimo infatti, ci si riferisce genericamente a quel processo di recupero collettivo e selettivo di una memoria condivisa del passato socialista, un sentimento quindi essenzialmente riferito al passato, in cui viene esaltato in modo talvolta acritico tutto ciò che di positivo (in termini di tutela dei diritti sociali dalla sanità, al lavoro, all’educazione fino al tempo libero) ha rappresentato il quarantennio d’unione, così come si è visto nei precedenti paragrafi.

Figura 5.13- Tracce di jugonostalgia: “Ti amo Juga”, il nomignolo con cui

in passato si indicava la Jugoslavia (Fonte: Nostro Archivio).

La Jugosfera invece fa riferimento all’idea di una costruzione futura, che comunque si rifà in qualche maniera all’immaginario trasmesso dalla ricezione di messaggi e testimonianza del passato, di una ripresa di collaborazioni e di ricerca di nuove identità di tipo collettivo:

“Oggi ho fatto un esperimento. Ho chiesto ai miei amici di Belgrado e ad alcuni ospiti

dell’ostello in cui alloggio (in particolare al gruppo di croati e a quella ragazza slovena che sembra essere capitata qui per sbaglio per come si aggira tra le stanze) se avessero mai sentito parlare di “Jugosfera”. La maggior parte di loro ha sorriso senza rispondere, pensando probabilmente che li stessi prendendo in giro. Gli altri mi hanno chiesto a cosa mi stessi riferendo in particolare. Ho tentato di fornire a grandi linee una spiegazione, ma credo che alla fine non abbiano capito. In particolare, Boris mi ha chiesto chi avesse parlato di questa cosa: appena ha scoperto che si trattava del lavoro

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di uno studioso inglese, si è subito rilassato” (Note di campo, Belgrado, 2010, Cfr.

Appendice).

È possibile comunque registrare la presenza di atteggiamenti scettici nei confronti dell’idea di un asettico ritorno al passato per costruire un futuro e la rievocazione del suffisso Jugo suscita sentimenti contrastanti:

“Non voglio dire che qui la gente non vuole ricominciare a collaborare: di fatto, molte sono le diverse esperienze in tal senso. E non mi riferisco solo ai traffici illeciti. Penso però che quel tempo è andato. Non per la guerra. Quella l’hanno fatta gli altri, quelli che comandano. È solo che abbiamo bisogno di altro” (Testimonianza, 75, Belgrado, 2010,

Cfr, Appendice).

L’idea di una Jugosfera, e quindi la rinascita di un nuovo fronte di scambi e collaborazioni potrebbe rappresentare secondo alcuni una valida alternativa all’ingresso nell’Unione Europea che tende di fatto ad essere sempre di più procrastinato, almeno per quei paesi dell’area che hanno avviato da tempo la procedura di integrazione nello spazio comune europeo:

“Non so se è possibile tornare al passato, ma è vero che abbiamo tante cose in comune. La Vegeta, ad esempio. Scherzo. Io non sono tra quelli che rinnega sia stato un periodo felice, almeno per quello che ho letto e sentito dire da alcune persone un po’ più grandi di me, ma non credo che si ritornerà a collaborare come una volta. Dopo la guerra è cambiato tutto. Le persone sono cambiate. Solo l’Unione Europea forse potrà aiutarci.”

(Testimonianza 45, Belgrado 2010, Cfr. Appendice).

Eppure non tutti sembrano essere così convinti. L’alone di euroscetticismo è ben presente e rivela tutta la mancanza di fiducia nel cambiamento che un eventuale ingresso nell’Unione Europea potrebbe apportare in termini di ripresa economica, politica o sociale.

Il riferimento continuo al passato sembra confermare una sorta di nostalgia in cui viene ancora una volta attestata l’esistenza di una società che in modo del tutto autonomo era in grado di provvedere alla creazione di una rete di scambi e che, venute meno le condizioni in seguito al disfacimento dello Stato, sembra aver reso indispensabile un intervento esterno che non si limita a ristabilire una cooperazione tra le parti quanto piuttosto tenderebbe a rivestire un ruolo di educatore su ciò che deve essere fatto e come ciò deve essere fatto.

