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Le oscillazioni dello spazio relazionale: dinamiche identitarie e mobilità territorial

2.4 Territori rimoss

Strettamente connessa alla questione relativa alla “stratificazione sociale di individui”, in termini di libertà e opportunità di movimento nello spazio, vi è di riflesso quella della “stratificazione geografica di popolazioni”, esito di selezioni, volte a promuovere/rimuovere, intere porzioni di territori.

Le riconfigurazioni di potere, osservabili attraverso lo studio della mobilità, transitano anche questioni geopolitiche:

«Differential mobility empowerments reflect structures and hierarchies of power and position by race, gender, age and class, ranging from the local to the global. Questions of

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differential mobility empowerments – who moves, where and why – encapsulate many geopolitical issues» (Tesfahuney, 1998: 501).

Il gap a livello regolazionale che esiste con riferimento allo strumento dei visti rimanda in effetti non solo alla selezione di “determinate” categorie di individui legittimati a viaggiare, ma anche a una stratificazione geografica che coinvolge territori e popolazioni:

«Visas are often used as means to control and track visitors. One reason this is done is to ensure the controller entry of those who come from countries afflicted by civil war, state- sponsored terrorism, corruption, drug production and other problems. Visas also control access by citizens of “unfriendly” countries. [..]Visas also provide a means to control the entry of visitors who might abuse a visa-free privilege to seek illegal employment, or to escape violence or persecution in their own country, and forces them to use more appropriate channels, such as explicit application for work visas or asylum» (White, 2008: 143).

La strutturazione del movimento nello spazio in termini di permessi, monitoraggi o interdizioni all’accesso si riduce all’appartenenza nazionale, certificata dal passaporto26, quale principale fattore di permesso/ostacolo sia per il singolo soggetto sia per il suo territorio di provenienza.

Se il sistema dei visti rappresenta una semplice formalità che rientra oramai nella prassi quotidiana delle agenzie di viaggio, almeno per coloro che risultano far parte dei cd. paesi “sicuri”, dall’altro si tratta di in un vero e proprio regime, teso non solo a selezionare soggetti da rendere immobili o a cui riconoscere legittimità di movimento ma a produrre “mappe di mobilità”.

La questione relativa alle restrizioni dei visti, quale strumento di controllo alle frontiere, in genere è associata alle problematiche connesse ai movimenti migratori. Tuttavia, tale prospettiva può essere sviluppata anche su altri fronti. Più precisamente, sono due gli aspetti integrativi che possono essere fatti confluire nel nostro ragionamento e che riguardano, da un lato l’aspetto delle relazioni esistenti tra un dato paese e la comunità internazionale e dall’altro le implicazioni che la politica restrittiva dei visti comporta a livello di libertà e opportunità di viaggio anche, come si è detto, per scopi meramente di tipo “turistici”.

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L’acquisizione di un visto d’ingresso, anche se solo di tipo turistico, nei paesi che non rientrano nella cd. comunità dei “legittimati” al diritto per la propria popolazione di usufruire del libero movimento, comporta, parimenti a ciò che accade per le richieste dei migranti, una considerevole disponibilità di tempo, viaggi costosi e, non ultimo, la richiesta di una serie di informazioni che, come rileva White:

«Even for a tourist visa the following information may be required: detailed itinerary, names and addresses of persons or business being visited, details of languages spoken by the applicant, details of the applicant’s parents, and proof of booking or prepayment for accomodation and tran sport in authorized establishments» (White, 2008:135-136).

Si potrebbe obiettare che ciò sia dettato dall’esigenza di scongiurare qualsiasi azione tesa a utilizzare quale escamotage il visto turistico per aggirare e resistere ai dispositivi di controllo, descritti nelle scorse pagine. Tuttavia, andando al di là delle modalità soggettive attraverso le quali si costruisce il proprio diritto di fuga (Mezzadra, 2001), il dato che qui interessa riguarda le politiche di repressione “indistinte”, che comportano, implicazioni importanti sulle esperienze quotidiane di quei soggetti che per le ragioni più diverse si trovano a doversi confrontare con quello spazio incerto, rappresentato dalla frontiera e che il più delle volte si rivela essere un confine che di fatto preclude qualsiasi opportunità di attraversamento.

Come ad esempio notano Morgan e Pritchard, anche le esperienze turistiche sono investite da simili misure:

«Tourists and travellers often cross geopolitical boundaries and are categorized by authorities as people “out-of-place” [...] thus becoming a central focus of scrutiny and examination. Moreover, since notions of what constitutes “appropriate and inappropriate watching” differs from culture to culture and country to country (as do the spaces and opportunities for transgression and resistance), it is important to recognize that gender, ethnicity, nationality, class and income all affect the power alignments inherent in surveillance» (Morgan-Pritchard, 2005:116).

A tal proposito Inayatullah afferma:

«Travel has begun the process of creating a narrative in which there is no longer any allegiance to a particular place. We are becoming deterritorialised, delinking ourselves from land and the nation. The loneliness that result from this discontinuity with history might be resolved not through the search of one place but the realization that the planet

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itself is home. While this is a conceptual jump, nation-states are nor eternal. Moreover, humanity’s survival may depend on moving to a new order of identity, at the very least some form of global governance and planetary self. Certainly a world government structure with limited visa requirements would enhance the further universalization of travel and tourism. We could all become perpetual immigrants, forever travelling and never fearing deportation» (Inayatullah, 1995:414).

La questione della libertà di movimento riproduce in pieno un meccanismo di inclusione/esclusione in cui:

«alcuni di noi diventano “globali” nel senso pieno del termine; altri sono inchiodati alla propria “località” – una condizione per nulla piacevole né sopportabile in un mondo nel quale i “globali” danno il là e fissano le regole del gioco della vita» (Bauman, 1999: 5). «[..] l’ipotesi di un “mondo senza confini”, all’interno del quale possa vigere una completa “libertà di movimento” non rientra affatto nell’agenda capitalistica. Non si deve dimenticare che l’economia capitalistica si fonda su una politica delle differenze.[..] Le politiche migratorie si orientano a mantenere, controllare e gestire questi confini, introducendo ulteriori meccanismi per il controllo dei movimenti di persone. La “libertà di movimento” esiste solo per le élites globali, i professionisti altamente qualificati e i turisti abbienti, mentre i movimenti del lavoro subiscono una pesante regolamentazione e ai profughi e ai poveri o ai profughi è impedito qualsiasi spostamento» (Düvell, 2004: 30- 31).

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