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Distorsioni applicative dell’istituto

5. Profili critici: l’introduzione implicita di una condizione d

5.1. Distorsioni applicative dell’istituto

Una volta esaminate le discipline relative alla risoluzione delle riserve che nel corso del tempo si sono succedute, giunge il momento di passare ad analizzare quale sia stata la loro sorte sul piano applicativo, concentrando l’attenzione sull’istituto dell’accordo bonario.

Come si è osservato nel corso del precedente capitolo, l’istituto delle riserve, inteso nella sua globalità, è rivolto a tutelare gli interessi di entrambe le parti del contratto di appalto pubblico, quindi, da un

135 P. Cosmai, Il nuovo accordo bonario secondo il codice degli appalti: iter e

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lato, quelli pubblicistici di permettere all’ amministrazione appaltante di tenere costantemente sotto controllo l’andamento della spesa pubblica connessa alla realizzazione dell’opera, di esercitare “prontamente ogni necessaria verifica sulla fondatezza delle domande proposte dall’appaltatore e di poter valutare, in ogni momento, l’opportunità del mantenimento del rapporto di appalto o di recesso dal contratto, in relazione al perseguimento dei fini di interesse pubblico”136; dall’altro lato, quello dell’appaltatore, qualificabile in termini di diritto soggettivo, ad ottenere un corrispettivo maggiore di quello contrattualmente stabilito in ragione dei maggiori oneri sostenuti durante e per l’esecuzione dei lavori.

Se queste sono le funzioni che in astratto vengo affidate all’istituto in commento, non può essere sottaciuto come spesso le stesse siano state, in un certo senso, tradite da quelle che sono state le applicazioni concrete della disciplina.

Appaltatori molto scaltri e poco onesti, agevolati, nelle migliori ipotesi, dalla scarsa solerzia e diligenza dei funzionari della stazione appaltante, hanno utilizzato le previsioni in materia di apposizione e

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risoluzione delle riserve per aggirare ed eludere la disciplina sui contratti pubblici tout court, ed in particolar modo quella che presiede la fase di aggiudicazione degli stessi.

Sul punto appare interessante quanto rilevato dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP), autorità amministrativa indipendente dal 2014 accorpata all’ANAC, nella determinazione n. 5 del 30 maggio 2007.

A seguito di un’indagine sugli accordi bonari conclusi fino alla data 4 giugno 2001, l’Autorità ha riscontrato una serie di problematiche poste all’attenzione delle stazioni appaltanti. Il presidente dell’Autorità, ha evidenziato quali circostanze ricorrenti le seguenti: l’ammontare di quanto riconosciuto in sede di accordo bonario è notevolmente inferiore alle pretese iscritte a riserva (ed inferiore, altresì, alla soglia del 10% dell’importo contrattuale; il ricorrere, da parte di alcune imprese, sistematicamente a tale procedura avanzando sempre le medesime riserve (carenza progettuale, sorpresa geologica, andamento anomalo del cantiere); l’elevata percentuale del ribasso generalmente offerto in sede di gara. La prima circostanza è apparsa all’Autorità indicativa della pretestuosità delle richieste iniziali, le quali si rivelano, poi,

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esorbitanti in sede di definizione dell’accordo; la sopravvalutazione economica delle riserve, stimando artificiosamente il valore della controversia quale maggiore del 10% di quello contrattuale ha, però, nel frattempo, permesso di attivare la procedura di accordo bonario.

Di tutti gli accordi esaminati dall’Autorità, soltanto una modesta percentuale (16 su 649) erano stati conclusi con il riconoscimento all’impresa di una somma vicina a quella inizialmente richiesta (80% - 100% dell’importo richiesto).

Tali risultati evidenziano, a parere dell’AVCP, una contraddittorietà con le disposizioni del DPR 554/99, poi richiamate nel D. lgs n. 163/2006, circa la necessità di valutare, ai fini del raggiungimento della soglia del 10% dell’importo contrattuale e, dunque, dell’attivazione del procedimento, la non manifesta infondatezza delle riserve.

In sostanza, ciò che l’Autorità ha rilevato è un’applicazione distorta dell’accordo bonario, che pur essendo, nelle previsioni del legislatore, istituto di carattere eccezionale destinato a risolvere situazioni di particolare criticità, viene spesso strumentalmente usato dalle imprese per giungere, celermente, al riconoscimento di determinate richieste economiche.

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La circostanza, poi, è risultata confermata anche dalle affermazioni frequenti delle stazioni appaltanti, negli stessi accordi, di procedere soltanto per evitare che il contenzioso venisse prolungato ulteriormente a danno dell’amministrazione, la quale sembrava prescindere da una approfondita valutazione del merito delle riserve.

