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La religione dei Romani nelle Diuinae Institutiones di Lattanzio: le fonti e l'autore nei capitoli XX e XXI del libro I.

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UNIVERSITÀDIPISA

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica Corso di Laurea in Filologia e Storia dell’Antichità

Tesi di Laurea Magistrale

La religione dei Romani nelle Diuinae institutiones di Lattanzio:

le fonti e l’autore nei capitoli 20 e 21 del I libro

CANDIDATO RELATORE

Filippo Andrea Grandi Prof. Chiara O. Tommasi Moreschini

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INDICE DEI CONTENUTI

Introduzione 1

I Larentina, Faula e Flora 4

II Cloacina, Pauor e Pallor 23

III Le divinità astratte 30

IV Venus Calua e Iuppiter Pistor 37

V Fornax 42 VI Muta 44 VII Caca 48 VIII Cunina 54 IX Tutinus 56 X Terminus 59 XI Gli Argei 63

XII Magna Mater e Bellona 71

XIII I mortali divinizzati 80

XIV Vesta e l’asino 87

XV I Salii 89

Conclusioni 93

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INTRODUZIONE

Con questo lavoro ci proponiamo di studiare la ricostruzione della religione dei Romani nelle Diuinae institutiones1 di Lucio Ce(ci)lio Firmiano Lattanzio, scrittore cristiano del primo IV secolo fra i principali esponenti della tradizione apologetica2.

1Le Diuinae institutiones costituiscono l’opera principale dell’autore e hanno carattere apologetico–protrettico. La datazione delle Institutiones è un problema complesso che ha interessato più studiosi di filologia patristica.

La ricognizione dei testimoni del testo lattanziano ha mostrato che l’opera ha conosciuto due distinte edizioni: una contenente meno elementi dualistici e priva di dediche a Costantino, un’altra caratterizzata da due loci evidentemente dualistici (cf. II.8.7 e ss. e VII.5.27 e ss.) e da numerose dediche all’imperatore (per le dediche di maggiore estensione cf. I.1.13–16 e VII.27.11–17; per le altre, invece, cf. II.1.2, III.1.1, IV.1.1, V.1.1 e VI.3.1).

Per quanto riguarda la datazione relativa delle due edizioni, gli studiosi sono concordi nel ritenere che la prima versione sia quella a contenuto meno dualistico e priva delle dediche a Costantino.

La questione della cronologia assoluta, invece, è stata risolta solo in tempi piuttosto recenti da DEPALMA DIGESER (1994, 1997 e 1999).

HECK (1972), basandosi sulla ricognizione dei testimoni fatta da BRANDT (1890), aveva sostenuto che la prima edizione fu pubblicata prima del 311 e che la seconda, cominciata nel 324, non fu mai completata a causa della morte di Lattanzio.

OGILVIE (1978), pur segnalando che STEVENSON (1957) datava le dediche all’imperatore agli anni 311–313, ricorda che PIGANIOL (1932) propende per una datazione delle stesse prossima al 324 e accoglie l’opinione di Heck: “Heck […] has given convincing grounds for dating the additions and changes to 324”.

BARNES (1981) segue Ogilvie: “Heck […] has demonstrated that the invocations of Constantine (Div. Inst. 1.1.3 ff., 7.26.11 ff.) belong to a revision of the text by Lactantius begun in 324”.

Come già anticipato, tuttavia, Elizabeth DePalma Digeser, nel corso degli anni Novanta, è riuscita a dimostrare che, se la prima versione delle Istitutiones viene completata tra il 305 e il 310, quando Lattanzio forse si trovava in Africa – cf. BARNES (1981, 291) –, la

seconda non risale al 324, ma ad un periodo compreso fra il 310 (anno al quale va datata la prima dedica “estesa”) e il 313 (anno al quale deve risalire la seconda dedica “estesa”). 2 Lattanzio nacque in Africa nel 250 ca. e morì probabilmente nel 325. Ebbe fra i suoi maestri Arnobio e fra il 290 e il 300, a Nicomedia, ricevette da Diocleziano l’incarico di insegnare retorica latina. A corte conobbe Costantino. Al tempo delle persecuzioni da

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È nostra intenzione, in particolare, mettere in luce il rapporto dell’apologista con le fonti relative al paganesimo romano per chiarire fino a che punto egli segua le tradizioni pagana e apologetica e in quale misura si riveli mistificatore delle notizie tràdite dagli antichi e scrittore originale nel panorama cristiano.

Se, infatti, è ovvio che un apologeta tende a rappresentare la religione dei Romani con tinte polemiche puntando sugli aspetti di essa che possono apparire immorali (cf. capp. I, VIII, IX, X, XI, XII, XIV), ridicoli (cf. capp. II, IV, V, VI, VII, X, XV) o teologicamente infondati (cf. capp. III, XIII), non è scontato cercare di ricostruire il rapporto di un autore con la tradizione, soprattutto quando questa appare ancipite.

L’interesse suscitato dal tema e l’assenza di contributi scientifici sull’argomento, fatta eccezione per alcuni lavori che hanno toccato la questione solo incidentalmente3, ci hanno spinti ad intraprendere questa ricerca.

Essa consentirà, per altro, di riconoscere l’importanza di Lattanzio come fonte sul mondo romano dato che le notizie trasmesse dall’apologista, se considerate con la dovuta cautela, possono contribuire a problematizzare la nostra conoscenza dell’antico (cf. capp. I, IV, VII, VIII, XII e XIII).

Guardando al testo lattanziano, ci occuperemo dei capitoli 20 e 21 del I libro delle

Institutiones facendo riferimento ad altri luoghi dell’opera solo in funzione del

discorso relativo alla sezione indicata4.

parte di Diocleziano, abbandonò l’insegnamento per dedicarsi da scrittore alla nuova religione. Nel 314/315 Costantino lo portò a Treviri come insegnante del figlio Crispo. Non ci sono pervenuti i suoi scritti del periodo pagano e tutte le opere rimaste hanno orientamento cristiano. Elenchiamo di seguito le opere minori dell’apologista: il De opificio Dei (303/304), trattato sull’uomo come opera perfetta di Dio; l’Epitome diuinarum institutionum (scritta dopo il 314); il De ira Dei (313/314), apologia della rappresentazione biblica di Dio; il De mortibus persecutorum (313/316), nel quale si mostra che tutti gli imperatori che perseguitarono i cristiani furono puniti da Dio; e, infine, il De aue Phoenice (303/311), poema in distici, sul tema della resurrezione e della vita eterna dopo la morte.

3 Cf. e.g. REIFFERSCHEID (1860), LAUSBERG (1970), OGILVIE (1978), NICHOLSON (1984), MONAT (1986), BORGEAUD (1996), WIFSTRAND SCHIEBE (1999), FAYER (2005), RAITH (2006), TOMMASI–MORESCHINI (2017).

4 A titolo d’esempio, un locus come inst. V.3, dove l’apologista nomina il dio Marte, non sarà preso in considerazione poiché esso non ha a che vedere con i suddetti capitoli;

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In questi capitoli, infatti, Lattanzio tratta della religione romana in maniera sistematica ed esaustiva (cf. in proposito LACT. inst. I.20.1: “Venio nunc ad

proprias Romanorum religiones, quoniam de communibus dixi”), mentre i

riferimenti al tema presenti nel resto dell’opera, seppur numerosi, tendono ad avere carattere cursorio e non consentono di svolgere considerazioni che non siano già suggerite dalla sezione che esamineremo.

Per dire, infine, della struttura del presente lavoro, esso si articola in quindici capitoli e ciascuno di essi è dedicato ad una figura o ad un rito della religione dei Romani che Lattanzio ha discusso; per una giustificazione dell’accostamento di più figure nei capitoli I, II, XII e XIII si rimanda ai capitoli stessi.

L’ordine di trattazione dei singoli argomenti rispetterà quello seguito dall’apologista, del quale sarà sempre riportato il testo in lingua originale, imprescindibile punto di partenza di ogni esercizio critico.

saranno, invece, considerati i passi I.17.7 e V.10.15 nella misura in cui essi permettono di comprendere meglio due loci della sezione indicata (cf. capp. X e XII di questo lavoro).

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I

LARENTINA, FAVLA E FLORA

Al principio della sezione espressamente dedicata alle pratiche cultuali di Roma pagana5, Lattanzio prende in esame i culti di Larentina, Faula e Flora, che, a suo dire, sarebbero state tre meretrici divinizzate6. Comunque stiano le cose, prima di entrare nel merito delle questioni sollevate dalle tre figure, è opportuno svolgere un paio di considerazioni preliminari.

