Non sarà inutile riepilogare brevemente, senza pretesa di assoluta esattezza storica ma in modo sufficientemente preciso, le vicende che subì la questione delle materie coloranti artificiali dall'armistizio ad oggi. I colori, come brevemente li chiameremo, furono inclusi dal Trattato di pace colla Germania fra le materie da fornirsi ai diversi Stati vincitori in conto riparazioni. Oltre al 50 °f0 dei colori esistenti in paese all'entrata in vigore del Trattato, la Germania fu obbligata a cedere fino al 25 % della sua produzione (normale) di colori, e ciò dall'entrata in vigore del Trattato a tutto il 1924. La Commissione delle riparazioni ha l'opzione su tale produzione, opzione da esercitarsi semestralmente, il prezzo è fissato dalla Commissione stessa « in funzione del prezzo netto d'esportazione d'anteguerra e delle variazioni sovraggiunte » (?), ovvero « in rapporto al prezzo più basso praticato ad altro compratore ». Praticamente i prezzi si basano su quelli più bassi praticati dalla libera industria sul mercato interno ; le fabbriche tedesche rimettono regolari fatture alla Commissione delle riparazioni, questa le vista, ne accredita l'importo allo Stato tedesco in conto riparazioni e le passa al Governo tedesco per il saldo ai fornitori.
La merce stessa viene posta a disposizione degli Stati vincitori, che se la dividono fra di loro più o meno fraternamente.
È superfluo aggiungere che, com'è successo di parecchie altre merci fornite in conto riparazioni, non sempre la torta fece buon prò a chi s'era ripromesso di farne una gioconda scorpacciata. Ciò risulterà meglio dal seguito.
I diversi Stati vincitori approfittarono in misura più o meno larga di questo diritto d'opzione sancito dal Trattato. Alcuni fra essi, che durante la guerra avevano maggiormente sviluppato la loro industria dei colori, limitarono i ritiri a poche qualità non prodotte in paese; si affacciava fin da allora l'insanabile antinomia fra l'esigere onerose riparazioni da parte tedesca ed il mettere la industria paesana in condizioni di difficile concorrenza.
Per provvedere allo smaltimento dei colori ricevuti in conto ripa-razioni i diversi Stati studiarono organizzazioni diverse, lasciandosi guidare in ciò dai criteri più o meno burocratici-accentratori, ovvero relativamente liberali-individualistici che ispirano le rispettive ammi-nistrazioni. Ad esempio, il Belgio, se le informazioni sono esatte,
affidò la vendita e la distribuzione dei prodotti alle Rappresentanze delle stesse Case produttrici germaniche, in continuo'contatto colla clientela dei consumatori, imponendo ad esse prezzi di vendita calcolati in modo da consentire un buon utile all'erario e la possibilità di concorrenza ai consumatori nazionali.
La Francia, seguita in ciò dall'Italia, credette meglio di provvedere costituendo una specie di consorzio fra lo Stato fornitore, le industrie consumatrici (tessili, cartaria, dei cappelli, ecc.) e quelle produttrici di colori. Nacque cosi in Francia l'Union des Consommateura et
Producteurs de matièree colorantea ed in Italia l'Unione Produttori e Consumatori di materie coloranti artificiali (Unione Coloranti)
costi-tuita a Milano l'8 gennaio 1920 con un capitale di 2 milioni di lire delle quali 1.200.000 furono sottoscritte dai Consumatori (cotonieri, lanieri, Setaioli, cappellai e cartai) e L. 800.000 dai Produttori.
Il Governo si riserbò la parte di fornitore dell'Unione, alla quale fissò anche i prezzi di vendita, che stabilì periodicamente basandosi sul parere di un proprio Comitato tecnico consultivo. Se non cbe un primo, non gradito risultato di tutto questo congegno si fu cbe, mentre altri Stati, con organizzazioni più svelte, erano riusciti ad avere in tempo utile notevoli consegne di colori, l'Italia, meno un piccolo quantitativo prelevato sulle esistenze germaniche del giorno del Trattato e distribuito dall'Associazione Cotoniera (settembre-ottobre 1919) prima della costi-tuzione dell'Unione, non riuscì a fare le prime regolari distribuzioni di colori se non nel luglio-agosto 1920, vale a dire oltre un anno dopo la firma del Trattato di Versailles (28 giugno 1919).