Appariva evidente, pertanto, come una procedura finalizzata ad assicurare il regolare prosieguo dell’appalto, evitando che questo si interrompa, o comunque risenta negativamente, a causa di una insostenibile maggiore onerosità della prestazione richiesta dall’impresa, spesso diventava strumento di quest’ultima per esercitare una forte pressione sulla stazione appaltante, finalizzata ad ottenere riconoscimenti economici che al termine dell’appalto sarebbero stati presi difficilmente in considerazione.

Passando alla seconda questione, invece, l’Autorità ha rilevato come sembrasse emergere una specializzazione di alcune imprese nel contestare sistematicamente le scelte progettuali e/o le attività poste in essere dalla Direzione Lavori, al fine di ottenere un riconoscimento economico.

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Al riguardo si è osservato come il riconoscimento, da parte del Responsabile del Procedimento, della fondatezza di richieste legate a presunte carenze del progetto, sia per effetto di circostanze imprevedibili che per errori o omissioni nella redazione dello stesso, comportasse la necessità di richiedere alle competenti figure (progettista e direttore dei lavori) la redazione di una perizia di variante, essendo questa, e non l’accordo bonario, lo strumento normativo previsto per tale eventualità (art. 132 del D.lgs n. 163/2006).

Nel caso, poi, in cui le esigenze di apportare modifiche ed integrazioni al progetto fossero riconducibili ad errore progettuale ed eccedessero il quinto dell’importo contrattuale, la stazione appaltante, secondo quanto disposto dal comma 4 del citato art. 132, sarebbe stata legittimata a risolvere il contratto.

In relazione al terzo punto, poi, l’Autorità ha rilevato una stretta connessione tra il ricorso all’accordo bonario ed il forte ribasso (in genere superiore al 20%) offerto in sede di gara. L’accordo bonario è apparso, pertanto, “strumentalmente utilizzato dall’impresa per correggere la formulazione di offerte non pienamente ponderate in sede di appalto o, comunque, recuperare parte del ribasso offerto”.

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“E’ evidente”, continua l’Autorità, “circa tale aspetto, che l’accordo bonario può riconoscere solo i maggiori oneri dell’impresa per effetto di circostanze sopravvenute, non rilevabili in sede di partecipazione all’appalto, in quanto, altrimenti, verrebbe ad alterare le condizioni economiche definite dalla gara (ad esempio: maggiori compensi per situazioni di disagio, riferite all’area di cantiere in cui si opera, già note in sede di offerta; maggiori oneri per consegne parziali già contemplate nei documenti di gara)”.

In definitiva, dalle informazioni acquisite è emerso palesemente un uso improprio del procedimento, che dovrebbe essere finalizzato a risolvere eccezionali situazioni di criticità, per le quali il rinvio della trattazione delle riserve potrebbe determinare seri problemi per il prosieguo dei lavori, stante la rilevante incidenza economica dei maggiori oneri per l’impresa137.

Bisogna, a questo punto, viste le osservazioni dell’AVCP sulla prassi applicativa della disciplina di cui al previgente d.P.R n. 554 del 1999, cercare di capire se le novità in materia di accordo bonario, introdotte dal legislatore del 2016, siano in grado di porre un argine alle applicazioni elusive dell’istituto.

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Partendo dal primo fenomeno riscontrato dall’AVCP, ovvero l’iscrizione di riserve per importi artatamente sopravvalutati, al solo scopo di raggiungere la soglia minima richiesta dalla legge per attivare la procedura di composizione bonaria, potrebbe, in effetti, essere limitata dalla sostituzione della soglia unica (del dieci per cento dell’importo contrattuale) con un range di valori che possono andare dal cinque al quindici per cento dell’importo contrattuale. In sostanza, l’aver abbassato l’importo minimo delle riserve richiesto per dare l’input al procedimento (dal dieci al cinque per cento) potrebbe concretamente aver eliminato il “movente” della condotta denunciata dall’Autorità, essendo adesso sufficiente un importo, raggiungibile con i soli effettivi maggiori oneri sostenuti, dall’appaltatore, senza che sia necessario gonfiarli.

Quanto alla seconda problematica evidenziata dall’AVCP, ovvero la contestazione sistematica da parte di alcune imprese appaltatrici delle scelte progettuali, la soluzione potrebbe essere rappresentata dalla previsione contenuta nell’art. 205 del nuovo Codice, secondo cui non possono essere oggetto di riserva gli aspetti progettuali già verificati ai sensi dell’art. 26 dello stesso Codice. In verità, tale divieto era previsto dall’art. 240 bis, comma 1 bis del

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previgente D.lgs n. 163/2006, ma non poteva essere preso in considerazione dall’Autorità al momento della determinazione. Il comma 1 bis contenente il divieto in questione è stato, infatti, introdotto nel corpo dell’art. 240 bis del previgente Codice dalla legge 106/2011, in epoca, dunque, successiva rispetto all’indagine condotta dall’AVCP.