Si noti, anzitutto, che la discussione di queste tre divinità in posizione incipitaria non è fortuita, ma risponde all’esigenza – tutta apologetica – di condannare fin dall’inizio il paganesimo romano in quanto religione immorale.

Lattanzio, in effetti, doveva avere ben presente che la divinizzazione di una serie di meretrici avrebbe, di per sé, messo in luce l’immoralità delle “Romanorum

religiones”, se a proposito di Flora arriva a sostenere che i Romani stessi

avrebbero tentato di adombrare il passato della dea, coscienti com’erano di avere accolto una prostituta nel novero delle loro divinità7.

Si pone, d’altro canto, il problema di una fonte non dichiarata, di cui l’apologista avrebbe potuto servirsi per la stesura del testo che esamineremo nel primo capitolo di questo lavoro.

Al riguardo, non possiamo escludere che Lattanzio abbia tratto ispirazione dall’Octauius di Minucio Felice, dove si legge quanto segue: “Sane et Acca

Larentia et Flora, meretrices propudiosae, inter morbos Romanorum et deos computandae”8.

Il passo citato mostra che la divinizzazione delle due meretrici Acca Larentia e Flora, prima di essere stigmatizzata da Lattanzio, era stata obiettivo polemico di

5 Cf. LACT. inst. I.20.1: “Venio nunc ad proprias Romanorum religiones, quoniam de communibus dixi”.

6 Cf. LACT. inst. I.20.5 e 6: “Nec hanc (sc. Larentinam) solam Romani meretricem colunt, sed Faulam quoque […] Flora cum magnas opes ex arte meretricia quaesiuisset […]”. 7 Cf. LACT. inst. I.20.7: “Quod quia senatui flagitiosum uidebatur, ab ipso nomine argumentum sumi placuit, ut pudendae rei quaedam dignitas adderetur”.

8 Cf. MIN.FEL. 25. I nomi ‘Acca Larentia’ e ‘Larentina’ denotano il medesimo referente, cf. infra.

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uno scrittore cristiano ben noto all’apologista e da questi più volte adoperato come fonte9.

È del tutto plausibile, quindi, che il locus di Minucio abbia ispirato l’esordio lattanziano per quanto riguarda il riferimento a Larentina e Flora, anche se l’autore delle Institutiones deve essersi senz’altro servito di altre fonti per svolgere le considerazioni che analizzeremo, ben più ampie di quelle del passo minuciano.

Si tenga presente, del resto, che anche il riferimento dell’apologista alla enigmatica Faula – non menzionata da Minucio – porta a concludere che Lattanzio abbia tratto spunto da testi diversi dall’Octauius.

MONAT (1986), in nota al testo lattanziano da lui edito, scrive che “Sur la source de ce début de chapitre, la critique est partagée, et hésite entre Suétone et Varron” e rimanda a REIFFERSCHEID (1860,467), per quanto concerne la possibilità che la fonte sia il De claris meretricibus di Svetonio, a noi non pervenuto, e a SCHWARZ (1888,454), per quanto riguarda l’ipotesi varroniana.

Quest’ultima ipotesi, però, era già stata confutata da Reifferscheid con un argomento piuttosto definitivo: il riferimento dell’apologista a Livio e la sua citazione di Verrio Flacco10 suggerivano allo studioso che Lattanzio dovesse dipendere da una fonte di necessità successiva ai due scrittori, perché, qualora fosse stata più antica, essa non avrebbe potuto rimandare allo storico patavino e al grammatico di Preneste. Varrone, pertanto, più antico di Livio e di Verrio, non avrebbe potuto fare riferimento ai due scrittori e, per questo, non avrebbe potuto essere la fonte adoperata dall’apologista.

Lattanzio, a dire il vero, avrebbe potuto fare riferimento a Livio, senza la mediazione di un altro autore, considerato che il primo degli Ab Vrbe condita libri sembra essere presupposto almeno altre due volte nelle pagine dell’apologista11 e che le corrispondenze lessicali fra il testo liviano e quello di Lattanzio (per le

9 Cf. LACT. inst. I.11: “Minucius Felix in eo libro, qui Octauius inscribitur, sic argumentatus est […]”. E a dimostrazione di una dipendenza costante di Lattanzio dall’autore dell’Octauius, cf. infra capp. II, XII, XIII e XV.

10 Cf. LACT. inst. I.20.2 e 5.

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quali cf. infra la sezione dedicata a Larentina) fanno pensare che l’apologista proponga una parafrasi del passo di Livio.

Sarebbe, d’altra parte, un’ipotesi forte sostenere che Lattanzio leggeva Verrio, dal momento che il grammatico, ad eccezione dell’unico passo delle Institutiones in cui è citato, non è mai menzionato dall’apologista.

È, quindi, del tutto ragionevole considerare la possibilità che Lattanzio abbia ripreso le parole di Verrio da un’altra fonte, la quale, ovviamente, non può essere anteriore al grammatico: ciò, come voleva Reifferscheid, esclude Varrone e apre alla possibilità che la fonte di Lattazio sia la già menzionata opera svetoniana. A tal proposito, vi sono due aspetti che potrebbero suggerire l’identificazione della fonte dell’apologista col De claris meretricibus.

Si noti, anzitutto, che Svetonio nel De grammaticis et rhetoribus12 mostra di essere ben informato sul conto di Verrio Flacco e di attribuirgli un certo valore: quanto basta per rendere plausibile l’ipotesi secondo la quale Svetonio avrebbe potuto citare Verrio nel De claris meretricibus e Lattanzio, a sua volta, avrebbe potuto riprendere dall’opera svetoniana la citazione del grammatico.

In secondo luogo, il riferimento a Leaena13, la cortigiana greca amica dei tirannicidi Armodio e Aristogitone, rende plausibile che l’apologista avesse di fronte un’opera che raccontava di celebri cortigiane – non necessariamente romane – proprio come il De claris meretricibus di Svetonio.

Se aggiungiamo, dunque, quanto detto su Verrio Flacco a quest’ultima considerazione, è senz’altro legittimo sostenere che l’esordio della sezione espressamente dedicata ai culti dei Romani dipenda dal perduto scritto svetoniano. Poiché, quindi, le affermazioni di Lattanzio relative alle tre meretrici divinizzate potrebbero derivare da questa fonte non dichiarata, sarà opportuno tenere sempre

12 Cf. SVET. gramm. 17–19.

13 Cf. LACT. inst. I.20.3: “Exemplum scilicet Atheniensium in ea figuranda Romani secuti sunt, apud quos meretrix quaedam nomine Leaena cum tyrannum occidisset, quia nefas erat simulacrum constitui meretricis in templo, animalis effigiem posuerunt cuius nomen gerebat”. Anche Plinio il Vecchio si sofferma sulla figura di Leaena in nat. VII.87: “clarissimum (sc. documentum) in feminis Leaenae meretricis, quae torta non indicavit Harmodium et Aristogitonem tyrannicidas”. Le parole di Plinio, tuttavia, non sembrano essere presupposte dal passo di Lattanzio, che quindi deve essersi basato su una fonte diversa.

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in considerazione la possibile dipendenza dell’apologista da Svetonio (cf. infra il caso di Flora).

LARENTINA E FAVLA

14 Sul conto di Larentina Lattanzio scrive quanto segue:

Venio nunc ad proprias Romanorum religiones, quoniam de communibus dixi. Romuli nutrix, Lupa, honoribus est adfecta diuinis, et ferrem, si animal ipsum cuius figuram gerit. Sed auctor est Liuius Larentinae esse simulacrum et quidem non corporis, sed mentis ac morum. Fuit enim Faustuli uxor et propter uulgati corporis uilitatem lupa inter pastores, id est meretrix, nuncupata est – unde etiam lupanar dicitur –. Exemplum scilicet Atheniensium in ea figuranda Romani secuti sunt, apud quos meretrix quaedam nomine Leaena, cum tyrannum occidisset, quia nefas erat simulacrum constitui meretricis in templo, animalis effigiem posuerunt, cuius nomen gerebat. Itaque ut illi monumentum ex nomine, sic isti ex professione fecerunt. Huius nomini etiam dies festus dicatus est et Larentinalia constituta15.