Ma questo sarebbe il male minore. 11 più grave si è che, per ragioni insite più nell'ibrida costituzione e nella inconciliabilità degli scopi assegnatile che per imperizia o malavoglia delle per-sone, l'Unione mostrò fin da principio gravi difetti di funzionamento e creò malcontento e sfiducia. Infatti vediamo quali dovrebbero essere i suoi compiti:
a) Anche a prescindere da scopi di lucro e di larga
rimunera-zione dei capitali investiti, ciò cbe non fu mai nelle aspirazioni dei sottoscrittori, essa, come ogni azienda industriale, deve cercare una gestione economica ed oculata.
b) Deve curare gli interessi del Tesoro, il quale intende di ricavare
il massimo prezzo dai colori dati in conto riparazioni, ma al tempo stesso ha dei limiti nella concorrenza dei prodotti sia importati cbe fabbricati in Italia, concorrenza che il Governo, sia per ragioni di decenza che di interesse nazionale, non può eliminare del tutto.
c) Sarebbe tenuta a fare gli interessi delle industrie consumatrici, che, rappresentando la maggioranza del capitale, a tenore del Codice di commercio, dovrebbero avere anche il maggior influsso sull'andamento sociale, e le quali vedrebbero il loro tornaconto in prezzi i più bassi possibili ed in un'azione svolta dalla Società nel senso di facilitare
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il più possibile l'afflusso delle materie coloranti in Italia e, colla loro abbondanza, il livellamento dei loro prezzi verso il costo di produzione (azione liberista).
d) Finalmente, come rappresentante dei produttori nazionali di
colori, dovrebbe tendere a rialzare sul mercato interno i prezzi dei coloranti fino al limite del monopolio, ad ostacolarne in tutti i modi l'entrata dalle frontiere, a mettere i maggiori inciampi alla concorrenza fra l'industria nazionale e quelle d'oltre confine (azione protezionista).
Ora non occorrono i lumi dell'economia politica per rilevare che tra questi scopi esiste antagonismo assoluto. Anche trascurando il primo, per quanto esso non sia completamente trascurabile in un'atmosfera viziata, come questa, da antinomie insanabili e che per ciò stesso si presta a transizioni, a favoreggiamenti, a ripieghi i cui effetti deleteri vanno al di là del danno economico immediato che possono recare, sta il fatto che se tra il secondo ed il quarto vi è qualche punto di contatto (trattasi in fondo di due organismi che hanno entrambi, sebbene in modo diverso, interesse ad una politica artificiale di prezzi elevati), l'antagonismo è assoluto fra il terzo ed il quarto ed assoluto, sebbene meno difficilmente sanabile, fra il terzo ed il secondo.
È assai facile scrivere, nella melliflua prosa dell'arcadia ministeriale, che il Consorzio è creato per contemperare in un tutto armonico gli interessi dei consumatori, con quelli dei produttori, dando ad entrambi per limite supremo l'interesse predominante del Fisco e quello della Nazione. Ma la realtà è che in una stessa pentola si è voluto far bollire le vivande più eterogenee e s'è preteso per di più che a tenerne vivo il fuoco cooperassero armonicamente il boia e l'impiccato, il topo ed il gatto. Invece di ammettere, senza infingimenti, che una conciliazione degli interessi opposti non sarebbe stata semplicemente possibile e cbe il loro urto nella medesima organizzazione non avrebbe potuto dare se non frutti amari, s'è voluto tentare « l'unione dei contrari ».
I risultati furono quali si potevano prevedere. L'Unione, in realtà, non obbedì agli organi responsabili che la dovevano guidare. Il suo Consiglio di amministrazione, formato originariamente e con procedi-mento alquanto sommario, da 8 rappresentanti dei Consumatori e 5 dei Produttori, un po' per motivi di persone, fra le quali non mancarono quelle che, come sempre avviene nei famosi « consessi di competenti », approfittarono della carica più cbe per tutelare gli interessi legittimi ad esse demandati, per crearsi dei meriti presso il Governo, facendosi zelatori di ogni sua più bislacca idea, ma più per l'intima contraddi-zione dei compiti ai quali l'Unione avrebbe dovuto soddisfare, si trovò fin da principio paralizzato nei suoi movimenti, indeciso, contrastato da opposte tendenze. La sua opera riusci cosi « a Dio spiacente ed a' nemici sui » ed ebbe gravi critiche non solo nei discreti conversari degli interessati, ma anche in una solenne occasione, nell'assemblea generale dell'Unione del 4 aprile 1921, nella quale una personalità
industriale e politica ebbe a lanciare gravi accuse contro l'indirizzo dell'Unione e l'azione da essa svolta nella questione, della quale discorreremo in seguito, delle limitazioni all'importazione dei colori. In quella riunione fu riconosciuto, sebbene attraverso a prudenti attenuazioni, che il regime nel quale si svolgeva la vita dell'Unione e le misure governative che nella materia essa provocava o subiva, erano fatti apposta per ingenerare dubbi e sospetti. Succedeva insomma qui quello che succede in tutti i casi nei quali il regime d'eccezione, il proibizionismo, la mancanza di chiarezza e di semplicità dei compiti sono causa diretta della formazione di ambienti malsani, nei quali, se abusi non avvengono, si deve render grazie alla solidità morale delle persone ma non alla bontà del sistema.
