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È ormai convinzione condivisa sia nell’ambito della letteratura scientifica sia dal senso comune che la definizione di anzianità non possa più basarsi su un dato puramente anagrafico. Non basta infatti il superamento della fatidica soglia dei 60-65 anni per essere considerati anziani, sia perché l’allungamento medio della vita e della vita in buona salute permette a persone, anche ben oltre questa soglia, di essere fisicamente attivi, sia perché questa ampia fascia di popolazione non è un tutto omogeneo ma presenta al suo interno notevoli differenze sia riguardo alle condizioni fisiche e psichiche sia riguardo agli atteggiamenti, ai comportamenti, allo stesso sentire e a tutto ciò che afferisce all’autocoscienza personale. Si tratta, non considerando le inevitabili eccezioni, di differenze raggruppabili e classificabili, per fasce d’età (i 65-75enni hanno caratteristiche diverse dai 76-85enni ecc.) ma anche qui con una certa dose di approssimazione e genericità, in quanto il percorso di invecchiamento e di indebolimento, inevitabile per tutti, avviene comunque secondo velocità e ritmi differenti da persona a persona. La pura e semplice età anagrafica quindi ci offre poche informazioni sugli anziani. Stabilire in base a questo chi sia anziano oppure no è del tutto inadeguato proprio perché non rende ragione delle obiettive condizioni di carattere fisico-sanitario di cui le persone godono nella fase più avanzata della loro vita nonché della loro complessità interiore e psicologica.

“Nelle nostre società, la vita media si allunga e le condizioni di salute dei soggetti, a parità di classe d’età, sono sensibilmente migliorate rispetto al recente passato. Questa considerazione potrebbe giustificare, da sola, le attuali difficoltà nel forzare sotto l’unica etichetta di “anziano” la varietà di situazioni prodotte dal fatto che, a 60-65 anni, si hanno di fronte ancora molti anni di vita, parte dei quali in buone condizioni fisiche e mentali, oltre che in una situazione socioeconomica e culturale che offre concrete opportunità di rimanere a lungo attivi, anche in una fase in cui l’impegno personale si esercita al di fuori del mercato del lavoro.” (Facchini & Rampazi, 2006: 67)

“Nonostante la frequenza con la quale i termini sono utilizzati, la decisione di cosa significhi vecchiaia e quando cominci rimane problematica. Non possiamo

presumere che sia omogeneo un gruppo che comprende un raggio di età di 40 anni […] È del tutto irrealistico che un gruppo del genere sia omogeneo sia per quel che attiene alle caratteristiche che per quel che attiene agli atteggiamenti.” (Victor, citazione tratta da Pugliese, cit: 49-50)

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Oltre che per le diverse condizioni fisiche, le persone anziane si differenziano tra loro per la loro storia, per altri fattori di carattere sociale, individuale, soggettivo34. La vecchiaia “percepita” è molto diversa da persona a persona indipendentemente dalle condizioni fisiche. Ognuno può vivere in modo diverso il proprio invecchiamento.

“Raramente […] i cambiamenti che si osservano nel comportamento con l’età sono dovuti a un fattore solo. Piuttosto sono il risultato di molte influenze che agiscono nel corso della vita. Così come l’ambiente si modifica e lo modifichiamo, così cambia il nostro modo di invecchiare e i modi di pensare, agire e sentire circa le nostre vite.” (Birren, 1990, cit. in Cesa-Bianchi, 1998: 54)

Sul piano psicologico:

“Non esiste la psicologia del novantenne e del centenario, ma ci sono tante psicologie quanti sono i novantenni e i centenari.” (Cesa-Bianchi & Cristini, 2009) Si può arrivare persino a dire, provocatoriamente, con Marc Augé, che la vecchiaia non esiste, che egli non percepisce di invecchiare, perché il suo corpo si logora ma la soggettività rimane giovane (Augé, 2014).

In effetti si può parlare di “diverse età” di cui l’individuo anziano è portatore: vi è un’età cronologica, una biologica, una personale, una sociale, una psicologica (Mirabile, 2011). Queste età sono collegate le une alle altre ma sono influenzate anche da fattori individuali, personali e di contesto che le rendono non del tutto coincidenti fra loro e nel nostro tempo appare sempre più evidente in particolare il gap tra l’età cronologica e le altre.

