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3.8 L’habitat intergenerazionale come banco di prova della cultura dell’ “arco di vita” Questo però richiede un approccio di carattere generale e ad ampio raggio che tenga

conto di vari fattori tra i quali, non ultimo, quello dell’abitare. Ogni altro approccio risulterebbe inadeguato se non arrivasse ad affrontare quest’ultima questione capitale. Se infatti si pensasse che l’intergenerazionalità si costruisce solamente organizzando o promuovendo iniziative rivolte agli anziani per creare occasioni di socialità, di partecipazione, di formazione culturale e tecnologica, di svago e intrattenimento con o alla presenza dei giovani, certamente si offrirebbe un contributo positivo sul piano della conoscenza reciproca ma l’affronto complessivo del problema risulterebbe ancora

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inadeguato62. Questo è ciò che viene fatto comunemente, anche nel nostro Paese, con le

politiche per gli anziani delle varie amministrazioni pubbliche, con iniziative indubbiamente interessanti e che in gran parte raccolgono il gradimento delle persone anziane ma che non risolvono il problema alla radice. Tra l’altro questo genere di iniziative sono rese sempre più di difficile realizzazione a causa delle crescenti difficoltà finanziarie delle amministrazioni locali. L’incontro tra generazioni non si può nemmeno ridurre alla semplice organizzazione ad esempio all’interno degli istituti di momenti di animazione proposti agli ospiti. Sarebbe molto riduttivo:

“un intervento inutile in una situazione già dolorosa.”(Everarts , cit.: 196)

Questo incontro deve avvenire nel quotidiano e non essere riservato a momenti isolati, per quanto belli e significativi ma che costituirebbero ancora dei “momenti-ghetto”.

Il progetto di realizzare una società intergenerazionale se non trova una adeguata concretizzazione che vada fino a toccare le radici della convivenza sociale finisce per essere uno slogan per anni internazionali senza incidere sulla sostanza del problema. Può tradursi sul piano pratico nel cercare di creare rapporti tra le generazioni nell’ambito del lavoro e dell’apprendimento formale e informale, in quello delle attività del tempo libero (volontariato e caregiving), dell’utilizzo delle infrastrutture (Masi et al., 2011; Poscia, et al., 2018), ma è ancora troppo poco. Si deve raggiungere il livello della residenzialità e ciò richiede un cambiamento nell’intero modo di concepire l’habitat urbano, un cambiamento che tenga conto non solo degli anziani ma di tutte le generazioni in dinamico sviluppo (Gualano et al., 2018). L’habitat è il vero banco di prova della cultura dell’arco della vita ed è a questo livello che si gioca il futuro di una vera ed effettiva intergenerazionalità.

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Si riferisce qui, a titolo di esempio di buone pratiche, l’interessante progetto TOY-Together Old & Young, finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma Lifelong Learning Programme (LLP)– Grundtvig, promosso dall’International Child Development Initiative (ICDI), ed attuato in sette Paesi europei tra il 2012 e il 2014. Questo progetto ha coinvolto bambini dagli zero agli otto anni e anziani sopra i 65 anni, in laboratori sulla comunicazione, sulla tutela ambientale, sulla creazione artistica ecc. (in Italia questi laboratori sono stati realizzati a Lecco, Paderno d’Adda, Roma e Orvinio). L’esito è stato ampiamente positivo (Cortellesi & Kernan, 2016) ma non sfugge, a parere dello scrivente, ad alcuni limiti, da quello di essere una iniziativa estemporanea, fine a se stessa, o al più un “progetto-pilota”, a quello di mettere in relazione vecchi e bambini, in una sorta di ghetto separato dalla società, di ridurre gli anziani a un ruolo di animatori per bambini (è il rischio di tutti gli anziani quando finiscono per adattarsi al ruolo di “nonni” che la famiglia o la società attribuisce loro), di ridurre il tema dell’intergenerazionalità alla gestione del tempo libero. Per una conoscenza più ampia di progetti simili a questo: Vagli & Ciucci, 2019.