Ma se questi appunti potevano toccare, come toccarono, piuttosto gli organi esecutivi dell'Unione, appunti di altro ordine furono diretti contro il suo organo responsabile, il Consiglio d'amministrazione, il quale avrebbe mancato senz'altro al suo còmpito, che del resto abbiamo riconosciuto più sopra contraddittorio e perciò assurdo, di tutelare in equa misura gli interessi di tutti i gruppi. Nella realtà avvenne che dei Consiglieri rappresentanti dei consumatori solo qual-cuno, anzi forse uno solo, sostenne con energia e con argomenti validi le ragioni del consumo. Gli altri, con procedimento che può riuscir strano a chi non è a giorno di quanto suol avvenire in simili casi, ma che è ben noto a quanti sanno come a rappresentare interessi, spesso rilevantissimi, di intere categorie vengono delegati, non già coloro che tali interessi hanno sinceramente a cuore, ma quei soliti tre o quattro che, perchè hanno molto tempo a disposizione, dispongono di facile parlantina o di qualche motto di spirito, sono proclivi a dar sempre ragione alla parte più forte, meglio se questa è il Governo dal quale sperano o temono, sono sempre pronti ad offrirsi per l'interesse comune, autocandidati eterni di tutte le elezioni, rappresentanti per antonomasia di categorie o di classi, le quali nel loro intimo, colla maggioranza del 90%, non sceglierebbero mai rappresentanti di tal fatta, ma che collettivamente non hanno il coraggio di sconfessarli, ripetendo,
capo-volto, quanto suole avvenire per le collettività di individui: il ben nolo adagio romano parafrasato in « senatores malae bestiae; senatus
bonus vir ».
Se a questa parte dei Consiglieri-consumatori, troppo tiepidi degli interessi della loro categoria, aggiungiamo gli autentici rappresentanti dei produttori, il cui interesse è precisamente l'opposto, e se teniamo conto della concomitanza di interessi degli organi esecutivi dell'Unione, che, se non hanno, in teoria, facoltà deliberative, in pratica, come sempre avviene, contano almeno per tre quarti, ed i quali in un'azione inibitrice del Governo vedono il mezzo per accrescere di importanza ed estendere nel tempo l'opera loro, non riuscirà difficile di comprendere come l'azione dell'Unione si sia svolta in effetto nel senso di
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giare il Governo, che non chiedeva di meglio, ad emanare provvedimenti restrittivi a tutto danno, come chi scrive fermamente ritiene, della economia nazionale ed in ogni caso a detrimento inoppugnabile degli interessi reali più forti che nel suo seno erano rappresentati.
Fatto è che l'Unione fu aspramente e giustamente rimproverata di aver concorso, o, nella migliore delle ipotesi, di non essersi opposta a che venissero emanate disposizioni legislative vincolatici al sommo della libertà di commercio e se qualche suo membro potè ripartire l'accusa fra la sua attività quale Consigliere dell'Unione e quella, soggetta a critiche non meno vivaci, quale membro del Consiglio della Associazione Cotoniera Italiana, sta di fatto che essa non potè purgarsi del tutto degli appunti che le furono rivolti. Ma lasciamo l'Unione, sul conto della quale si fece fin troppa cronaca.