L’apologista, dopo aver espresso la volontà di trattare dei culti dei Romani, introduce il passo dedicato a Larentina soffermandosi sulla divinizzazione della lupa “Romuli nutrix”, che andrebbe identificata con Larentina stessa.

Eccettuata, però, la testimonianza lattanziana, non c’è traccia, fra le fonti a noi pervenute, di una reale deificazione della lupa che salvò, secondo la tradizione, i gemelli esposti in riva al Tevere.

14 Tutti i capitoli che seguono presuppongono le notizie riportate su ciascun culto dalla Paulys Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft (1893–1980) a cura di Wissowa et all..

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È possibile, quindi, che la frase “Romuli nutrix, Lupa, honoribus est adfecta

diuinis” presupponga un passo di Arnobio, nel quale quest’ultimo aveva riportato

l’argomento di un suo interlocutore pagano, relativo alla istituzione del culto della dea Luperca: “Quod abiectis infantibus pepercit lupa non mitis, Luperca – inquit

– dea est auctore appellata Varrone”16.

Con queste parole il maestro di Lattanzio mostra di essere a conoscenza di un culto strettamente legato alla lupa della leggenda, con l’ovvia conseguenza che la notizia sarebbe potuta passare da lui al suo allievo17.

16 ARNOB. nat. IV.3.1. Su questo passo cf. TOMMASI–MORESCHINI (2017, 348).

17 Il problema della datazione dell’opera di Arnobio ha dato adito a una vera e proria querelle, nella quale Mark J. Edwards ha negato per diversi anni che le Diuinae institutiones potessero dipendere dall’opera di Arnobio in quanto anteriori all’Aduersus nationes.

LIEBESCHUETZ (1979) riteneva che non ci fossero ragioni per escludere che l’Aduersus nationes fosse anteriore all’opera di Lattanzio e concludeva, in particolare, che esso doveva risalire agli anni delle persecuzioni di Diocleziano.

Questa posizione è stata sostenuta anche da SIMMONS (1995) con argomenti molto validi

per i quali cf. cap. II, The Date of the Adversus Nationes.

Ciononostante, EDWARDS (1999, 2004, 2007), ha sostenuto e ribadito che Lattanzio non

può dipendere in nessun caso dall’opera del suo maestro, concentrandosi principalmente su due aspetti:

• in inst. V.1 l’apologista “enumerates as previous Latin champions of the faith Minucius Felix, Tertullian, and Cyprian, with no word of his master, whose eccentric contribution he might have criticized, but would have no plausible reason to ignore” (cit. da Edwards, 1999).

• nel Chronicon di Girolamo l’opera di Arnobio è datata al 327.

Alla prima osservazione si può rispondere che Arnobio non figura nell’elenco perché Lattanzio lo considerava un suo contemporaneo e non uno scrittore del passato, con la conseguenza che egli avrebbe anche potuto non menzionare l’opera del maestro, sebbene questa fosse stata già pubblicata.

Alla seconda, invece, si è risposto in più modi: “a vast majority of scholars conclude that a scibal error is the best explanation for the date given by Jerome for Arnobius in the Chronicon s.a. a.d. 327, and thus the correct date is sub Diocletiano principe, which is found in Jerome’s De viris illustribus 79 (Arnobius) and 80 (Lactantius)” (cf. SIMMONS

2015, 56); “instead of the Vicennalia of Diocletian in 303, Jerome (or better, his secretary) wrote the date for the Vicennalia of Constantine in 327” (cf. SIMMONS 2015,

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Arnobio, tuttavia, non identifica la lupa del mito con Larentina e Lattanzio, per legittimare tale identificazione, chiama in causa Tito Livio scrivendo che lo storico ne è garante.

A dire il vero, però, Livio non garantisce che la lupa fosse la rappresentazione metaforica di Larentina, ma si limita a dare notizia, con la massima cautela, dell’esistenza di una versione razionalistica del mito secondo cui i bambini esposti non sarebbero stati accuditi da una lupa vera e propria, ma da una donna di nome Larentia, detta ‘lupa’ per i suoi costumi: “sunt qui Larentiam uulgato corpore

lupam inter pastores uocatam putent; inde locum fabulae ac miraculo datum”18.

In conclusione, lo scarto fra ciò che si legge in Livio e quel che in proposito scrive Lattanzio, fa pensare a due possibilità: Lattanzio non legge direttamente Livio, ma ricava da un’altra fonte non dichiarata (il De claris meretricibus svetoniano) una sintesi imperfetta di ciò che ha scritto lo storico, oppure l’apologista legge Livio e manipola le parole dello storico per attribuire la responsabilità della condanna del paganesimo romano ai pagani stessi.

Fra le due ipotesi, la seconda ci appare più verisimile per le ragioni che seguono: • Si può pensare che Lattanzio legga direttamente Livio, perché le parole

usate dall’apologista richiamano molto da vicino quelle dello storico: “uulgato corpore […] inter pastores”19 e “uulgati corporis […] inter

pastores”20.

Dopo SIMMONS (2015), EDWARDS (2016) ha ampiamente rivisto la propria ipotesi: pur continuando a sostenere la validità della data registrata nel Chronicon, lo studioso afferma che “the conflict of evidence can be resolved by postulating a history of redaction”.

In conclusione, il ripensamento di EDWARDS (2016) e le osservazioni di SIMMONS (1995 e 2015) ci portano a considerare l’opera di Arnobio anteriore alle Diuinae institutiones e ad annoverarla fra le fonti di Lattanzio nei casi da noi discussi nei capp. I, III (cf. n.97), IX e XIII di questo lavoro.

18 LIV. I.7. Il grassetto è nostro, come anche in altre citazioni che seguono. 19 LIV. I.4.7.

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• Visto che il passo di Livio appartiene al I libro della sua opera e questo stesso libro appare più volte presupposto da Lattanzio21, è possibile che l’autore delle Institutiones abbia letto, anche in questo caso, direttamente il testo liviano.

Non si può ignorare, del resto, che l’identificazione della lupa con Larentina ha dei precedenti nell’opera di Tertulliano, dove si legge quanto segue:

• “Ad foediora festino. Non puduit auctores uestros de Larentina, palam

facere. Scortum haec meritorium fuit, siue dum Romuli nutrix et ideo lupa quia scortum, siue dum Herculis amica est, et iam mortui Herculis, id est iam dei”22.

• “Nec tantum tamen honoris fatis Romani dicauerunt dedentibus sibi

Carthaginem aduersus destinatum uotumque Iunonis, quantum

prostitutissimae lupae La[u]rentinae”23.

È plausibile, dunque, che Lattanzio, rifacendosi consapevolmente al primo passo tertullianeo (TERT. nat. II.10.1), abbia ripreso proprio dal suo predecessore l’espressione “Romuli nutrix”: in effetti, nelle pagine dei due apologisti ricorre il medesimo sintagma24 e Lattanzio, nel V libro delle Institutiones, fa capire chiaramente di avere un’ottima conoscenza dell’opera di Tertulliano25.

Potremmo, del resto, individuare un ulteriore elemento di continuità fra il testo lattanziano e quello tertullianeo nella scelta della variante ‘Larentina’ al posto della forma ‘(Acca) Larentia’, preferita, come già si è visto, da Livio e Minucio Felice.

21 Cf. supra n.11.

22 TERT. nat. II.10.1. Sulla doppia tradizione che rappresenta Larentina come nutrice di Romolo o come amante di Ercole torneremo più avanti.

23 TERT. apol. 25.9.

24 Eccettuati Tertulliano e Lattanzio, questo sintagma ricorre soltanto nella citazione di Sabino Masurio in Gellio (cf. GELL. VII.7).

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La variante ‘Larentina’ è tràdita, in ambito pagano, soltanto da Varrone nel De

lingua Latina26 e dai Fasti Praenestini, redatti, stando a Svetonio27, da Marco

26 A dire il vero, il passo di Varrone (VARRO ling. VI.23), che per ragioni di chiarezza riportiamo di seguito, non è considerato, di norma, come una testimonianza della variante ‘Larentina’: “Larentinae, quem diem quidam in scribendo Larentalia appellant, ab Acca Larentia nominatus”.

MÜLLER (1833) emendò la lezione tràdita dai manoscritti ‘larentinae’ con il termine

‘Larentinal’, da lui inteso “sicut Bacchanal”. La proposta non ebbe successo per la forzata introduzione di un nome altrimenti non attestato, che per altro non si accordava nel genere col predicato “nominatus (sc. est)”.