D’altra parte è inevitabile, dal punto di vista dello studio e della gestione della società (quindi della demografia, della sociologia, ma anche della politica per ciò che concerne le

policies previdenziali ed assistenziali) arrivare a una categorizzazione univoca della figura

dell’anziano, a stabilire una linea di demarcazione netta tra chi è da considerarsi tale e chi non lo è ancora.

In effetti la prima e più semplice definizione di anzianità è quella stabilita dalla società e dalle sue istituzioni ed è legata al momento del pensionamento e della conseguente estromissione dal mondo produttivo. È la società, con la politica previdenziale dei governi, a stabilire, infatti, quando una persona deve uscire dal mondo produttivo ed iniziare una nuova fase per la quale si può cominciare a parlare di anzianità. Questo criterio dell’età pensionabile per definire l’anzianità, seppur schematico e burocratico, è l’unico che

34Va ricordata anche al posizione di chi sostiene che l’idea di vecchiaia assuma connotazioni variabili nelle diverse epoche per effetto delle diverse rappresentazioni sociali che prevalgono in esse più che per le differenti condizioni fisiologiche o psicologiche (Johnson, 1998).

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consente di gestire certe dinamiche sociali, la più importante delle quali riguarda, come detto, il sistema previdenziale-pensionistico. All’arrivo dell’età pensionabile si associa anche il riconoscimento da parte dello stato o dell’ente pubblico di varie agevolazioni quali tariffe a prezzo ridotto per l’accesso ai servizi sanitari e/o per l’utilizzo di mezzi pubblici, biglietti a costo contenuto per la frequentazione di musei e teatri ecc. Il raggiungimento dell’età pensionabile continua ad essere ufficialmente una sorta di “porta simbolica” (De Nardis & Alteri, 2012) che dà accesso alla vecchiaia, un periodo che, in virtù dell’innalzamento della speranza di vita, può durare alcuni decenni all’interno dei quali l’individuo può attraversare segmenti esistenziali profondamente diversi.

In ogni caso questa è una definizione che, soprattutto nel passato anche recente, era accompagnata da connotati piuttosto negativi anche perché spesso si associava nell’immaginario collettivo all’idea di malattia:

“Il concetto di vecchiaia, la risonanza semantica evocatrice di disastri biologici che essa ingenera, è il luogo geometrico di pregiudizi e stereotipi che hanno segnato in negativo la vita di tanta gente, che finisce, suo malgrado, con l’autoavverare la profezia: la vecchiaia è una malattia.” (Migliara, 2009: 371)

L’esclusione dalla vita produttiva per passare a quella improduttiva, in una società in cui il lavoro produttivo si caricava di significati non solo economici, cioè come unica ed esclusiva fonte di ricchezza e indicatore di sviluppo (Rifkin, 2005), ma anche simbolici (lavoro come unica forma di realizzazione di sé, status symbol), rischiava di essere comunemente percepita come una sorta di “squalifica” della persona, non ritenuta più utile al perseguimento dei fini di questa società che appariva (e appare ancora) fondata su valori come la produzione e il consumo. È la condizione che è stata definita ageism (Butler, 1969; Henrad, 2002) e che conduceva all’isolamento dal mondo, alla perdita di ogni ruolo sociale, a una visione omogeneizzata dell’anziano. L’emarginazione che ne derivava dipendeva proprio dalla convinzione dell’inutilità di questa categoria per la sopravvivenza complessiva del sistema (Bernardini, 2003). Tra l’altro questa forma di squalifica iniziava già a manifestarsi negli ultimi anni lavorativi quando sull’anziano al lavoro si addensavano pregiudizi negativi riguardo alle sue presunte performance decrescenti, alla difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti, ad apprendere ed utilizzare le nuove tecnologie (Nerlich & Schroth, cit.), per cui finiva per essere quello più a rischio di espulsione in casi di ridondanza della mano d’opera (Butler & Gleason 1985; Bombelli & Finzi, 2006, Lazazzara & Bombelli, 2011; Pero, 2012).