Infine, in relazione all’ultima anomalia messa in luce dall’indagine dell’Autorità, il legislatore del 2016 sembrerebbe aver reagito riproponendo quelle previsioni che erano già state inserite nel previgente D.lgs n. 163/2006, ma, ancora una volta, in epoca successiva rispetto alla determinazione dell’AVCP. Ci si riferisce, innanzitutto, alla norma sull’esclusione delle offerte anormalmente basse, di cui rispettivamente all’art. 88 del previgente D.lgs 163/2006 e all’art. 97 dell’attuale Codice, la quale interviene direttamente nella fase dell’aggiudicazione del contratto, tentando, quindi, di evitare sul nascere il fenomeno in commento; in secondo luogo, a quei divieti sull’oggetto delle riserve contenute rispettivamente nell’art. 240 bis del vecchio Codice e nel 1° comma dell’art. 205 del vigente D.lgs n. 50/2015, i quali sono per l’appunto preordinati a scongiurare le eventuali speculazioni dell’appaltatore finalizzate a recuperare il

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ribasso d’asta per il quale era stato selezionato dalla stazione appaltante138.

138 Per una più approfondita analisi della ratio sottostante a tali divieti si

rimanda al paragrafo 4 del presente capitolo, più precisamente alla parte dedicata alle condizioni di applicabilità dell’istituto dell’accordo bonario.

146 CONCLUSIONI

Con il presente elaborato si è cercato di delineare il quadro d’insieme della disciplina giuridica sulle riserve dell’appaltatore a seguito del mutamento delle fonti di riferimento, determinatosi con l’emanazione del nuovo Codice dei contratti pubblici, ovvero il decreto legislativo n. 50/2016, con cui l’ordinamento ha adempiuto all’obbligo di recepimento delle tre direttive comunitarie del 2014, rispettivamente, la n. 23 sulle concessioni, la n. 24 sugli appalti pubblici e la n. 25 sulle procedure di appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali.

Il primo interrogativo sorto in conseguenza di tale studio è se il legislatore sia riuscito nell’intento annunciato nella legge delega n. 11 del 2016, ovvero dotare il generale sistema dei contratti pubblici, ovvero di conseguenza, il quadro regolatorio delle riserve che di esso fa parte, di una normativa primaria chiara e sintetica e di un sistema attuativo più snello e flessibile rispetto al precedente al corpo normativo costituito dal decreto legislativo n. 163 del 2006 e dal suo regolamento di attuazione ed esecuzione, il d.P.R n. 207/2010, ponendo fine a quella

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situazione definita come una vera nomorrea, fonte di incertezza del diritto.

Il secondo quesito, invece, riguarda gli effetti che, sul piano della tutela dei diritti dell’appaltatore e su quello più generale della certezza del diritto, potrebbero discendere dalla scelta effettuata con l’art. 9 del decreto ministeriale n. 49 del 2018 dal ministro delle infrastrutture e dei trasporti, su impulso del Consiglio di Stato, di rimettere alle stazioni appaltanti il compito di individuare nei singoli capitolati d’appalto le regole sui tempi e le modalità di apposizione delle riserve.

Due ulteriori interrogativi si pongono, poi, in relazione alla procedura di accordo bonario finalizzata alla soluzione stragiudiziale delle riserve. Il primo riguarda la possibilità di poter validamente considerare il previo esperimento di tale procedura quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale o arbitrale che l’appaltatore si è, appunto, riservato di proporre mediante la loro iscrizione nei vari documenti di appalto, alla luce dei principi generali in tema di condizionabilità del diritto di azione sancito dall’art. 24 Cost.

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Il secondo attiene, invece, e più in generale, all’idoneità dell’odierna regolamentazione a fronteggiare quelle applicazioni distorte ed elusive della disciplina generale in materia di riserve, quindi, tanto quella delle regole sull’apposizione delle stesse, quanto quelle volte alla loro definizione.

Infine, ci si chiede se l’opportuna scelta di estendere l’istituto della riserva agli appalti di servizi e forniture si sia concretizzata in una disciplina coerente e razionale.