Dopo l’edizione di Müller i successivi editori dell’opera varroniana – cf. KENT (1958),

RIGANTI (1978) e FLOBERT (1985) –, pur mettendo tutti a testo la lezione dei codici

‘larentinae’, tendono a interpretarla come il nominativo femminile plurale dell’aggettivo ‘larentinus –a –um [di Larentia]’, da riferire al sostantivo sottinteso ‘feriae’. Anche nell’Oxford Latin Dictionary (Cf. OLD, 1968, p.1002, col.3) la voce ‘larentinae’ del passo di Varrone viene spiegata come “larentinae (sc. feriae)”.

Abbiamo motivo di credere, tuttavia, che questa interpretazione del passo varroniano, per quanto ormai corrente, sia, in definitiva, errata. Prendere per soggetto ‘larentinae (sc. feriae)’ significa, infatti, accettare la totale assenza di accordo (se si eccettua l’identità di caso) fra il presunto soggetto e il relativo predicato ‘nominatus (sc. est)’.

In maniera più lineare, piuttosto, si dovrebbe pensare ad un fenomeno di attrazione dell’antecedente ‘dies’ nel caso del pronome relativo ‘quem’ (‘dies’ > ‘diem’), che ha oscurato il soggetto della frase (‘dies’), pienamente accordato, in principio, col predicato ‘nominatus (sc. est)’.

Secondo questa analisi del testo, ‘Larentinae’ deve essere interpretato come genitivo singolare dipendente da ‘dies’ e ricondotto al nome proprio ‘Larentina’.

Bisogna notare, del resto, che è lo stesso Varrone a garantire la bontà della interpretazione di ‘dies (> diem)’ come soggetto di ‘nominatus (sc. est)’: egli, infatti, ripropone, poco righe più avanti, la medesima struttura della frase appena analizzata (‘dies’ + genitivo + ‘nominatus sc. est’), scrivendo così: “dies Septimontium nominatus ab his septem montibus, in quis sita urbs est” (VARRO ling. VI.25).

La compresenza, per altro, nel passo varroniano delle due varianti ‘Larentina’ e ‘Acca Larentia’ permette di formulare una qualche ipotesi sul rapporto fra i due nomi: poiché Varrone chiosa de facto ‘Larentina’ con ‘Acca Larentia’, si può pensare o che ‘Larentina’ denotasse Acca Larentia divinizzata, o che – ed è forse la cosa più probabile – la variante ‘Larentina’ fosse sentita come più arcaica rispetto a ‘A. Larentia’ e che, quindi, quest’ultima variante servisse a spiegare la prima.

Il passo varroniano, comunque, deve costituire un valido punto di riferimento per provare a chiarire la questione onomastica relativa a Larentina: l’opera dell’erudito, infatti, nella

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Verrio Flacco in età augustea. Non si può escludere, dunque, che Tertulliano abbia ripreso proprio da Varrone questa variante.

Lattanzio, d’altra parte, chiama ‘Larentinalia’28 i riti officiati in onore di

Larentina il 23 di Dicembre, adoperando un nome che ritroveremo soltanto un’altra volta in letteratura, nei Saturnalia di Macrobio29. L’apologista, dunque, è il più antico testimone della variante ‘Larentinalia’, alla quale si affianca la forma ‘Larentalia’, tràdita soltanto da testimoni più antichi di Lattanzio: Varrone, Ovidio e Festo30.

Ciò detto, ammesso e non concesso che lo stato della documentazione rispecchi la cronologia delle due forme, si potrebbe concludere che la variante ‘Larentinalia’ è più tarda della forma ‘Larentalia’. Se così fosse, si potrebbe ipotizzare che ad introdurre la variante ‘Larentinalia’ sia stato proprio l’autore delle Institutiones, a partire, per esempio, dal ‘Larentalia’ ovidiano e dal nome ‘Larentina’ che egli, come si è visto, avrebbe ripreso da Tertulliano, facendo derivare il nome della festa da quello della donna divinizzata.

A questo punto, dopo aver illustrato le due questioni onomastiche relative alle varianti ‘Larentina’ e ‘Larentinalia’, passiamo a discutere del tema più importante: il rapporto tra il ritratto lattanziano di Larentina e le due tradizioni cristiana e pagana.

Stando a Lattanzio, (Livio garantisce che) Larentina era la moglie di Faustolo, detta ‘lupa’ fra i pastori in quanto meretrice. Poiché ella accudì Romolo, i Romani le dedicarono un “dies festus” e in suo onore furono istituiti i “Larentinalia”. sezione che è di nostro interesse, si concentra proprio sulle denominazioni delle feste religiose.

27 Cf. SVET. gramm. 17.

28 Cf. LACT. inst. I.20.4. La festa di Larentina veniva celebrata il 23 di Dicembre (cf. fast. Praen.) – o il 21 dello stesso mese, stando a Macrobio, che però segue il calendario di Numa e non quello giuliano (cf. MACR. Sat. I.10.11) – e doveva essere caratterizzata da

un rito funebre in onore della donna deificata, come testimoniano diversi autori (cf. e.g.: VARRONEM ling. VI.24, CIC. ad Brut. I.15.8, GELL. VII.7, MACR. Sat. I.10.15).

29 Cf. MACR. Sat. I.10.11.

30 Cf. VARRONEM ling. VI.23–24, OV. fast. III.57 e FEST. p.106 L. (= p.119 M. = p.85 Th.).

(15)

Lo scrittore cristiano che discute più nel dettaglio questa figura è Tertulliano che in nat. II.10 propone due tradizioni alternative sul conto di Larentina, identificandola o con la prostituta nutrice di Romolo o con la meretrice amante di Ercole. Indipendentemente, comunque, dalla versione accolta dai polemisti cristiani31, essi sono concordi nell’identificare questa figura con una prostituta e nell’indicarla come exemplum dell’immoralità del paganesimo romano32.

Se, però, prestiamo attenzione alle fonti pagane, queste ci consegnano un quadro piuttosto diverso. (Acca) Larentia33, infatti, è ritratta o come nutrice di Romolo e Remo o come meretrice (e eventualmente amante di Ercole), ma quasi mai come nutrice e, al contempo, prostituta. Nei rari casi in cui le fonti a nostra disposizione identificano la nutrice dei gemelli con una prostituta, ciò accade per l’esigenza razionalistica delle opere storiche: soltanto per questo motivo certe fonti di Livio (“sunt qui […] putent”), Dionigi di Alicarnasso34 e Servio35 riferiscono che non

era stata una lupa a prendersi cura dei bambini esposti, ma una donna, detta ‘lupa’ fra i pastori per i suoi costumi.

Per dare prova di quanto appena detto, ci soffermeremo di seguito su i diversi ritratti di (Acca) Larentia trasmessi dalle fonti pagane che recano informazioni sulla identità della donna divinizzata, concludendo con la doppia testimonianza di Plutarco, che per le ragioni che vedremo merita di essere discussa a parte.

Nei Fasti Praenestini al 23 di Dicembre leggiamo: “Accae Larentin[ae parentalia

fiunt.] hanc alii Remi et Rom[uli nutricem, alii] meretricem Herculis scortum [fuisse dic]unt”. A patto che l’integrazione “uli nutricem, alii” sia corretta, come

crediamo, il testo dei Fasti testimonia che, sotto Augusto, si identificava questa figura o con la nutrice di Romolo e Remo o con una meretrice amante di Ercole. Non bisogna, del resto, trascurare che questo testo, in ragione del suo status di documento ufficiale – era, in effetti, il calendario di Preneste, esposto nel centro

31 Per quel che riguarda Minucio Felice, che si limita a parlare di Acca Larentia come di una meretrice divinizzata, non sappiamo neppure quale versione accogliesse.

32 Cf. anche AUG. ciu. VI.7.

33 Questa è la variante più diffusa fra le fonti pagane, cf. e.g. VARRONEM ling. VI.23–24, LIV. I.4, OV. fast. III.55, GELL. VII.7, PLIN. nat. XVIII.6, MACR. Sat. I.10.13.

34 Cf. D.H. I.87. 35 SERV. Aen. I.273.

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cittadino – offre una testimonianza probabilmente più attendibile rispetto a un’opera letteraria.