Quando, col suo tramite, si incominciarono a distribuire in Italia i colori germanici in conto riparazioni, la situazione era ad un dipresso la seguente : le fabbriche tedesche erano già riuscite ad importare in Italia, in libero commercio, quantità abbastanza notevoli di colori; le fabbriche italiane che, abbandonata da poco la produzione degli esplodenti e degli altri prodotti bellici, avevano affrontato, con larghezza di programmi, cbe, come vedremo, può essere giudicata eccessiva, la fabbricazione dei colori, erano alle loro prime armi ed avevano messo sul mercato solo qualche prodotto veramente utile e conveniente. I consumatori, è vano negarlo, meno cbe per il nero allo zolfo, prodotto fondamentale per il cotone e del quale avevano potuto essere soddisfa-centemente riforniti dai produttori nazionali, erano più ben disposti verso la produzione tedesca: marche e concentrazioni costanti, tinte in generale più pure e più brillanti, vastissima gamma di colori, sicurezza di rifornimenti (almeno fin dove lo permettevano le difficoltà dei tempi e gli ostacoli che, più spesso da parte italiana che tedesca, intralciavano le spedizioni), affiatamento coi fornitori e coi loro rappresentanti, assistenza tecnica e, diciamolo pure, forza di abitudine li spingevano per quella strada. Dall'altra parte il Governo aveva sulle spalle quantità ingentissime di colori in conto riparazioni, scelte in buona parte con criteri errati e forse offerte tendenziosamente dai Tedeschi, desiderosi di mettere nell'imbarazzo coloro che avevano messo le mani sul prodotto del loro lavoro.
Ecco sorgere quindi fin da allora, e maturarsi successivamente, il proposito da parte dei produttori italiani di ottenere dal Governo misure ferocemente restrittive contro l'importazione dei colori e da parte del Governo di obbligare, con misure di tal natura, i consumatori italiani a smaltire, volenti o nolenti, le forti eccedenze di prodotti che esso era venuto accumulando. Ed ecco sottoposto alla firma del Re il decreto 3 febbraio 1921, controfirmato dai Ministri Gioiitti, Alessio, Micheli e Facta, che dava facoltà al Ministro delle Finanze, d'accordo con altri Dicasteri, di « limitare o comunque regolare l'importazione
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delle merci identiche o similari a quelle che... sono cedute al Governo italiano dagli Stati ex-nemici in conto riparazioni ». Il Decreto, che era uscito dalle pressioni combinate del Tesoro per valorizzare, con vantaggio certo dell'Erario ma con danno altrettanto certo dell'economia pubblica, le merci ricevute in conto riparazioni e dei produttori italiani per non vedersi esposti alla concorrenza, e fra i quali i fabbricanti di colori avevano avuto rappresentanti di ogni specie, abilissimi tutti nel scendere e salire le scale dei Ministeri, rimase nel cassetto del Ministro delle Finanze. Fu detto che l'on. Giolitti avesse desiderato di vederci chiaro e cbe avesse ordinato che il Decreto, che portava già la firma di S. M., non fosse pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
Ma intanto i tempi maturavano. I Tedeschi, che nel 1919 avevano venduto a "prezzi alti ma non esorbitanti (6-8 volte i prezzi dell'ante-guerra) e durante il 1920 avevano rialzati progressivamente i loro prezzi fino a raggiungere le 15 e le 20 volte gli antibellici, avevano portato al principio del 1921 nuovi formidabili rialzi. Essi erano indecisi fra la politica del massimo sfruttamento del prezzo, che dava loro, oltre al vantaggio dei grossi guadagni immediati, l'opportunità di non tirarsi addosso le ire del Tesoro, che avrebbe visto svalutati i suoi prodotti, quelle dell'Unione, che avrebbe vista svalutata la sua attività ed i propositi di vendetta dei fabbricanti italiani, che, in un regime di prezzi artificialmente gonfiati, potevano sperare nella possibilità di concorrere ed il desiderio di affermarsi sul mercato, legare maggior-mente a sè il consumatore italiano, prepararsi un più largo sbocco avvenire, ottenere il massimo utile non dal massimo prezzo ma dal massimo smercio e, non ultimo, battere in breccia la nascente e per vero fino ad allora non molto promettente industria italiana dei colori. Fino alla primavera del 1921 le Case germaniche seguirono una politica di prezzi altissimi; da quell'epoca, delineatasi la crisi industriale e ridotto notevolmente il loro smei-cio, e d'altra parte riconosciuto che i loro sforzi per tenere lontano misure ad essi dannose non sarebbero approdati, attenuarono le loro quotazioni obbligando Unione e Produttori nazionali a seguirli nella discesa.