In relazione al primo interrogativo, purtroppo, la risposta è negativa. Infatti, se per le disposizioni di rango primario si è avuta una effettiva riduzione, posto che, a fronte dei 271 articoli del previgente codice dei contratti pubblici, nel nuovo se ne contano 220, compresi quelli dedicati alla figura della concessione, fino al 2016 sprovvista di una apposita disciplina, lo stesso non può dirsi per la normativa di attuazione. Su questo fronte il legislatore del 2016 ha creato più problemi di quanti ne intendeva risolvere. Abbandonato lo schema di esecuzione mediante un unico regolamento, il nuovo Codice dei contratti pubblici affida la sua attuazione a circa 51 atti di diversa natura,

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rendendo, così, innanzitutto, difficile orientarsi tra di esse e, in secondo luogo, la complessiva normativa di esecuzione, sotto il profilo quantitativo non molto dissimile dalla precedente. Ciò che, inoltre, va segnalato, è la particolare natura di molti di questi atti. Sono numerosi, infatti, i temi su cui il codice rimanda a futuri atti dell’ANAC, per lo più denominati linee guida, che, non rientrando in nessuna categoria tipizzata, sono di difficile qualificazione giuridica.

In relazione al secondo quesito c’è da dire che, sicuramente, l’esercizio del diritto di pretendere un maggior corrispettivo, già gravato dall’onere di riserva, rischia di essere reso, quantomeno, più difficoltoso, poiché, non potendo più fare riferimento ad una disciplina unica per tutti gli appalti, si dovrà prestare molta attenzione alle specifiche regole che, sui tempi e modalità di iscrizione delle riserve, la stazione appaltante ha predisposto in relazione a quel determinato appalto che lo coinvolge. Insomma, l’aver scelto di lasciare un istituto di carattere generale, che presiede alla tutela di interessi anche, e soprattutto, pubblicistici, privo di una disciplina altrettanto generale, ma che, al contrario, potrebbe, in astratto,

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diversificarsi appalto per appalto, non può di certo dirsi idonea alla realizzazione della certezza del diritto su cui, peraltro, puntava il legislatore con l’abrogazione del d.P.R 207/2010.

Sulla prima questione sorta, invece, in relazione all’accordo bonario, alla luce del principio, più volte, enunciato dalla Corte Costituzionale in tema di azione condizionata, ovvero che la stessa è costituzionalmente legittima solo nella misura in cui l’accesso alla giurisdizione non sia reso eccessivamente gravoso e del principio generale secondo cui la condizione di procedibilità deve essere espressamente prevista come tale dalla legge, la conclusione a cui sembra doveroso giungere è che il previo esperimento della procedura di bonario componimento delle riserve non può assurgere a valida condizione di procedibilità della domanda. Innanzitutto non viene qualificata come tale in nessuna parte del codice dei contratti pubblici, ed in secondo luogo non viene stabilito che l’eventuale inutile decorso del termine di avvio della procedura consente all’esecutore di proporre validamente la sua domanda davanti al giudice ordinario o all’arbitro.

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Ad una conclusione positiva si può, invece, giungere in relazione al secondo quesito sorto dall’esame della disciplina sull’accordo bonario. Le applicazioni in chiave elusiva della generale disciplina delle riserve, compresa quella sulla loro definizione, sembrano poter essere validamente contrastate mediante l’insieme degli accorgimenti a tal fine predisposti dal legislatore non solo nello specifico art. 205 del Codice dei contratti pubblici, ma anche nella parte dello stesso disciplinante la fase di aggiudicazione della gara.

In merito al quesito per ultimo sollevato, l’analisi della regolamentazione complessiva predisposta sulle riserve dell’appaltatore di servizi e forniture porta, necessariamente, a valutare negativamente il lavoro svolto dal legislatore. Come osservato nel corso dell’elaborato, innanzitutto, non può propriamente parlarsi, in questo settore, di riserve, posto che non è stata disposta nessuna decadenza in capo all’esecutore di servizi e forniture che ometta di preannunciare le sue doglianze nei documenti contabili, nonostante, in astratto, sussista il medesimo interesse che nel settore dei lavori giustifica la previsione dell’onere di apposizione delle riserve, ovvero il

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costante controllo sull’aumento del costo di esecuzione del contratto. Ciò che bisogna considerare è che l’estensione dell’istituto delle riserve è stata voluta da legislatore per poter applicare agli appalti di forniture e servizi la procedura di accordo bonario. Ed è proprio a questo punto che la normativa complessiva sulle contestazioni dell’esecutore di forniture e servizi diventa irragionevole, oltre che fonte di disparità di trattamento con l’esecutore di lavori. Nell’intenzione del legislatore, infatti, l’esperimento dell’accordo bonario dovrebbe costituire, come detto, condizione di procedibilità della domanda giudiziale o arbitrale dell’esecutore; tale condizione però sarebbe operativa solo per quelle contestazioni che l’esecutore ha iscritto nei documenti contabili, mentre per le altre, dato che l’iscrizione non è prevista a pena di decadenza, sarebbe libero di proporre direttamente la domanda innanzi al giudice ordinario o all’arbitro. L’incoerenza e l’irragionevolezza della regolamentazione complessiva delle riserve negli appalti di servizi e forniture dovrebbe, a questo punto, apparire palese.

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