Ovidio, dal canto suo, afferma in fast. III. 55–57 che Larentia è venerata in qualità di “tantae nutrix […] gentis” e, per quanto si tratti solo di un’anticipazione, dal momento che il poeta avrebbe dovuto parlare diffusamente di Acca Larentia nel libro, mai scritto, dedicato al mese di Dicembre, è opportuno notare che in questi pochi versi non c’è alcun rimando alla attività meretricia della donna.

Gellio, a sua volta, in VII.7 espone due tradizioni sul conto di Acca Larentia. La prima, da lui condivisa, la rappresenta come una meretrice, che, in punto di morte, lasciò tutti i propri beni in eredità a Romolo o al popolo romano. La seconda, invece, per la quale Gellio chiama Sabino Masurio a garante, ritrae Acca Larentia come nutrice di Romolo.

La cosa degna di nota è che l’autore delle Noctes Atticae presenta la seconda versione in netta contrapposizione alla prima, confermando così che, in ambito pagano, Acca Larentia o è una meretrice o è la nutrice dei gemelli esposti: “Sed

Sabinus Masurius […] Accam Larentiam Romuli nutricem fuisse dicit”.

Macrobio, infine, in Sat. I.10.11 e ss., riporta tre versioni sul conto di questa figura, la prima attribuita al soggetto non specificato di un ‘ferunt’36, la seconda a Catone37 e la terza a Licinio Macro38.

Dei tre resoconti Macrobio sembra accreditare l’ultimo, visto che introduce i primi due con non poco scetticismo (“de quibus, quia fabulari libet, hae fere

36 Secondo la prima versione, il custode del tempio di Ercole condusse dal dio una cortigiana di nome Larentia dopo aver perso con lui al gioco dei dadi. Ercole, dopo l’amplesso, suggerì alla donna di seguire chi la avrebbe corteggiata appena fuori dal tempio. Larentia diede ascolto al dio e non disdegnò le lusinghe di un certo Caruzio (cf. ‘Tarruzio’ in Plutarco e ‘Tarutilio’ nei Fasti Praenestini). Alla morte dell’uomo, la donna ne ereditò tutti beni, lasciandoli a sua volta in eredità al popolo romano. Il re Anco, per questa ragione, istituì in suo onore una solennità annuale.

37 Secondo Catone, Larentia, arricchitasi con la prostituzione, lasciò in eredità al popolo romano una serie di terreni e per questo motivo sarebbe stata istituita una cerimonia funebre in suo onore.

38 Stando a Licinio Macro, Acca Larentia, moglie di Faustolo e nutrice di Romolo e Remo, sposò, sotto il regno di Romolo, un ricco etrusco, un tale Caruzio, e, lasciati al popolo romano i beni che aveva ereditato dal marito, cominciò ad essere onorata con una cerimonia annuale istituita da Romolo.

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opiniones sunt”39) e visto che nel presentare l’ultimo scrive la frase “Macer […]

Faustuli coniugem Accam Larentiam Romuli et Remi nutricem fuisse confirmat”,

nella quale adopera il verbo ‘confirmo’ – che significa “assicurare, garantire” –, di per sé plausibile garanzia di un’adesione dell’autore dei Saturnalia all’opinione di Licinio Macro.

È evidente, dunque, che in contrasto con le testimonianze cristiane le fonti pagane ritraggono Larentia o come nutrice dei gemelli esposti o come meretrice.

Si può concludere, allora, che la rappresentazione cristiana di Larentina/Larentia come meretrice – anche quando la si identifichi con la nutrice di Romolo – è una forzatura apologetica funzionale alla condanna dell’immoralità del paganesimo romano.

Per venire infine a Plutarco, egli scrive di Acca Larentia nella Vita Romuli40 e nelle Quaestiones Romanae41 cercando di conciliare in entrambe le opere le diverse tradizioni relative al personaggio: in particolare, secondo Plutarco sarebbero esistite due ‘Larentia’ delle quali una andrebbe identificata con la nutrice dei gemelli esposti e l’altra con l’amante di Ercole42.

Il nome ‘Φαβόλα’, col quale l’autore delle Quaestiones indica la Larentia amante di Ercole, richiama alla mente la citazione di Verrio Flacco riportata da Lattanzio subito dopo la sequenza di testo dedicata a Larentina:

39 MACR. Sat. I.10.13.

40 PLU. Rom. 4–5.

41 PLU.II. 272e–273b W. (= Quaest. Rom. 34–35).

42 A dire il vero, la versione della Vita Romuli e quella delle Quaestiones sono fra loro nettamente distinte: nella Vita Plutarco ritrae la nutrice dei gemelli come meretrice (‘lupa’, in accezione metaforica) e rappresenta l’altra Larentia come una donna che al momento dell’incontro col dio non è ancora manifestamente una prostituta; nelle Quaestiones, invece, egli dipinge Acca Larentia come nutrice dei bambini e identifica l’altra – che egli chiama ‘Φαβόλα’ – come ‘la prostituta’, suggerendo in maniera piuttosto chiara che Acca non era una meretrice.

Questa sensibile differenza fra la Vita e le Quaestiones potrebbe dipendere dall’utilizzo di fonti diverse da parte di Plutarco che dovette selezionare la documentazione in base al genere dell’opera che andava scrivendo.

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Nec hanc [sc. Larentinam] solam Romani meretricem colunt, sed Faulam quoque, quam “Herculis scortum fuisse” Verrius scribit43.

Come è evidente, non solo il nome ‘Φαβόλα’ ricorda molto da vicino il nome ‘Faula’ della citazione di Verrio, ma per di più Φαβόλα Λαρεντία, al pari di Faula, è ritratta da Plutarco come meretrice di Ercole.

Il testo plutarcheo, quindi, potrebbe risolvere l’incociliabiltà della versione di Verrio Flacco con il resto della tradizione che identifica Larentia con la prostituta amante di Ercole: con Plutarco, infatti, si direbbe che la Larentia meretrice di Ercole e la Faula (/Φαβόλα) di Verrio, in realtà, coincidono.

ROSE (1924, 35–44), tuttavia, sostiene che l’autore delle Quaestiones Romanae avrebbe attinto principalmente proprio da Verrio Flacco in almeno quarantacinque casi, tra i quali egli annovera anche Quaest. Rom. 34(fine)–35 44.

Se accogliamo, dunque, la tesi di Rose, dovremmo concludere che Plutarco ha identificato sua sponte Larentia con Faula perché una parte della tradizione rappresentava Larentia come amante di Ercole e Verrio definiva Faula “Herculis

scortum”.

Certo è che la descrizione di Faula proposta da Verrio, tale e quale a quella di Larentia secondo diverse fonti, costitusce un problema, dato che la sovrapposizione di queste due figure (al di là del tentativo plutarcheo di sistematizzazione) esiste e sembra difficile da spiegare.

La questione, del resto, dà adito a ulteriori considerazioni, se si ricorda che fra le fonti che proponevano l’identificazione di Larentia con la meretrice amante di Ercole c’erano anche i Fasti Praenestini, redatti proprio da Verrio Flacco: “Accae

43 LACT. inst. I.20.5. La citazione di Verrio, come si detto in sede di introduzione, potrebbe essere stata ripresa da Lattanzio dal De claris meretricibus svetoniano (cf. supra).

44 Rose basa la sua tesi sul fatto che i contenuti delle QR richiamano alla mente i Fasti Praenestini (curati, secondo Svetonio, proprio da Verrio Flacco, cf. supra nel testo) e le glosse di Festo (il quale, com’è noto, ha epitomato l’opera di Verrio Flacco). Lo studioso, dunque, argomenta la sua tesi a prescidere dalla citazione di Verrio riportata da Lattanzio. Quest’ultima, invece, è tutt’altro che trascurabile, dal momento che appare come la prova forse definitiva della dipendenza di Plutarco da Verrio Flacco: il nome ‘Φαβόλα’, infatti, deve essere l’adattamento del nome ‘Faula’ riportato da Verrio.

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Larentin[ae parentalia fiunt.] hanc alii Remi et Rom[uli nutricem, alii] meretricem Herculis scortum [fuisse dic]unt”45.

Ammesso, in effetti, che la citazione proposta da Lattanzio sia corretta, si può pensare, alla luce di un confronto con i Fasti Praenestini, che Verrio fosse a conoscenza di una duplice tradizione su Acca Larentina, ma ritenesse opportuno identificare quest’ultima con la nutrice dei gemelli esposti e Faula con la meretrice amante di Ercole.

