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Il passaporto rosso e la quotidianità di Schengen

SESTO CAPITOLO Lo Spazio Schengen

6.3 Il passaporto rosso e la quotidianità di Schengen

Alla luce di quanto sin qui descritto, risulta inevitabile fare un confronto con la situazione invece esistente nel passato in cui la Jugoslavia ha rappresentato un esempio di “eccezionalità” non solo per il suo particolare sistema politico-economico ma anche perché si è trattato dell’unico paese, almeno tra quelli rientranti nel blocco dell’Europa Orientale, a poter usufruire di un’ampia libertà di movimento all’esterno dei propri confini statali.

«Economicamente la gente stava abbastanza bene rispetto ai cechi o ai polacchi. Belgrado era certo messa meglio di Varsavia. Scuole e tribunali funzionavano più o meno regolarmente. Si poteva viaggiare liberamente. E nel mondo la Jugoslavia godeva di buona fama. Oggi la stessa gente vive in un paese chiamato Serbia, uno Stato- a detta di tutti- non europeo bensì balcanico (prima di venire qui, ho dato un’occhiata a cinque popolari guide turistiche dell’Europa: la Serbia non figurava in nessuna di esse). La Serbia è un paria internazionale. All’estero la posizione di un serbo oggi è come quella di un tedesco subito dopo il 1945. Sempre ammesso che all’estero un serbo riesca ad arrivare: eminenti professori hanno dovuto stare in fila cinque ore, al freddo, per poi vederselo rifiutare» (Ash,2001 :190).

Grazie alla sua elevata credibilità e considerazione a livello internazionale, il cd. “passaporto rosso” (Figura) garantiva alla Jugoslavia una serie di agevolazioni in termini di accesso alla libera circolazione al di fuori dei confini nazionali sin dal 1965. Le politiche volte a favorire la mobilità degli individui, in modo non dissimile da ciò che avveniva in Occidente, rientravano in un preciso progetto politico: tali misure non riguardavano soltanto i cd. gastarbajteri (dal tedesco gastarbeiter, lavoratore ospite), ossia tutti coloro che per un tempo determinato potevano recarsi all’estero, per motivi di lavoro e che rispondevano a precise esigenze del sistema economico nazionale:

«Nel 1963, dopo accesi dibattiti, il partito comunista jugoslavo decise di abolire gran parte delle restrizioni sull’emigrazione economica del Paese. Questo radicale mutamento di orizzonte era motivato dalle emergenti difficoltà del mercato del lavoro interno, il quale non riusciva a riassorbire le massicce migrazioni di lavoratori che dalle campagne si riversavano nelle città. [..] Misure restrittive sull’emigrazione sembravano inoltre impraticabili vista la generale liberalizzazione dei movimenti, la intensificata

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integrazione del mercato jugoslavo nell’economia mondiale e la dipendenza da crediti stranieri» (Bernard,2011: 494)182.

Figura 6.1 – Il Passaporto rosso

Le misure di liberalizzazione dei passaporti hanno peraltro riguardato anche tutti coloro che non erano spinti da motivazioni di tipo migratorio, permettendo di poter viaggiare al di fuori dei propri confini anche per scopi puramente turistici. Come ad esempio racconta la signora Jovanka:

“Ai miei tempi, non è che tu potessi andare dove volevi. Ma almeno avevi la possibilità di scegliere. Stavamo bene e potevamo permetterci ogni tanto il lusso di viaggiare. L’anno scorso sono stata a Trieste. È stata un’esperienza che mi ha fatto ritornare alla mia gioventù. Negli anni ’70 venivo spesso in Italia. I miei genitori mi portavano con loro e ricordo che compravamo un sacco di cose, soprattutto vestiti e mio padre, appassionato di vino, comprava qualche bottiglia per le occasioni importanti, come diceva lui…” (Testimonianza 23, Jajce, 2010, Cfr. Appendice).