Il rischio connesso a questa sanzione sociale di improduttività finiva per essere quello di condurre ad una progressiva emarginazione/autoemarginazione dell’individuo escluso, emarginazione che poteva manifestarsi con gesti eclatanti ma soprattutto con gradualità e

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nella quotidianità, una volta superata la prima fase vissuta come la conquista del “meritato riposo” dopo le fatiche della lunga vita lavorativa. Questo avveniva con più facilità se all’anziano venivano a mancare reti e contatti sociali con famigliari, parenti, amici o se si trovava ad affrontare situazioni di malattia o disabilità. Questa condizione era accompagnata dalla consapevolezza di non contare più nulla nel sistema di relazioni che la società sviluppava, e da una percezione di stanchezza, di passività. Nell’anziano si faceva strada la sottile consapevolezza che tutte le scelte importanti della vita erano state fatte ed ora non rimaneva che attendere con rassegnazione il suo corso verso la fine naturale. Si trattava della disengagement theory (Cumming & Henry, 1961) secondo la quale l’anzianità era un processo di arretramento progressivo dalle relazioni e dalle attività sociali, arretramento tutto sommato auspicabile a favore delle nuove generazioni che si affacciavano sulla scena sociale. Una conferma di tale dinamica emerge anche sul piano linguistico in quanto spesso le persone pensionate tendevano ancora a definirsi come ex a partire dal lavoro svolto (ex-operai, ex-insegnanti, ex-commercianti ecc.). Il tempo della vita, il cuore della vita era ancora per molti di loro in gran parte coincidente col tempo del lavoro e dell’età lavorativa ormai conclusa (Scortegagna, 2005). L’esclusione dal mondo del lavoro poteva avere un’incidenza notevole, quindi, almeno sul piano psicologico- soggettivo, in quanto accompagnata dal decadimento rispetto a un ruolo prima socialmente valutato ed economicamente vantaggioso, garantito dall’attività lavorativa, e dalla diminuzione conseguente del reddito, dall’abbassamento dello status sociale e dal senso di perdita di utilità per sé e per la società.

La situazione, da questo punto di vista, mostra ora segnali di deciso miglioramento. In questi ultimi anni sembra affermarsi un certo rovescio della medaglia in quanto comincia a farsi strada un modo nuovo di vivere il pensionamento e l’esclusione dal mondo produttivo. In molti si arriva a vedere questo periodo come un’occasione per “liberare” risorse ed energie fino ad allora convogliate nell’ambito produttivo-utilitaristico, e che ora possono essere indirizzate verso attività di altro genere, di carattere spirituale, culturale, ludico, di utilità sociale, attività comunque libere e non determinate dal ruolo che la società assegna alla persona. Ciò è reso possibile ancor di più se la persona è in buone condizioni fisiche. In tal caso il pensionamento può rappresentare non l’inizio del declino ma l’inizio di una nuova avventura in cui è possibile liberarsi dei vecchi ruoli ed effettuare nuove scelte, coltivare valori e ideali nuovi, elaborare progetti per il futuro (Bertocci, 2010). Ma per cogliere questo aspetto liberante (“tempo liberato” e non più solo tempo “libero” dal lavoro: Marcuse, 1955) connesso all’uscita dal mondo produttivo occorre un lungo percorso di educazione e di cambiamento culturale a cui ancora non sempre le persone coinvolte sono preparate e che dipende da svariati fattori, non ultimo il livello culturale e di studio. Il divenire anziano con la perdita dei ruoli sociali acquisiti richiede infatti nella persona che invecchia una disponibilità a ridefinire continuamente la propria

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identità, a dismettere, anche senza eccessivi rimpianti, ruoli precedenti per assumerne altri e nuovi e questo non è facile per tutti (Santini et al., 2015).

“Il benessere nella terza età passa veramente attraverso la riappropriazione del proprio tempo e dei propri interessi, mediante l’apertura al nuovo e all’inesplorato, alla capacità di vivere serenamente la propria età, senza rinunciare alla vitalità delle fasi precedenti.” (De Nardis & Alteri, cit.: 67)