Lattanzio, comunque, ha il merito di aver trasmesso una citazione di Verrio Flacco che permette di capire quale sia stata la fonte di Plutarco in Quaest. Rom. 34(fine)–35, e che consente di cogliere il punto di vista dell’erudito rispetto al problema di Larentina.

A ciò si aggiunga che con questa citazione l’apologista dà notizia di una Faula, a noi altrimenti ignota, che, seppur con cautela, dobbiamo registrare nel novero degli dèi dei Romani.

FLORA

Riportiamo di seguito le parole che Lattanzio dedica al culto di Flora: Flora cum magnas opes ex arte meretricia quaesiuisset, populum scripsit haeredem certamque pecuniam reliquit, cuius ex annuo faenore suus natalis dies celebraretur editione ludorum, quos appellant Floralia. Quod quia senatui flagitiosum uidebatur, ab ipso nomine argumentum sumi placuit, ut pudendae rei quaedam dignitas adderetur. Deam finxerunt esse quae floribus praesit eamque oportere placari, ut fruges cum arboribus aut uitibus bene prospereque florescerent. Eum colorem secutus in Fastis poeta non ignobilem nympham fuisse narrauit quae sit Chloris uocitata

45 Si noti, en passant, che le parole dei Fasti Praenestini “Herculis scortum [fuisse” sono le medesime (e nel medesimo ordine) della citazione di Verrio relativa a Faula (“Herculis scortum fuisse”).

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eamque Zephyro nuptam quasi dotis loco id accepisse muneris a marito ut haberet omnium florum potestatem. Honeste quidem ista dicuntur, sed inhoneste turpiterque creduntur; nec debent, cum ueritas quaeritur, huiusmodi nos uelamenta decipere. Celebrantur ergo illi ludi conuenienter memoriae meretricis cum omni lasciuia. Nam praeter uerborum licentiam, quibus obscenitas omnis effunditur, exuuntur etiam uestibus populo flagitante meretrices, quae tunc mimarum funguntur officio et in conspectu populi usque ad satietatem impudicorum luminum cum pudendis motibus detinentur46.

Se guardiamo alla totalità delle fonti relative a Flora fino alla testimonianza delle

Institutiones, si nota una significativa differenza fra il fronte cristiano e quello

pagano: Minucio Felice e Lattanzio47 ritraggono Flora come una meretrice divinizzata, al pari di Acca Larentia/Larentina, mentre gli autori pagani si limitano a sottolineare la particolare licenziosità delle celebrazioni istituite in suo onore, senza mai dipingerla come una prostituta deificata.

La versione dei due cristiani, in effetti, potrebbe derivare da una fonte pagana a noi non pervenuta ma, più verosimilmente, è conseguenza di una rielaborazione in chiave polemica delle notizie riportate dai testi pagani.

Come si è anticipato, le fonti pagane tendono a collocare la dea in un contesto licenzioso, il cui apice è senz’altro costituito da quel momento dei ludi florales che i moderni chiamano ‘nudatio mimarum’ in base alle notizie riportate da Valerio Massimo e Seneca48: su richiesta del pubblico le mime coinvolte nei ludi potevano denudarsi.

Valerio Massimo e Seneca49, per altro, sono testimoni di un episodio che aiuta a comprendere come Flora e i Floralia fossero chiari emblemi di licenziosità: una volta Catone era presente alla festa di Flora e il pubblico, nel rispetto della sua integrità morale, non osava chiedere alle mime di spogliarsi, finché il Censore,

46 LACT. inst. I.20.6–10.

47 Cf. MIN.FEL. 25.8 e LACT. inst. I.20.6. Per la posizione di Arnobio cf. infra. 48 Cf. VAL.MAX. 2.10.8 e SEN. epist. 97.8.

(21)

intuita la cosa, si allontanò spontaneamente dal luogo dei ludi per permettere ai presenti di assistere allo spettacolo desiderato.

Come è evidente, l’aneddoto conferma Catone come paradigma dell’integritas

uitae50, e testimonia, inoltre, che i Floralia e la stessa Flora si collocano, nella percezione degli antichi, agli antipodi della integrità catoniana.

Come, del resto, fa notare BUONGIOVANNI (2012, p.375 e ss.), vi è un altro indizio circa il posto occupato da Flora nell’immaginario dei romani, ovvero quella “sorta di ‘scomunica letteraria’ inflitta alla dea da autori come Virgilio e Livio”, che diligentemente si attengono al programma augusteo “di ripristino della misura e del rigore degli antiqui mores”. Ovidio si sottrae a questa tendenza e nei Fasti dedica ampio spazio a Flora51, ma solo perché l’opera discute le diverse festività del calendario romano52 e per questo non può non occuparsi anche dei Floralia. Deve, infine, essere ricondotto alla natura spiccatamente licenziosa della dea il fatto che sia Marziale il poeta che, dopo Ovidio, dedica più versi a Flora e ci consente di cogliere al meglio lo spirito autentico dei Floralia.

Egli, poeta del programmatico “lasciua est nobis pagina, uita proba”53, a proposito della festa di Flora scriveva: “epigrammata illis scribuntur, qui solent

spectare Florales. Non intret Cato theatrum meum, aut si intrauerit, spectet”54. In Marziale, dunque, ritorna la contrapposizione tra i Floralia e Catone e, per di più, parafrasando le dichiarazioni del poeta, si può affermare che i suoi epigrammi sono caratterizzati dal medesimo spirito dei Floralia, lascivo e licenzioso.

Si noti, inoltre, che tanto in Ovidio quanto in Marziale55 Flora è inseguita da un dio che vuole abusare di lei: Zefiro nel caso del poeta dei Fasti e Priapo nel caso

50 Cf. e.g. SALL. Catil. 54: “Caesar beneficiis ac munificentia magnus habebatur, integritate uitae Cato”.

51 OV. fast. V.195 e ss.

52 Almeno fino al mese di Giugno incluso, dato che l’opera, com’è noto, si interrompe col VI libro.

53 MART. I.4.8.

54 MART. I. prolog. 6–7.

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dell’epigrammista56. Questo particolare non fa che ribadire quanto sinora si è detto a proposito dell’immaginario di lasciuitas cui Flora rimanda nella percezione degli antichi.

Si può, allora, ragionevolmente sostenere che il ritratto di Flora come meretrice divinizzata proposto da Minucio Felice e da Lattanzio derivi da una rielaborazione in chiave polemica del tema pagano della licenziosità dei Floralia.

Arnobio, in effetti, pur non ritraendo la dea come una prostituta, suggerisce con le seguenti parole che la critica degli apologisti muovesse proprio dall’oscenità dei

ludi florales: “Flora illa genetrix et sancta obscenitate ludorum bene curat ut arva florescant: et cur cottidie gemmulas et pubescentes herbas adurit atque interficit nocentissimum frigus?”; “Existimat uel tractari se honorifice Flora, si suis in ludis flagitiosas conspexerit res agi et migratum ab lupanaribus in theatra?” 57.

Lattanzio, del resto, propone una specifica caratterizzazione di Flora e una descrizione dettagliata delle dinamiche relative al suo culto che appaiono come il frutto di una sua interessata mistificazione delle fonti pagane.

L’esordio lattanziano (“Flora cum magnas opes ex arte meretricia quaesiuisset,

populum scripsit haeredem certamque pecuniam reliquit, cuius ex annuo faenore suus natalis dies celebraretur editione ludorum, quos appellant Floralia”) non

può che far pensare ad una delle due tradizioni relative a Larentia, discusse nella seconda sezione di questo capitolo: si rimanda, in particolare, alla versione di Catone tràdita da Macrobio e a quanto scrive Gellio58.

56 Cf. “Ver erat, errabam; Zephyrus conspexit, abibam; / insequitur, fugio: fortior ille fuit”. OV. fast. V.201–202 e “Et delicatae laureum nemus Florae, In quod Priapo persequente confugit”. MART. X.92.11–12.

57 ARNOB. nat. III. 23 e VII.33.

58 Cf. CATONEM in MACR. Sat. I.10.16 “Cato ait Larentiam meretricio quaestu locupletatam post excessum suum populo Romano agros Turacem, Semurium, Lintirium et Solinium reliquisse; et ideo sepulcri magnificentia et annuae parentationis honore dignatam” e GELL. VII.7: “Acca Larentia corpus in uulgus dabat pecuniamque emeruerat ex eo quaestu uberem. Ea testamento, ut in Antiatis historia scriptum est, Romulum regem, ut quidam autem alii tradiderunt, populum Romanum bonis suis heredem fecit. Ob id meritum a flamine Quirinali sacrificium ei publice fit et dies e nomine eius in fastos additus”.