Ma la crisi industriale, crisi essenzialmente di costi di produzione e di prezzi, saliti assai più rapidamente della capacità d'acquisto dei consumatori, andava intanto sconvolgendo più di un programma e più di una previsione. Più ancora del Tesoro e dell'Unione sorsero a questo punto, armati a battaglia, i produttori di coloranti e gli operai addetti a tale fabbricazione, chiedendo a gran voce provvedimenti d'eccezione atti a permettere all'industria dei colori di oltrepassare il momento veramente scabroso ed a crearle una posizione di favore per l'avvenire. Non è spento l'eco delle polemiche che in quel tempo (giugno e luglio 1921) corsero per i giornali. Il Corriere della Sera, Il Sole,
l'Avanti! offersero le loro colonne a chi reclamava ad alta voce
ad essere sorretto, a chi faceva la critica spietata non alla tutela dell'industria nostrana ma ai modi coi quali questa tutela avrebbe dovuto essere messa in atto.
Il Ministero, pressato da un lato dai produttori e dall'altro dai rappresentanti degli operai chimici, dopo di aver sentito un collegio di interessati, nel quale i consumatori, parte per fatalità e parte per indifferenza dichiarata, non ebbero se non un energico difensore, sopraffatto dai sostenitori di lui più eloquenti della necessità di prov-vedimenti di eccezione, tirò fuori dal cassetto il Decreto Reale del 3 febbraio, che fece pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale del 1° giugno e' subito dopo, 3 giugno 1921, emanò un Decreto ministeriale a firma Facta col quale si vietò « l'importazione di colori organici sintetici e dei prodotti organici intermedi della loro fabbricazione » e si ammise che deroghe al divieto possano essere concesse dal Ministro, sentito il Gomitato per l'importazione e l'esportazione, su domanda dell'inte-ressato, trasmessa nei modi che verranno stabiliti e sempre quando i colori o prodotti intermedi non si fabbrichino o si fabbrichino in quantità insufficente dall'industria nazionale.
Ma intanto andava maturando la nuova tariffa dei dazi doganali, per la quale gli industriali, checché ne dicano i loro onorevoli difensori obbligati, avevano affilato tutte le armi non certo per farla riuscire la più modesta e tollerabile possibile. I produttori di colori si trovavano nella felice condizione di avere patrocinatori particolarmente influenti e benemeriti; essi non sdegnarono il loro autorevole patrocinio, tanto più che chi parlava faceva la parte del Cicero prò domo. La tariffa, entrata in vigore il 1°luglio 1921, portò i seguenti dazi per i colori:
N. 795 - Colori organici sintetici:
Coe (Beante di maggior
azione
a) allo zolfo al Ql. lire oro 100 0,2 b) altri
1° allo stato secco o con mono del 50 % di acqua > » 200 0,5 2" in pasta con 50 % o più di acqua . . . . » » 100 0,5
Ciò significa che oggi i colori allo zolfo, fra i quali sono compresi i più importanti colori per cotone, pagano all'incirca 6 lire il Kg.; gli altri, se allo stato secco, circa 15 lire e se in pasta circa lire 7,50. I primi, fatta eccezione del nero, che rappresenta da solo la parte maggiore del consumo e che oggi si vende in Italia intorno alle 7 lire, hanno attualmente prezzi variabili fra le 10 e le 30 lire il Kg. Accettando una media di prezzo di 20 lire, la protezione sarebbe del 90% per il nero e del 30 % per gli altri colori allo zolfo. Per i colori delle altre categorie, secchi, il prezzo può oscillare enormemente, forse fra 10 e 100 lire il Kg. e superare notevolmente questo limite per prodotti speciali. È perciò difficile dare una media attendibile, ma può affermarsi che nel complesso la protezione non è inferiore al 30 o 40%. Per i colori in pasta, fra cui
i più importanti sono l'indaco e l'alizarina sintetici, i quali sono in commercio in paste contenenti generalmente il 20% di colorante, la protezione è oggi prossima al 60%.
Ma questi conteggi vanno meglio riferiti ai prezzi dell'anteguerra, coll'oro alla pari. Senza ripeterli nei loro dettagli, basti riportare i risultati finali.
Sul prezzo medio d'anteguerra il dazio, supposto l'oro alla pari, rappresenterebbe :
Per il nero allo zolfo di concentrazione normale, 1' 85 -r 70 % Per gli altri colori allo zolfo . . . il 50 -r 35 % » » allo stato secco 100-r 3 0 % » » in pasta » 1 4 0 - r 2 0 %