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Nella sezione delle Institutiones dedicata ai culti dei Romani trova spazio anche la polemica sulle cosiddette divinità astratte82. La divinizzazione dei nomi astratti83 era una caratteristica tipica della religione romana e diviene, nella tradizione apologetica, obiettivo polemico di diversi autori84.

La fonte pagana che problematizza questo argomento nella maniera più esaustiva è per noi il De natura deorum di Cicerone, dialogo85 ben noto anche a Lattanzio86.

Nell’opera dell’Arpinate due sono i passi dedicati al tema in esame: il primo è contenuto nel II libro87, interamente dedicato alla esposizione della dottrina stoica, mentre il secondo appartiene al III88, che, se si eccettua l’ultimo paragrafo89 – riservato alla chiusura del dialogo – contiene la confutazione della visione stoica ad opera dell’accademico Gaio Aurelio Cotta, pontefice massimo e celebre oratore.

Nel primo passo indicato il dotto Quinto Lucilio Balbo, portavoce nell’opera ciceroniana del punto di vista stoico in materia di religione, menziona i culti di Fides, Mens, Virtus, Honos, Ops, Salus, Concordia, Libertas e Victoria, e giustifica la prassi di deificare tali res sostenendo che esse hanno in sé una uis

82 E.g.: Virtus, Mens, Fides, Victoria, Fortuna, Concordia, Pietas, Salus, etc... Su questo tema cf. TOMMASI–MORESCHINI (2017), Arnobio–Contro i pagani, 346–347.

83 Cf. ARNOB. nat. IV.1: Arnobio, si riferisce a queste divinità, parlando, per l’appunto, di ‘nomina’.

84 Cf. e.g. CLEM. AL. Protr. II.26.4–5 e X.102.2–4, ARNOB. nat. IV.1–2, LACT. inst. I.20.12 e ss. (ma anche epit. 21, dove sono menzionate Spes, Fides, Concordia, Pax, Pudicitia e Pietas), EVS.PE. V.3.5, PRVD. c. Symm. VII.445, AUG. ciu. III.25 e IV.14 e

20.

85 Secondo la definizione dello stesso Cicerone, si tratta di un dialogo di stile aristotelico, caratterizzato, cioè, da lunghi discorsi da parte dei singoli oratori e non da frequenti scambi di battute, cf. CIC. Att. XIII.19.4 e fam. I.9.23.

86 Cf. LACT. inst. I.2,5,12,15,17; II.8; IV.28. 87 Cf. CIC. nat. deor. II.23.61.

88 Cf. CIC. nat. deor. III.24.61. 89 Cf. CIC. nat. deor. III.40.95.

tanto grande da dover essere considerate opere divine e che, non a torto, si è arrivati a riconoscerle come divinità.

Alla base, dunque, della divinizzazione di questi concetti vi sarebbe un trasferimento dell’attributo della divinità dal dio creatore alla cosa creata, funzionale al riconoscimento della matrice divina delle res.

Gaio Aurelio Cotta, dal canto suo, nel secondo dei passi indicati, per confutare il discorso dell’interlocutore, obietta che cose di questo genere non hanno “uis

deorum” ma “uis rerum”, poiché o sono nell’uomo (come la mente, la virtù etc..)

o sono condizioni materiali cui l’uomo aspira (come la salvezza, la vittoria, etc..), e, pertanto, non possono essere considerate divinità.

Se è vero che nelle parole di Cotta si riscontra lo scetticismo persuasivo tipico dei seguaci dell’Accademia, è significativo che, alla fine del dialogo, Cicerone si dichiari dalla parte di Balbo90: di fronte alla elezione del discorso di Balbo ad

opera dell’Arpinate, persino l’eloquente e lucida critica che Cotta rivolge alle divinità astratte risulta ampiamente ridimensionata, sebbene sia evidente che il De

natura deorum già registra che il tema di questi culti poteva dare adito a

polemiche.

In aggiunta alla testimonianza ciceroniana anche Plinio il Vecchio91 mostra che le divinità astratte cominciarono ad essere un obiettivo polemico ben prima dell’avvento della letteratura apologetica.

L’autore della Naturalis historia condanna questa forma di deificazione nell’ambito di una polemica di più ampio respiro rivolta contro il frazionamento del concetto di dio in quel gran numero di entità che sono gli dei.

Plinio, “attratto […] dall’antropocentrismo stoico […] di cui tutto l’ultimo secolo della cultura latina aveva fatto un credo filosofico per le classi alte”92, ritiene che la Natura operi sempre in funzione dell’uomo – a suo giudizio, l’unica vera divinità.

90 E questo, per altro, senza che ci sia – al di là delle apparenze – effettiva contraddizione fra la dichiarata adesione di Cicerone all’atteggiamento agnostico degli accademici e la sua manifesta preferenza per il punto di vista stoico in materia di religione (cf. LASSANDRO E MICUNCO (2007), Opere politiche e filosofiche di M. Tullio Cicerone, III,

14).