(23)

L’apologista, dunque, chiamando in causa la conclamata licenziosità dei ludi

florales, quasi che questa lo autorizzasse a trasformare Flora in una prostituta

divinizzata (“Celebrantur ergo illi ludi cum omni lasciuia, conuenienter

memoriae meretricis”), arriva a ricostruire una versione delle origini del culto

della dea tutt’altro che attendibile, in quanto fondata su ciò che veniva tramandato a proposito di Acca Larentia.

Risulta difficile, d’altra parte, stabilire se l’imbarazzo del Senato di fronte al culto della meretrice Flora (“Quod quia senatui flagitiosum uidebatur”) sia un’invenzione dell’apologista o se quest’ultimo abbia tratto ispirazione da una fonte specifica (cf. l’ipotesi del De claris meretricibus svetoniano).

È possibile, comunque, individuare tre elementi che avrebbero potuto suggerire a Lattanzio la fabula che egli elabora sulla censura messa in atto dal Senato per nascondere il passato di Flora:

• Il fatto che il Senato rappresentasse, a Roma, l’organo politico tutore della moralità tradizionale.

• La contrapposizione, ben documentata in letteratura, fra Catone il Censore, celebre esponente della élite senatoria, e i Floralia.

• Il pentametro ovidiano “me quoque Romani praeteriere patres”59 (nel quale Flora racconta di essere stata trascurata dai senatori romani), che fa parte proprio di quella sezione del V libro dei Fasti che è fonte dichiarata di Lattanzio60.

Dopo essersi soffermato sull’intervento del Senato, l’apologista spiega che Ovidio (“in Fastis poeta…”) si sarebbe attenuto alla versione dei senatori che rappresentava Flora come la dea dei fiori. A differenza, però, di quel che Lattanzio lascia intendere, Ovidio non nasconde l’oscenità dei ludi, ma la problematizza, spiegandola con la prossimità di Flora alla sfera del piacere: “Quaerere conabar quare lascivia maior/his foret in ludis liberiorque iocus,/sed

mihi succurrit numen non esse seuerum, aptaque deliciis munera ferre deam” e

59 OV. fast. V.312.

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“Turba quidem cur hos celebret meretricia ludos/non ex difficili causa petita subest./Non est de tetricis, non est de magna professis:/ volt sua plebeio sacra patere choro,/ et monet aetatis specie, dum floreat, uti;/contemni spinam, cum

cecidere rosae”61.

Fra i moderni, infine, FRAZER (1929, III, 419) ha difeso la reputazione di Flora in maniera pressoché definitiva, scrivendo quanto segue: “In justice to Flora we should bear in mind that in the ritual of deities of fertility deeds and words, which in ordinary life would be stigmatized as indecent and obscene, may have a serious significance as designed to promote […] the fruitfulness of the earth, of animals, and of men”.

61 OV. fast. V.331–334 e 349–354. Per quanto riguarda il richiamo al toposo del carpe diem PASCO–PRANGER (2006) rimanda a HOR. carm. I.11.7–8, OV. ars I.113–16 e

(25)

II

CLOACINA, PAVOR E PALLOR

Dopo la sezione dedicata alle meretrici divinizzate, Lattanzio menziona e discute i culti di Cloacina, Pauor e Pallor.

Si è scelto di considerare queste tre figure in un unico capitolo perché, come mostreremo, i passi delle Institutiones ad esse relativi dipendendono da una fonte comune.

Riportiamo, per prima cosa, il testo di Lattanzio:

Cloacinae simulacrum in Cloaca Maxima repertum Tatius consecrauit et, quia cuius esset effigies ignorabat, ex loco illi nomen imposuit. Pauorem Palloremque Tullus Hostilius figurauit et coluit. Quid de hoc dicam nisi dignum fuisse qui semper deos suos, sicut optari solet, praesentes haberet?62

Il brano citato dipende nei contenuti e nella forma da un passo dell’Octauius63 di Minucio Felice che si rifà, a sua volta, a quello che è per noi il fr. 33 del De

superstitione di Seneca, tràdito da Agostino nel De ciuitate Dei64.

Anche Tertulliano, nell’Aduersus Marcionem65, associa Cloacina a Tazio e Pauor a Ostilio, ma non menziona Pallor e il suo testo differisce nettamente dai passi sopra indicati. Ciò porta ad escludere che l’autore delle Institutiones possa dipendere, in questo caso, da Tertulliano.

Per valutare i rapporti di dipendenza fra Seneca, Minucio e Lattanzio, conviene leggere tanto il frammento senecano quanto il passo dell’Octauius.

SEN. superst. fr. 33 (in AUG. ciu. VI. 10):

Et ad hoc respondens quid ergo tandem? Inquit veriora tibi uidentur Titi Tatii aut Romuli aut Tulli Hostilii somnia? Cloacinam Tatius dedicauit deam, Picum

62 LACT. inst. I.20.11–12. 63 Cf. MIN.FEL. 25.8. 64 Cf. AUG. ciu. VI.10. 65 Cf. TERT. adu. Marc. I.26.

(26)

Tiberinumque Romulus, Hostilius Pauorem atque Pallorem taeterrimos hominum affectus, quorum alter mentis territae motus est, alter corporis ne morbus quidem sed color. Haec numina potius credes et caelo recipies?

MIN.FEL. 25.8:

Romanorum enim uernaculos deos nouimus: Romulus, Picus, Tiberinus, et Consus et Pilumnus ac Volumnus dii; Cloacinam Tatius et inuenit et coluit, Pauorem Hostilius atque Pallorem, mox a nescio quo Febris dedicata; haec alumna urbis istius superstitio, morbi et malae ualetudines.

Diversi elementi mostrano che Minucio Felice dipende da Seneca:

1. la coppia di parole ‘Cloacinam Tatius’ che l’autore dell’Octauius riprende senza modifiche dal testo senecano;

2. l’ellissi del predicato per il soggetto ‘Hostilius’ tanto in Seneca quanto in Minucio66;

3. l’uso del connettivo ‘atque’ in “Pauorem atque Pallorem” nel frammento senecano come nell’Octauius (cosa non scontata, visto che Lattanzio usa l’enclitica –que);

4. Il fatto che Minucio chiama il re ‘Hostilius’ proprio come fa Seneca (e non

Tullus Hostilius, come invece fa Lattanzio);

5. La corrispondenza fra il senecano ‘morbus’ e il ‘morbi et malae

ualetudines’ di Minucio.

LAUSBERG (1970), d’altro canto, mostra la dipendenza di Lattanzio da Minucio sulla base di due elementi:

1. Il lattanziano ‘repertum’ che riprenderebbe l’ ‘inuenit’ di Minucio.

2. Il nesso “figurauit et coluit” adoperato da Lattanzio che potrebbe dipendere dall’ “inuenit et coluit” dell’Octauius.

Provando, del resto, a ipotizzare una diretta dipendenza di Lattanzio da Seneca, non troveremmo tante corrispondenze quante ne abbiamo riscontrate fra il testo di

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Minucio e il frammento senecano. Eccettuato, infatti, il lattanziano ‘consecrauit’ che potrebbe dipendere dal ‘dedicauit’ di Seneca, non vi sono altri indizi per pensare che Lattanzio leggesse direttamente il testo del filosofo.

È, dunque, più ragionevole sostenere che Minucio dipende da Seneca e che Lattanzio, a sua volta, dipende da Minucio.

A questo punto, è opportuno analizzare ciò che Lattanzio scrive, in aggiunta alle notizie riportate nell’Octauius, sia su Cloacina che sulla coppia Pauor e Pallor.

CLOACINA

67

Riprendiamo le parole dedicate da Lattanzio alla dea Cloacina: “Cloacinae

simulacrum in Cloaca Maxima repertum Tatius consecrauit et, quia cuius esset effigies ignorabat, ex loco illi nomen imposuit”.

Nelle righe citate, l’apologista indirizza i suoi strali contro l’uso pagano di venerare idoli e lo dipinge come una forma di ridicola ossessione: gli antichi – sembra voler dire Lattanzio – erano tanto incapaci di resistere alla tentazione di adorare simulacri, che il re Tito Tazio arrivò a dare ad una statua il nome dell’impianto fognario pur di poterla venerare come fosse una dea.