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È questo difatti un altro aspetto che trapela dalle diverse testimonianze raccolte strettamente connesso alla presenza di quelli che, soprattutto in Bosnia, sono comunemente definiti col termine “humanitarcia”. In particolare, in molti racconti è messa in evidenza una sorta di non comprensione del loro operato:

“Vengono qui e ci dicono che ci aiuteranno a valorizzare i nostri prodotti locali. Il vino, i formaggi, i salumi: ma noi lo abbiamo sempre fatto. Il problema semmai è che sono venute meno le condizioni per far si che questi prodotti possano avere uno sbocco sul mercato. Prima, ai tempi di Tito, il Vranac (tipico vino montenegrino, nda.) era conosciuto in tutta la Ex Jugoslavia e lo potevi trovare anche all’estero. Oggi è tutto più complicato”(Testimonianza 42, Podgorica-Belgrado, Cfr. Appendice).

La costante disattesa di quelli che sono stati considerati i criteri imprescindibili, da parte dell’Unione Europea, in termini di valutazione dei processi di ingresso ne rappresenta probabilmente una possibile spiegazione.

Anche la stessa questione, emersa, dopo l’ingresso della Slovenia nel 2004, della necessità di rispettare un criterio di simultaneità per le successive integrazioni, al fine di evitare le contraddizioni, in termini di veti incrociati, basati su recriminazioni di varia natura quali ad esempio quelle che per molto tempo hanno contraddistinto la Slovenia e la Croazia, è rimasta inevasa.

«Ne sono certo perché serbi, croati e bosgnacchi sanno di non poter vivere gli uni senza gli altri. Questa interdipendenza vale anche a livello regionale. Tutti gli Stati post- jugoslavi vivono in uno spazio troppo esiguo per restare chiusi nei propri confini. Storia, lingua e cultura li uniscono, più che dividerli, e li chiamano alla ricostruzione di uno spazio sovranazionale. Questo non è in contrasto con le loro ambizioni di avvicinamento all’Unione europea.» (tratto da Divjak, 2007: 209).

Una conferma è fornita dai dati presentati da Judah (2010) sulla ricostituzione di un mercato comune:

«Trade between the six ex-republics plus Kosovo is intense. The first and second markets for Bosnian exports are Croatia (17.2%) and Serbia (14%) respectively, and likewise Bosnia’s leading partner in terms of imports is Croatia (17.1%) with Serbia third (10,6%) just after Germany. Macedonia’s leading export market is Serbia (23.5%), as it is for Montenegro (28.3%) which imports just as much from there (29.9%). A large

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proportion of Kosovo’s trade is either with Serbia or Macedonia, or comes through them» (Ibidem: 9-10)

Dopo la secessione dalla Federazione jugoslava, i nuovi confini, tra cui quelli esterni all’UE sono sottoposti ad un nuovo regime di controllo che ha comportato significative conseguenze, in termini di percezione di frontiera e di ostacoli alla mobilità, per tutti coloro che un tempo erano abituati a vivere tali confini come propri.

In seguito all’ingresso della Slovenia, nel 2004, nell’Unione Europea, l’abolizione dei confini (un tempo di stato) con i paesi già membri da un lato e la percezione dell’esistenza di una sorta di barriera rappresentato appunto dall’essere diventato il confine più esterno dell’Unione Europea, ha rappresentato, come è emerso più volte nelle testimonianze raccolte durante la nostra ricerca, un elemento di tensione con le altre repubbliche dell’ex Jugoslavia.

Un ragazzo spagnolo, incontrato occasionalmente in un ostello di Sarajevo racconta:

“Un paio di settimane fa , prima di arrivare qui, sono stato a Lubiana. Ho raccontato al tizio dell’ostello che avevo intenzione di visitare Sarajevo, volevo da lui un po’ di informazioni. Lui mi ha guardato un po’ stupito e poi mi ha detto: non so, ho sentito che è un posto abbastanza originale, credo che ora sia tutto un po’ più tranquillo. E io ho pensato: ma questa gente una volta non faceva parte di un’unica nazione? Ok, c’è stata la guerra, ora loro (gli sloveni, n.d.a.) sono diventati occidentali, Unione Europea, ma anch’io lo sono e ne conosco a questo punto forse più di loro” (Testimonianza 53,

Sarajevo, Giugno 2010, Cfr. Appendice).

Nel prossimo capitolo, si prenderanno in considerazione gli effetti che tali processi hanno determinato anche in termini di distribuzione asimmetrica del diritto al libero movimento nello Spazio Schengen con provvedimenti e misure differenziate a seconda del paese in questione.

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