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La charity britannica Beth Johnson Foundation, che si occupa tra le altre cose di invecchiamento attivo e di integrazione sociale, nelle sue linee guida per la pratica

intergenerazionale del marzo 201163 aveva indicato un percorso in sette livelli attraverso

cui giungere a una piena integrazione delle persone anziane all’interno di una comunità. In questo percorso il livello più basso è costituito dalla semplice conoscenza dell’esistenza degli anziani, senza alcun contatto diretto. I livelli intermedi sono costituiti da attività saltuarie o periodiche che favoriscano l’incontro e la conoscenza tra le generazioni. Il livello più avanzato è però quello che investe tutta la comunità: si tratta dell’Intergenerational

community settings. A questo livello i valori della interazione intergenerazionale sono

stabilmente inseriti nella dinamica sociale. Si parla di “comunità sviluppate come contesti intergenerazionali”, con strutture, scuole, parchi, luoghi di ritrovo pensati e progettati per tutte le età (ibid.: 5). È un programma che, al tempo, rivelava una consapevolezza nuova del problema e che è all’origine di interessanti esperimenti anche negli Stati Uniti64, ma che sembra però ancora mancare di un deciso riferimento alle problematiche dell’abitare. Si parla di strutture facilitanti, di luoghi di incontro per persone di tutte le età, di comunità attrezzate in tal senso, ma non si giunge ancora a parlare esplicitamente di abitazioni intergenerazionali, di quartieri per residenti di tutte le età che vivano fianco a fianco e che possano entrare facilmente in rapporto nella semplicità del vivere quotidiano.

La consapevolezza di questo livello del problema si sta però facendo strada progressivamente a livello internazionale sia nella pratica che nella riflessione teorica. Negli Stati Uniti, si è partiti negli anni 80 dalla elaborazione di programmi di interventi intergenerazionali intesi come attività per aumentare la cooperazione, l'interazione o lo scambio tra le generazioni nelle scuole, nelle organizzazioni comunitarie, nelle comunità di pensionamento, negli ospedali, nei luoghi di culto e in altri contesti, (secondo un modello simile a quello esposto prima della BJF) per poi arrivare a prendere consapevolezza della necessità di un affronto più profondo, fino alla progettazione di ambienti e luoghi di vita, “siti intergenerazionali”, in cui convivono più generazioni che ricevono servizi e

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A Guide to Intergenerational Practice (2011) reperibile su:

http://www.ageingwellinwales.com/Libraries/Documents/Guide-to-Intergenerational-Practice.pdf

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Si tratta delle Intergenerational Communities, città o comunità che fanno della pratica intergenerazionale il loro obiettivo primario, promuovendo programmi e pratiche che accrescono la cooperazione, l’interazione e lo scambio tra persone di diverse generazioni, le incoraggiano a condividere i loro talenti e risorse e le sostengono nelle relazioni a vantaggio sia loro che dell’intera comunità. Esempi di queste pratiche sono attività di insegnamento e di tutoring di anziani nelle scuole, organizzazione di momenti ricreativi comuni, attività di volontariato condivise, esperienze artistiche e musicali che coinvolgono giovani e anziani ecc. Esempi in tal senso si trovano in vari stati degli Usa (Texas, Iowa, Oklahoma, California ecc.) Si veda su questo https://www.aarp.org/content/dam/aarp/livable-communities/old-learn/civic/americas- best-intergenerational-communities-aarp.pdf. Si tratta di esperienze profondamente diverse da quella delle newtowns mono generazionali di cui si parlerà più avanti.

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interagiscono attraverso attività pianificate o informali" (Kaplan, et al. 2002; Kaplan, 2004). In Europa sono in atto da tempo molteplici realizzazioni che vanno in tale direzione (quartieri, centri residenziali, agglomerati urbani, spazi pubblici, esperienze di housing sociale e co-housing ecc. progettati e realizzati secondo tali scopi) e di cui si darà conto più avanti (vedi cap. 4).

Quello dell’habitat gerontologico emerge quindi come un tema centrale, una sorta di “cartina di tornasole” delle concezioni ideologiche, delle scelte di politica sociale e assistenziale nei confronti degli anziani e di tutta la parte “debole” della società. È su questo terreno, in questo ambito che la “cultura dell’arco della vita” gioca tutte le sue potenzialità (Predazzi, cit.). Si tratta di attuare un ripensamento complessivo della dimensione dell’abitare sociale, un ripensamento progettuale che vada nella direzione di un abitare per tutte le età, un universal design o design for all pensato da Mace (1998; Young & Pace, 2000) per le persone disabili ma estendibile anche agli anziani (Bosia 2017; si veda anche SUPSI, 2010 che riporta ampie esemplificazioni) - e non concepito solo per una determinata categoria di persone (l’adulto nel pieno della sua efficienza fisica in funzione del quale tutte le strutture sono pensate, a cui si debbono poi aggiungere, come dei ghetti, appendici appositamente dedicate ai bambini, agli adolescenti, agli anziani, ai grandi anziani, ai disabili, ai malati di Alzheimer ecc.)65 ghetti che potrebbero essere sempre più efficienti ma rimarrebbero pur sempre ghetti, che si devono poi far convivere con progetti mirati di inclusione con il centro vitale del tessuto urbano per colmare un gap di isolamento creatosi in origine.

