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3.9 Un ripensamento anche delle case per anziani Verso forme di residenzialità leggera

Segnatamente alla questione anziana occorre un ripensamento complessivo delle forme di residenzialità; non basta ripensare e, per così dire, “umanizzare” le case di riposo per gli anziani; occorre fare di più:

“L’iniziativa sociale non può essere limitata ad una rivisitazione di servizi per anziani, ma deve essere riletta in una logica globale di coinvolgimento di tutte le generazioni. […] La transizione dell’ “alloggio per anziani” alla “casa per tutti agibile anche agli anziani” può segnare un passaggio epocale nell’architettura sociale.” (Predazzi et al. cit.: 15).

Riguardo alle residenze per anziani queste dimore devono essere non un luogo dove il tempo è sospeso in attesa della fine della vita, ma un luogo dove la vita dell’intera società scorre ancora e dove l’anziano possa sentirsi nel pieno di essa. Dal punto di vista dell’anziano poi è importante che lui possa “sentirsi a casa propria” anche quando non risiede più nella sua abitazione d’origine (anche perché spesso la necessità porta a doverla

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lasciare definitivamente). Questo può succedere se il suo nuovo domicilio diventa un luogo che mantenga le caratteristiche di una casa di abitazione (e non quella di un ospedale o una casa di cura) e dove possa sentirsi accolto e vivere relazioni sociali soddisfacenti. Si tratta quindi di favorire, anche attraverso l’insediamento abitativo, dei legami relazionali stabili e soddisfacenti anche in luoghi diversi dalla propria abitazione d’origine. Questo nuovo modo di concepire l’habitat per l’anziano è sicuramente di aiuto nel vincere il suo isolamento, nel prevenire un “cattivo invecchiamento”.

È in questo nuovo tipo di residenza che è possibile ripensare l’intergenerazionalità.

“Se la residenza per anziani è chiamata da ghetto assistenziale a diventare a tutti gli effetti “luogo di vita” la presenza intergenerazionale, cioè la riproduzione della naturale, vitale, compresenza delle generazioni, costituisce un elemento irrinunciabile per la tutela del patrimonio umano e sociale dell’ospite e la collocazione stessa della residenza nella comunità sociale. ” (Predazzi et al., cit.: 200-201)

Ma tale intergenerazionalità si realizza a più livelli. Innanzitutto, come già accennato, a livello di integrazione territoriale delle strutture abitative. Esse devono essere accessibili, ben integrate nella rete relazionale e di servizi sociali, culturali, sanitari, commerciali (con rapporti continuativi e non estemporanei con le istituzioni scolastiche del territorio ad esempio) e, possibilmente, nella rete relazionale di origine degli anziani (il paese, il quartiere dove vivono parenti e conoscenti). È il contesto urbano la tela di fondo su cui inserire il discorso delle abitazioni per anziani. Inoltre tali strutture devono essere polifunzionali, cioè devono essere fruibili e in grado di offrire servizi non solo agli anziani ma a tutta la popolazione in generale. Che siano cioè luoghi di vita per tutti (ad esempio ospitando al loro interno kinderheim, negozi, aree gioco per i più piccoli, uffici per l’espletamento di pratiche burocratiche e amministrative ecc.). Il fatto che poi, come già ampiamente detto, esistano forme e gradi diversi di fragilità e di dipendenza dà ancor più valore all’esigenza di sperimentare forme di residenzialità assistita intermedie e variegate (“residenzialità leggera”) rispetto, da una parte, alla vita nel proprio domicilio privato, con i rischi e i pericoli che comporta, e, dall’altra, all’istituzionalizzazione in una casa di riposo che porta alla definitiva marginalizzazione della persona e talvolta alla sua totale depauperazione di identità.

Le caratteristiche progettuali di queste nuove forme di residenzialità sono quelle di essere strutture di dimensioni più contenute, con una forte caratterizzazione domestica, cioè che abbiano le caratteristiche di un’abitazione e non di un ospedale, che facilitino il mantenimento o la creazione di contatti sociali e che siano orientate e predisposte a sostenere le persone nelle varie fasi dell’invecchiamento, da quelle indipendenti a quelle

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con un livello di vita più assistito, che soprattutto offrano sicurezza. In tali strutture la cura dell’aspetto relazionale risulta quindi più sviluppata e centrale66. Queste caratteristiche consentono agli ospiti di mantenere la loro identità, di non sentirsi espulsi dalla vita sociale e da quelle relazioni che danno senso all’esistenza.