91 Cf. PLIN. nat. II.14.

Egli, dunque, rifiutandosi di credere negli dèi, pensa che sia stato dato il nome di dio a ciò di cui si sentiva il bisogno e che anche le divinità astratte siano state create al fine di sopperire alle diverse mancanze che di volta in volta si manifestavano.

La sua polemica, in conclusione, è diretta contro ogni forma di divinizzazione e tocca anche i culti delle divinità astratte in quanto esse rappresentano chiari

exempla del sovrannumero degli dei.

Negli apologisti, d’altra parte, la critica alla deificazione dei nomina diviene un elemento tanto ricorrente da poter essere definito formulare93. Per i limiti che il nostro lavoro impone, eviteremo di soffermarci sulla fortuna del tema negli autori cristiani e analizzeremo le parole che Lattanzio riserva alle divinità astratte, affrontando, in parallelo, la questione delle fonti che egli deve avere adoperato per la stesura del seguente passo:

Ab hoc illud Marci Marcelli de consecratione Honoris atque Virtutis honestate nominum differt, re congruit. Eadem uanitate Mentem quoque inter deos senatus collocauit, quam profecto si habuisset, eiusmodi sacra nunquam suscepisset. Magnum Cicero audaxque consilium suscepisse Graeciam dicit, quod Cupidinum et Amorum simulacra in gymnasiis consecrasset. Adulatus est uidelicet Attico <aut> irrisit hominem familiarem. Non enim magnum illud aut omnino consilium dicendum fuit, sed impudicorum hominum perdita et deplorata nequitia, qui liberos suos, quos erudire ad honestatem deberent, prostituerunt libidini iuuentutis: a quibus flagitiorum deos et in illis potissimum locis ubi nuda corpora corruptorum luminibus patent, et in illa coli aetate uoluerunt quae simplex et improuida prius irretiri et in laqueos potest cadere quam cauere. Quid mirum si ab hac gente uniuersa flagitia manarunt, apud quam uitia ipsa religiosa sunt eaque non modo non uitantur, uerum etiam coluntur? Et ideo huic

sententiae, tamquam Graecos prudentia uinceret, adiecit: “Virtutes enim oportere, non uitia consecrari”94. Quod si recipis, o Marce Tulli, non uides fore ut irrumpant uitia cum uirtutibus, quia mala bonis adhaerent et in animis hominum potentiora sunt? Quae si uetas consecrari, respondebit tibi illa eadem Graecia se alios deos colere ut prosint, alios uero ne noceant. Haec enim semper excusatio est eorum qui mala sua pro diis habent, ut Romani Robiginem ac Febrem. Si ergo uitia consecranda non sunt, in quo tibi adsentior, ne uirtutes quidem. Non enim per se sapiunt aut sentiunt, neque intra parietes aut aediculas luto factas, sed intra pectus collocandae sunt et interius comprehendendae, ne sint falsae, si extra hominem fuerint collocatae. Itaque praeclaram illam legem tuam derideo quam ponis his uerbis: “Ast illa, propter quae datur homini ascensus in caelum, mentem, uirtutem, pietatem, fidem; earumque laudum delubra sunto”95. Atquin haec separari ab homine non possunt. Si enim colenda sunt, in homine ipso sint necesse est. Si autem sunt extra hominem, quid opus est ea colere quibus careas? Virtus enim colenda est, non imago uirtutis, et colenda est non sacrificio aliquo aut ture aut precatione sollemni, sed uoluntate sola atque proposito. Nam quid est aliud colere uirtutem nisi eam comprehendere animo ac tenere? Quod unusquisque, simul ac coepit uelle, consequitur. Hic solus uirtutis est cultus: nam religio ac ueneratio nulla alia nisi unius Dei tenenda est. Quid igitur opus est, o uir sapientissime, superuacuis extructionibus loca occupare quae possint humanis usibus cedere? Quid sacerdotes constituere uana et insensibilia culturos? Quid immolare uictimas? Quid tantos sumptus uel fingendis uel colendis imaginibus impendere? Firmius et incorruptius templum est pectus humanum: hoc potius ornetur, hoc ueris illis numinibus impleatur. Has ergo falsas consecrationes sequitur quod necesse est: qui enim sic uirtutes colunt, id est qui umbras atque imagines

94 Cf. CIC. leg. II.23.58. 95 Cf. CIC. leg. II.8.19.

uirtutum consectantur, ea ipsa quae uera sunt tenere non possunt. Itaque nulla in quoquam uirtus est, uitiis ubique dominantibus, nulla fides, omnia pro se quoque rapiente, nulla pietas, nec consanguineis nec parentibus parcente auaritia et cupiditate in uenena et in ferrum ruente, nulla pax, nulla concordia, publice bellis saeuientibus, priuatim uero inimicitiis usque ad sanguinem furentibus, nulla pudicitia, libidinibus effrenatis omnem sexum et omnes corporis partes contaminantibus. Nec tamen desinunt ea colere quae fugiunt et oderunt. Colunt enim ture ac summis digitis quae sensibus intimis horrere debuerunt: qui error omnis ex illius principalis ac summi boni ignoratione descendit96.