Non è quindi a valle che si risolve il problema della convivenza tra generazioni ma a monte nella progettualità iniziale del tessuto urbano. Occorre pensare a città e quartieri adeguati a tutte le età, con strutture (a cominciare dalle abitazioni e dai quartieri, per arrivare ai passeggi, ai parchi, ai percorsi pedonali, alla localizzazione dei servizi e alla loro accessibilità, ai luoghi di ritrovo, di socialità e di divertimento, agli spazi culturali) usabili dalla popolazione infantile, dalle famiglie con bambini, dall’adulto in piena efficienza fisica, dal disabile, dall’anziano con gradi diversi di dipendenza e fragilità. Sul piano progettuale

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Il tema dell’abitare sociale (social housing) è tornato di attualità negli ultimi anni nel nostro Paese, dove invece in passato, non trovava molti riscontri a causa della diffusione della proprietà abitativa. La crisi economica, unitamente alla speculazione edilizia, hanno reso più difficile l’acquisizione della casa in proprietà per alcune fasce di popolazione, per cui si è riacceso il dibattito sulla politica dell’abitare. Per social housing si intende generalmente “l’insieme delle attività atte a fornire alloggi adeguati, attraverso regole certe di assegnazione, a famiglie che hanno difficoltà a trovare alloggio alle condizioni di mercato perché incapaci di ottenere credito o perché colpite da problematiche particolari” (in http//www.housingeurope.eu/, citato in Bronzini, 2014). Nel dibattito relativo a questo tema ben si inserisce la riflessione sulle nuove forme di residenzialità per gli anziani.

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questo significa un ripensamento complessivo dell’habitat urbano i cui obiettivi principali sono:

-arrivare a creare luoghi abitativi dove convivano, pur nel rispetto della privacy, persone e nuclei di età diversa;

-riformare le dimensioni delle unità abitative in quanto condomini di grandi dimensioni non favoriscono la conoscenza tra gli abitanti (Scott Hanson & Scott Hanson, 2015; Gresleri, 2007a); riadattare le unità abitative non idonee, abbattendo barriere architettoniche e altri ostacoli che possano impedire la vita normale di persone fragili (Ahrentzen & Tural, 2015; Kamin et al., 2016); realizzare abitazioni modificabili e adattabili plasticamente alle varie età della vita;

-integrare edifici che ospitano servizi per specifiche fasce d’età (ad es. scuole materne e luoghi di ricovero per anziani);

-integrare abitazioni indipendenti e centri di assistenza medica; garantire sistemi di protezione, monitoraggio e tele-assistenza;

-migliorare la qualità degli spazi outdoor (questo è fondamentale per la costruzione del senso di appartenenza alla comunità), dotare questi spazi di attrezzature idonee e sempre ben tenute;

-utilizzare tutti gli strumenti della tecnologia per facilitare le comunicazioni (questi strumenti purtroppo ancora oggi sono sottoutilizzati dagli anziani e rischiano di aumentare il divario tra loro e le generazioni più giovani);

-facilitare i movimenti e gli spostamenti; rendere accessibili a tutti tutte le parti della città, in particolare i luoghi commerciali, di svago e culturali.

Questa riprogettazione urbana implica anche un ripensamento della collocazione delle residenze e degli istituti per anziani che non possono essere istituti-ghetto posti lontano o isolati rispetto ai centri di vita della città o del paese, luoghi “dimenticati” per i “dimenticati” (Olcese, 2015), ma al contrario vanno collocati in luoghi dove vive la comunità, la quale deve avere facile accesso agli spazi offerti alla vita degli anziani, che possono diventare spazi per la vita di tutta la comunità, anche dei giovani e dei bambini.

Si tratta in buona sostanza del progetto delle Age friendly cities di cui si è già parlato, che

però rischia di essere ancora dentro una logica in qualche modo settoriale se si limita a proporre singoli interventi adattativi di luoghi e spazi e non giunge fino a un ripensamento generale dell’abitare urbano. Questo progetto può essere considerato dal punto di vista teorico solo come un primo passo verso una città per tutte le generazioni anche perché le città non devono essere “amiche” solo degli anziani ma di tutte le generazioni.