A fronte di queste nuove acquisizioni appare evidente come le tradizionali “case di riposo” per anziani (generalmente le RSA-Residenze Sanitarie Assistite) risultino ormai inadeguate pur se inevitabilmente necessarie per le famiglie e gli anziani che si trovino in determinate condizioni. Esse conservano la loro funzione per ospitare anziani in condizione di quasi totale dipendenza ma non sono certamente adatte ad ospitare persone in condizioni di fragilità e che conservano gradi intermedi o iniziali di dipendenza.

Il modello delle case di riposo ha una lunga storia: alle sue origini vi sono le istituzioni custodialistiche dell’800 - orfanotrofi, ospizi per poveri e caserme, carceri e ospedali psichiatrici) - istituzioni definite “totali” in quanto inglobano in esse l’intera esistenza di chi ne è ospitato (Goffman, 1961). A partire dagli anni 60 gli studi su questo genere di istituzioni si sono concentrati soprattutto su quelle carcerarie (Foucault, 1975) e per malattie mentali (Jones, 1962, Foucault, 1963, Basaglia & Basaglia-Ongaro, 1968) ma le caratteristiche evidenziate per questo particolare tipo di istituzioni valevano anche per

quelle per anziani: esclusione/separazione/segregazione dalla vita esterna per le persone

istituzionalizzate, controllo costante degli “ospiti”, organizzazione regolamentata in modo rigido, autoritario e dall’alto della vita interna. Un tempo le case di riposo si presentavano fatte su modello delle caserme militari, con camerate e grandi cortili e pochi servizi, per persone bisognose solo di un tetto e di un pasto caldo. Garantivano la semplice custodia e sopravvivenza dell’anziano ospite, con livelli di cura e di assistenza ridotti al minimo67. Erano sostanzialmente un modo per non far morire per strada chi non aveva più altre prospettive di vita davanti a sé che non la morte e che non aveva persone vicine che si occupassero di lui. Queste strutture non solo isolavano l’ospite rispetto alla società esterna ma erano a loro volta isolate rispetto al mondo esterno. Erano luoghi per dimenticati, che divenivano spesso anche luoghi dimenticati in quanto la vita che vi si svolgeva non aveva più alcun rapporto con la vita esterna e i suoi modelli (Olcese, cit.), dei “non-luogo”, cioè luoghi anonimi, impersonali, senza storia (Augé, 1992).

66 È questo che spiega la pertinenza dell’utilizzo della parola habitat per indicare tale tipo di residenzialità,

come ripetutamente ribadito nell’intervista rilasciataci da Marco Predazzi e da noi ampiamente riportata più avanti.

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Questo livello minimale e impersonale di assistenza era attenuato dall’atteggiamento caritatevole e di benevolenza verso l’anziano garantito dal personale religioso (e, quando non religioso, laico ma mosso da principi filantropici), in quanto molte di queste istituzioni erano legate alla Chiesa, a congregazioni religiose o a organizzazioni filantropiche laiche.

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Negli anni 60 del secolo scorso questo modello assistenziale per anziani ha assunto caratteristiche più sanitario-ospedaliere, secondo l’identificazione tout court della vecchiaia con la malattia. Gli edifici erano realizzati con camere affacciate su lunghi corridoi e con la centralità data a infermerie e ambulatori medici con salotti e salottini che sembravano sale d’aspetto di ambulatori. Ancora negli anni 90, almeno nel nostro Paese, esse conservavano queste caratteristiche:

“Basti pensare, oltre ai locali medici e infermieristici, alla quantità di servizi igienici, vuotatoi e lavapadelle rispetto alle diverse necessità della popolazione odierna, per l’80% portatrice di presidi per incontinenza o cateteri vescicali. Oppure, alla quantità di palestre offerte a persone totalmente dipendenti e con potenziale riabilitativo ridotto o assente.” (Giunco, 2016).

L’ampio percorso della ricerca scientifica documentato in precedenza, che ha portato alla fine dell’identificazione vecchiata=malattia e all’affermarsi della cultura dell’ “arco di vita”, fa capire come ormai anche questo tipo di istituzioni sia da considerare superato e che occorrono invece nuovi modelli abitativi che valorizzino la domiciliarità, la socializzazione ma anche l’intimità degli ospiti e che quindi si configurino come appartamenti con una maggiore attenzione agli spazi privati e privato-sociali, con una netta separazione tra luoghi di vita e locali di cura o di servizio proprio per ridurre negli anziani ospiti la percezione di essere in una condizione di malattia.

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