Il culto di una dea Cloacina è, d’altra parte, storicamente attestato e, d’ora in avanti, cercheremo di mostrare che l’autore delle Institutiones, senza più dipendere da Minucio, ricostruisce le origini del culto di questa divinità in netto contrasto con le fonti antiche, alterando, in maniera intenzionale, le informazioni di cui dispone.

L’associazione ‘Cloacina–Cloaca (Maxima)’, lungi dall’essere una mera boutade linguistica, fa pensare che Lattanzio avesse appreso da fonti diverse dall’Octauius, dove nulla si legge in proposito, che il tempietto di Cloacina era situato nei pressi dall’area della Cloaca Maxima.

67 Plinio il Vecchio (PLIN. nat. XV.119) e Servio (SERV. Aen. I.720) identificano questa divinità con Venere. Noi parleremo semplicemente di ‘Cloacina’ in linea con tutti gli altri testimoni del culto che a Venere non fanno riferimento.

(28)

Poiché, però, come vedremo a breve, le fonti relative alla collocazione del sacello di Cloacina non lo mettono mai in relazione con la Cloaca Maxima, si deve concludere che, con ogni probabilità, Lattanzio ha accostato il nome della dea alla Cloaca consapevole di dire il falso, al solo scopo di denigrare il culto della dea a partire dalla prossimità etimologica dei due nomi ‘Cloacina’ e ‘Cloaca’.

Sulla base, infatti, delle notizie trasmesse da Plauto68 e da Livio69, si ricava che il tempietto di Cloacina sorgeva nella parte settentrionale del Foro70, ma né Plauto né Livio, nel collocare il sacello, fanno parola della Cloaca Maxima.

Il dato appare ancor più significativo se lo si raffronta con le altre testimonianze: nessun’altra fonte su Cloacina anteriore a Lattanzio, neppure di matrice cristiana, riconduce il nome della dea, o anche solo la fondazione del suo tempio, alla Cloaca Maxima.

Plinio il Vecchio e alcuni reperti numismatici suggeriscono inoltre che il tipo di purificazione cui il nome di Cloacina è etimologicamente legato fosse ben diverso da quello indicato da Lattanzio: una purificazione intesa, insomma, non come spurgo fognario, ma come atto preliminare alla sottoscrizione di un trattato di pace (cf. infra).

L’erudito scrive quanto segue: “Quippe ita traditur, myrtea uerbena Romanos

Sabinosque, cum propter raptas uirgines dimicare uoluissent, depositis armis purgatos in eo loco qui nunc signa Veneris Cluacinae71 habet. Cluere enim

antiqui purgare dicebant” 72.

Plinio, come è evidente, presenta le statue di (Venere) Cloacina come il simbolo della antica purificazione voluta da Romani e Sabini73 in seguito alla battaglia che

gli uni contro gli altri avevano combattuto.

68 Cf. PLAUT. Curc. 470 e ss.. e le relative osservazioni di MOORE (1991). 69 Cf. LIV. III.48.5 e il relativo commento di OGILVIE (1965, I, 487).

70 In quest’area, non lontano dalla Cloaca Maxima, ancora oggi è possibile vedere la fondazione di un piccolo edificio di forma circolare che viene identificato col sacello di Cloacina.

71 Cluacina è variante per Cloacina (cf. Oxford Latin Dicitionary, 338, col.I). 72 PLIN. nat. XV.119.

73 I Sabini erano governati dal re Tito Tazio, del quale Plinio qui non parla. La più antica menzione di Tazio come fondatore del culto di Cloacina è quella contenuta nel frammento di Seneca tràdito da Agostino (cf. supra).

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Un’ulteriore conferma del legame fra Cloacina e la purificazione che prelude alla pace è data dalle monete coniate da Lucio Mussidio Longo poco dopo la metà del I secolo a.C..

Questi reperti numismatici recano sul dritto un ritratto femminile al di sotto del quale si legge “Concordia” e sul verso la rappresentazione di un recinto circolare. All’interno del recinto sono ritratti due simulacri di divinità femminili e uno di questi leva in alto quello che, in base al locus pliniano citato, è stato identificato con un tralcio di mirto. Al di sotto di questa rappresentazione si legge la scritta “Cloacin”.

Le monete di Mussidio Longo, dunque, grazie alle due iscrizioni, confermano il legame tra Cloacina e la purificazione che prelude alla pace, e che, in ultima analisi, il nome di Cloacina ha un’origine ben più nobile di quella proposta dall’apologista74.

Possiamo, a questo punto, concludere che Lattanzio, in netto contrasto con ciò che tramandano le fonti pagane, ha ricostruito a suo piacimento la genesi del culto di Cloacina allo scopo di ridicolizzarlo e condannarlo per una bassezza che in verità non gli è mai appartenuta.

PAVOR E PALLOR

Consideriamo, ora, il passo delle Institutiones relativo a Pauor e Pallor: “Pauorem

Palloremque Tullus Hostilius figurauit et coluit. Quid de hoc dicam nisi dignum fuisse qui semper deos suos, sicut optari solet, praesentes haberet?”.

Come già osservato, Lattanzio riprende da Minucio Felice la notizia del culto istituito da Tullo Ostilio, ma il commento che egli propone di seguito non ha un

74 OGILVIE (1965), commentando LIV. III.48.5, fa notare che lo storico potrebbe aver collocato l’episodio della morte di Virginia “prope Cloacinae (sc. templum)” proprio perché Virginio, uccidendo la figlia, ne avrebbe mantenuto la purezza, salvandola dall’altrimenti inevitabile “stuprum” di Appio Claudio. Se l’interpretazione di Ogilvie ha una sua fondatezza, ciò ribadisce che il tipo di purificazione cui va ricondotta l’origine di Cloacina è ben più nobile di quanto non lasci intendere Lattanzio.

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modello nell’Octauius e dev’essere stato elaborato dall’apologista sulla base della caratterizzazione tradizionale di Ostilio quale sovrano bellicoso75.

L’unica fonte pagana che parli di Pauor e Pallor, ad eccezione del frammento polemico di Seneca, è Tito Livio76 e, sebbene non sia possibile dimostrare che Lattanzio ha presente il passo liviano, la boutade finale dell’apologista fa pensare che egli avesse in mente proprio la caratterizzazione liviana del re77.

Comunque stiano le cose, leggendo Livio e confrontando la sua narrazione col silenzio degli altri testimoni pagani, è possibile recuperare il senso dell’episodio di Pauor e Pallor del tutto oscurato dalla polemica filosofica di Seneca e da quella religiosa, che da Seneca dipende, degli autori cristiani.

Livio racconta che durante lo scontro con Fidene e Veio l’esercito dei Romani venne a trovarsi “in re trepida” per l’improvvisa defezione degli alleati Albani. In questa circostanza Tullo Ostilio “uouit” santuari a Pallor e Pauor, con la conseguenza che “terror ad hostes transit” e i Romani annientarono il nemico. Per comprendere a fondo il passo liviano, è utile consultare il commento di OGILVIE (1965): “Shrines of Pallor and Pavor are nowhere else directly attested and in the corresponding section of D.H. (3.32.4) Tullus vows Κρόνου τε καὶ Ῥέας

καταστήσεσθαι δηµοτελεῖς ἑορτάς. Pallor and Pavor are the Homeric Δεῖµος and Φόβος (Iliad 11. 37; Hesiod, Theog. 933; Shield 195) and were added to the story

to provide Homeric colouring”78.

Poiché lo studioso osserva che le due divinità non sono altrove documentate e che Dionigi di Alicarnasso, pur menzionando un uotum da parte di Ostilio, non fa riferimento a queste due figure, è lecito dubitare del fatto che Pallor e Pauor rientrassero davvero fra gli dèi dei Romani.

75 Cf. LIV. I.22 e 31.5 e ss. 76 Cf. LIV. I.27.7.

77 Ad indicare un rapporto fra la versione dell’apologista e quella dello storico patavino potrebbero essere le varianti del nome del re scelte dalle diverse fonti: se Seneca e Minucio chiamano il re ‘Hostilius’, Lattanzio lo chiama ‘Tullus Hostilius’ e Livio ‘Tullus’ (cf. e.g. n. 75 e 76). L’apologista, dunque, potrebbe aver ripreso ‘Tullus’ da Livio, mostrando così di avere presente il passo dello storico.

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