All’inizio del testo citato, Lattanzio, traendo spunto dalla menzione immediatamente precedente del culto di Pallor e Pauor (per cui cf. supra), presenta tre exempla di divinità astratte: Honos, Virtus e Mens. La brevità di questo elenco è compensata, nella parte conclusiva del passo, dalla elencazione di altri concetti, cioè a dire uirtus, fides, pietas, pax, concordia e pudicitia, che in ambito romano erano stati divinizzati.

Questa corrispondenza pressoché anulare fra l’incipit e l’explicit della sezione risponde con ogni probabiltà alla esigenza di chiarezza espositiva che Lattanzio s’impone: il passo riservato alle divinità astratte è fra i più filosofici dell’opera e l’apologista lo inserisce fra un esordio e una conclusione che ribadiscono quale sia il punto, per non far perdere di vista al lettore il tema del paragrafo.

Dopo l’incipit, l’apologista esamina la posizione di Cicerone su questo argomento secondo uno schema, già riscontrato in Lattanzio, in base al quale la critica di uno specifico culto pagano giunge a compimento attraverso la confutazione di un autorevole rappresentante del mondo antico97.

96 LACT. inst. I.20.12–26.

97 Cf. e.g. il modo in cui Lattanzio “dimostra” che il ritratto ovidiano di Flora non è attendibile.

Si può notare, inoltre, che in questo caso Lattanzio sembra accogliere l’invito di Arnobio (III.7) a confutare gli antichi e, in particolare, proprio Cicerone: “Quinimmo, si fiditis exploratum uos dicere quicquam de diis uestris, erroris conuincite Ciceronem, temeraria

Lattanzio, in particolare, conferisce alla argomentazione una struttura pseudodrammatica fingendo di avere come interlocutore lo stesso Cicerone (cf. “o

Marce Tulli”; “illam legem tuam”; “o uir sapientissime”) per suggerire tra le righe

che l’Arpinate, nonostante la sua grande eloquenza, non è in grado di controbattere alle sue obiezioni.

Avvalendosi, in un primo momento, della forza dell’ironia, Lattanzio costruisce un discorso molto efficace sul piano retorico, ma inesatto su quello del contenuto. Egli osserva, infatti, che si deve evitare di consacrare le uirtutes, perché qualcuno non legittimi il culto dei uitia dicendo “se alios deos colere ut prosint, alios uero

ne noceant”, al pari dei Romani che, forti di questa obiezione, istituirono i culti di

Robigo e Febris98.

Queste ultime divinità, tuttavia, non sono propriamente dei nomina divinizzati, perché hanno referenti concreti. La loro menzione, dunque, non è pertinente nell’ambito di un discorso sulle divinità astratte, per quanto sia sul piano retorico un’efficace stoccata ai danni della religione romana.

Successivamente, l’apologista passa a toni più seri e a contenuti di natura filosofica per i quali, come fa notare LAUSBERG (1970), egli dipende da Seneca e da Cipriano.

In particolare, l’invito di Lattanzio a decorare il tempio del cuore sembra presupporre il penultimo paragrafo dell’Ad Donatum, dove l’autore cartaginese scriveva: “iam tibi auro distincta laquearia et pretiosi marmoris crustis uestita

domicilia sordebunt, cum scieris te excolendum magis, te potius ornandum, domum tibi hanc esse potiorem, quam Dominus insedit templi uice, in qua Spiritus sanctus coepit habitare[…]”99.

Da Seneca, invece, l’apologista sembra dipendere per quel che concerne l’idea che la uoluntas e il propositum (coppia pressoché sinonimica in Lattanzio come in Seneca) siano centrali nei comportamenti umani. La frase lattanziana “quod unus et impia dictitare refellitote, redarguite, conprobate. Nam intercipere scripta et publicatam uelle submergere lectionem non est deos defendere sed ueritatis testificationem timere”.

98 Per Robigo cf. OV. fast. IV.905ss. e per Febris cf. CIC. leg. II.11.28 e nat. deor. III.25.63 e SEN. apocol. 6.1.

quisque simulac coepit uelle consequitur” ricorda tutta una serie di affermazioni

senecane sulla volontà fra le quali rammentiamo “pars magna bonitatis est uelle

fieri bonum” (epist. 34.3), “sed magna pars est profectus uelle proficere” (epist.

71.36) e “quid tibi opus est ut sis bonus? uelle” (epist. 80.4).

Confrontando, infine, le parole di Lattanzio sulle divinità astratte con quelle di Arnobio sul medesimo tema100, si può concludere che in questo caso l’opera dell’allievo non presuppone direttamente quella del maestro, considerato che la contestazione di tali divinità da parte di quest’ultimo sembra avvenire sul modello degli argomenti addotti da Gaio Aurelio Cotta nel De natura deorum e da Plinio il Vecchio (per i quali cf. supra).

È sicuro, comunque, che Lattanzio non poteva ignorare ciò che la tradizione apologetica riportava su questo tema, visto che esso era particolarmente caro agli scrittori cristiani.

100 Cf. ARNOB. nat. IV.1–2.

IV

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