Significativa è poi la testimonianza di un ingegnere rumeno, sulla cinquantina, che rileva come effettivamente esistesse nel passato una differenza, ad esempio tra il suo paese e la Jugoslavia:

“Noi in Romania, non eravamo liberi di viaggiare come invece accadeva ai nostri vicini jugoslavi: è vero non avevamo bisogno di passaporto per spostarci da un paese all’altro ma non era sempre così semplice. Loro invece si. Avevo molti amici serbi e loro venivano a trovarmi di frequente. La Romania del resto è stata sempre molto aperta, con tanti paesi, e con la Jugoslavia ci sono stati sempre ottimi rapporti, economici e di amicizia. Tito e Chausescu si incontravano spesso e hanno fatto diverse cose insieme, hanno costruito insieme anche la diga al confine” (Testimonianza 51, Belgrado-Sarajevo, 2010,

Cfr. Appendice).

182 Secondo stime ufficiali alla fine del 1973 erano circa 1.150.000 i cittadini jugoslavi che avevano

deciso di emigrare verso l’Europa Occidentale, di cui circa 860.000 possedevano un impiego mentre 606.000 erano stati mandati attraverso le autorità jugoslave e gli uffici dell’impiego (Grečić, 2002).’

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Il ricordo di un passato mobile è ben presente in tutti coloro che invece, per molti anni, hanno dovuto vivere in una situazione di “ghetto”:

“E’ vero potevamo viaggiare. Per le ragioni più svariate. Potevamo emigrare, per motivi turistici o semplicemente per divertirci da qualche altra parte che non fosse la nostra città. Oggi invece è tutto diverso. Anche andare a Sarajevo è diventata un’impresa”.

(Testimonianza 43, Podgorica-Belgrado, 2010, Cfr. Appendice).

“Nel passato, non vi era alcun problema in termini di possibilità di spostamento all’estero. Tutto caso mai dipendeva dalle possibilità economiche che uno aveva. Oggi invece tutto dipende dall’appartenenza ad una città o ad un’altra, a seconda di cosa hai scelto,e se hai potuto scegliere, di essere”. (Testimonianza 14, Doboj, 2010, Cfr.

Appendice).

L’ultimo scampolo di libertà di movimento è stato assicurato durante il periodo della guerra, in cui si è potuto usufruire del “privilegio” di godere dello status di rifugiati e profughi di guerra che ha consentito di soggiornare anche per lungo tempo nei paesi europei. Tuttavia venuta meno l’emergenza si è stabilito un regime di rigido controllo delle frontiere che ha contribuito a limitare in modo determinante la libera circolazione delle persone, anche a causa dell’introduzione dello strumento del visto in seguito alle disposizioni contenute nel Regolamento 539/2001 del Consiglio Europeo:

«Eravamo ovunque. Molti scappavano verso luoghi migliori, l’America, il Canada, altri tardavano e si mettevano a girovagare: si recavano ovunque ne avessero l’occasione e, finché potevano, utilizzavano visti turistici, anche per un mese o due, poi tornavano e facevano di tutto per andarsene un’altra volta. Nella confusione generale soltanto le voci fungevano da bussola: dove si poteva o non si poteva andare senza documenti, dove era meglio recarsi, dove peggio, dove sarebbero stati benvenuti e dove no. Alcuni si ritrovarono in luoghi che mai avrebbero raggiunto in condizioni normali. I passaporti dei nuovi paesi, la Slovenia e la Croazia valevano ogni giorno di più.. per un periodo ci si poté recare in Gran Bretagna con il passaporto croato, ma solo fino a quando i britannici non ci proibirono l’ingresso. Alcuni arrivarono fino in Sudafrica, ingenuamente attirati da vecchie voci in base alle quali i bianchi erano ricevuti a braccia aperte. I serbi si dispersero per tutta la Grecia, come turisti o prostitute, trafficanti d’armi, specialisti nel riciclaggio di denaro sporco o ladri. Alcuni si procurarono i tre passaporti, croato, bosniaco e “jugoslavo”, sperando di avere fortuna almeno con uno di