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Tenuto conto di tutto quanto detto, appare inadeguata anche la risposta data al problema dalle cosiddette “newtowns monogenerazionali”, sorte a partire dagli anni 50 negli Stati Uniti e diffusesi successivamente anche in alcuni Paesi europei quali Francia e Spagna. Si tratta di villaggi costruiti in aree gradevoli, dal clima mite, e paesaggisticamente belli (in California, Florida, Arizona ecc. negli Stati Uniti, sulla Costa Brava e sulla Costa del Sol in Spagna, in Provenza e in costa Azzurra in Francia), destinati unicamente ad accogliere anziani al termine della fase lavorativa, con abitazioni e comunità su misura per loro

(Amendola, 2011). In questi villaggi (in Europa non sono in realtà villaggi costruiti ex-novo

ma piuttosto nicchie ed enclave, realizzate all’interno di territori fortemente urbanizzati) gli anziani possono trascorrere serenamente gli anni ancora attivi della loro vita, avendo garantite sicurezza, protezione sociale, assistenza medica, la possibilità di una vita di relazioni. Si tratta in realtà di un mondo in miniatura costruito a misura di anziano ma che, al di là delle realizzazioni pratiche che, ad esempio negli stessi Stati Uniti non sempre sono state all’altezza delle aspettative per limiti e carenze progettuali oltre che per problemi di tipo economico (Stroud, 1995), non sfugge al dubbio di rappresentare una sorta di ghetto per quanto dorato, dove gli anziani sono rinchiusi e isolati dal resto della società.

Una logica settoriale dell’abitare, come è anche questa, non si concilia con la nuova idea dell’ “arco di vita” di cui tutte le età sono parte integrante a pieno titolo. Oltretutto, anche in termini semplicemente economici, una politica dell’abitare urbano che ignori le acquisizioni della riflessione sul nuovo habitat intergenerazionale e proceda così a compartimenti stagni, con rigide separazioni di campo per utenze, funzioni, classi di età, è alquanto dispendiosa e comporta enormi dispersioni di risorse, garantendo per giunta risultati inadeguati sul piano della valorizzazione e della soddisfazione delle persone.

“L’invecchiamento non è un incidente sociale cui provvedere con interventi speciali: è tempo di concepire strutture e servizi per tutti che concettualmente contengano già nel momento progettuale la vecchiaia come evento costitutivo del cammino esistenziale stesso e quindi contestuale alla progettazione di case, comunità, automobili, ascensori, computer, cinema, piscine, frigoriferi, vespasiani, biblioteche, giardini pubblici…” (Predazzi et al., 2000: 14)

Questo cambio di prospettiva progettuale può avere conseguenze rilevanti dal punto di vista dell’anziano e delle altre categorie “deboli” e va incontro a una esigenza fondamentale, che condivide con ogni persona, quella della libertà di scelta del luogo in cui vivere, in quanto vengono rimossi tutti gli ostacoli che la rendono difficile, rendendo fruibili tutti gli spazi che gli sono utili (naturalmente oltre a quello dell’ habitat esistono altri ostacoli da rimuovere per arrivare alla piena libertà di scelta e sono ostacoli legati alla disponibilità economica, alle condizioni famigliari e parentali e alle condizione di salute) (ibid.).

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Il box seguente elenca in sintesi i principi-guida di una politica dell’habitat per anziani nell’ambito della cultura dell’ “arco di vita” elaborati da Predazzi. (Box 3.2)

Box. 3.2 – Principi-guida di una politica per l’habitat degli anziani nell’ambito della cultura dell’arco di vita

Eventail Garantire ai più anziani la scelta tipologica più ampia possibile tra le soluzioni abitative e le opzioni di protezione in armonia con le caratteristiche psicologiche, sociali e culturali individuali.

Habitat pad Utilizzare soluzioni abitative intermedie, adeguatamente attrezzate, come piattaforma strutturale su cui appoggiare le diverse forme e strategie di home care.

Lifespan Adeguare alloggi e supporti sanitari alla persona nella sua abitazione, con soluzioni in grado di accompagnarla per un arco ampio della sua vecchiaia, piuttosto che costringerla alle migrazioni attraverso strutture a diverso grado di intensità assistenziale.

Architettura globale Progettare gli spazi di socialità e i servizi secondo una visione globale, i cui elementi fondanti sono rappresentati da multigenerazionalità e integrazione urbana.

La Rete Valorizzare nelle politiche sociali le risorse delle reti informali e le risorse strutturali, la convergenza sull’obiettivo delle competenze pubbliche, no-profit e private, le sinergie di prossimità e le economie di scala per realizzare politiche sociali.

Fonte: Giunco et al., 2013

In questo modo si può attivare una intergenerazionalità nel quotidiano e continuativa, come modalità di impostare la vita nella/della società, non estemporanea, ed episodica e, ultimamente, improduttiva.

3.9 - Un ripensamento anche delle case per anziani. Verso forme di residenzialità