Dopo essersi occupato di Magna Mater e Bellona, Lattanzio discute una serie di mortali divinizzati “post mortem”. Riportiamo, di seguito, le parole dedicate da Lattanzio a queste divinità:
Interim uideamus et cetera, quae carent scelere, ne studio insectandi uideamur eligere peiora. Isidis Aegyptiae sacra sunt, quatenus filium paruulum uel perdiderit uel inuenerit. Nam primo sacerdotes eius deglabrato corpore pectora sua tundunt, lamentantur, sicut ipsa cum perdidit fecerat; deinde puer producitur quasi inuentus et in laetitiam luctus ille mutatur. Ideo Lucanus: “Nunquamque satis quaesitus Osiris”. Semper enim perdunt, semper inueniunt. Refertur ergo in sacris imago rei quae uere gesta est, quae profecto si quid sapimus, declarat mortalem mulierem fuisse ac paene orbam, nisi unicum repperisset. Quod illum ipsum poetam minime fugit, apud quem Pompeius adulescens morte patris audita haec loquitur: “Euoluam busto iam numen gentibus Isim, Et tectum lino spargam per uulgus Osirim”. Hic est Osiris, quem Serapim, uel Serapidem, uulgus appellat. Solent enim mortuis consecratis nomina immutari, credo ne quis putet eos homines fuisse. Nam et Romulus post mortem Quirinus factus est, et Leda Nemesis, et Circe Marica, et Ino, postquam se praecipitauit, Leucothea Materque Matuta; et Melicertes filius eius, Palaemon atque Portunus. Sacra uero Cereris Eleusinae non sunt his dissimilia. Nam sicut ibi Osiris puer planctu matris inquiritur, ita hic ad incestum patrui matrimonium rapta Proserpina: quam quia facibus ex Aetnae uertice accensis quaesisse in Sicilia Ceres dicitur, idcirco sacra eius ardentium taedarum iactatione celebrantur198.
198 LACT. inst. I.21.19–24.
Come ha mostrato LAUSBERG (1970), per la parte iniziale di questo passo, relativa al culto egiziaco–romano di Iside, l’apologista dipende da Minucio Felice199 che a sua volta attinge dal frammento 35 del De superstitione di Seneca200.
La tabella che segue riproduce quella proposta da Lausberg201 e illustra chiaramente la stretta dipendenza di Lattanzio dall’autore dell’Octauius.
MIN.FEL. 22.1 LACT. inst. I.21.20
Isis perditum filium cum Cynocephalo suo et caluis sacerdotibus luget plangit inquirit,
Isidis Aegyptae sacra sunt, quatenus filium paruulum uel perdiderit uel inuenerit.
et Isiaci miseri caedunt pectora et dolorem infelicissimae matris imitantur;
Nam primo sacerdotes eius deglabrato corpore pectora sua tundunt lamentantur, sicut ipsa cum perdidit fecerat;
Mox inuento paruulo gaudet Isis, exultant sacerdotes, Cynocephalus inuentor gloriatur,
deinde puer producitur quasi inuentus et in laetitiam luctus ille mutatur. Nec desinunt annis omnibus uel
perdere quod inueniunt uel inuenire quod perdunt.
Ideo Lucanus (in realtà Ov. Met. IX.693) ‘numquamque satis quaesitus
Osiris’. Semper enim perdunt, semper
inueniunt.
Tra le numerose corrispondenze fra il testo delle Institutiones e quello dell’Octauius, la rappresentazione di Osiride come figlio di Iside avvalora l’ipotesi della dipendenza di Lattanzio da Minucio, dato che nelle altre fonti egli è rappresentato come fratello e sposo della dea202.
199 MIN.FEL. 22.1.
200 Cf. LAUSBERG (1970, 222). 201 Cf. LAUSBERG (1970, 223). 202 Cf. e.g. SERV. Aen. IV.609.
La citazione poetica “numquamque satis quaesitus Osiris”203, inoltre, deve avere la medesima finalità della citazione del Fanaticus quintilianeo inserita da Lattanzio nel paragrafo dedicato Bellona (cf. supra cap.XII): l’apologista, anziché citare liberamente la fonte dalla quale attinge – in questo caso Minucio Felice – sceglie di trasmettere il concetto espresso dalla fonte con l’ausilio di un altro testimone che trasmette un contenuto equivalente.
L’attribuzione a Lucano, del resto, della suddetta citazione ovidiana può essere spiegata facilmente.
Lattanzio, in effetti, riporta poco più avanti i versi 159–160 del IX libro del poema lucaneo (:“Euoluam busto iam numen gentibus Isim;/Et tectum lino
spargam per uulgus Osirim”), nei quali il figlio di Pompeo esprime tutto il suo
rifiuto per il culto isiaco.
È comprensibile, quindi, che Lattanzio abbia erroneamente ricondotto la citazione di Ovidio a Lucano, dato che questa è affine ai versi del Bellum ciuile citati più avanti. Poiché, inoltre, nel Bellum ciuile Lucano “si avventa con disdegno contro l’introduzione di Iside a Roma” anche nell’VIII libro204, si comprende che l’apologista abbia potuto ricondurre a Lucano l’esametro di argomento egiziaco. Continuando a leggere il testo lattanziano, ci si imbatte nella identificazione di Osiride con Serapide. Poiché nessun altro testo letterario a noi pervenuto testimonia la corrispondenza fra le due figure, ad eccezione dell’Octauius di Minucio Felice, si può concludere che anche in questo caso l’apologista deve essersi basato sul dialogo minuciano205.
Chiuso il discorso sul culto egiziaco–romano, l’apologista passa ad elencare una serie di divinità che condividono con il già discusso Serapide–Osiride il fatto di
203 Non si tratta di Lucano, ma di un passo di Ovidio, cf. OV. met. IX.693. Per una giustificazione di questo errore cf. infra nel testo.
204 Nel libro VIII del Bellum ciuile (vv. 831 e ss.), dedicato alla morte di Pompeo in Egitto, Lucano assume come obiettivo polemico la natura mortale di Osiride in ragione del fatto che il concetto della morte e resurrezione del dio è inconciliabile con la mentalità stoica, cf. PARATORE (1982, 343) dal quale è ripresa anche la frase citata fra
virgolette nel testo.
205 Cf. MIN. FEL. 21.3: “[…] et ad sparsis membris inanem tui Serapidis siue Osiridis tumulum”.
essere mortali divinizzati “post mortem” con un nome diverso da quello che avevano in vita “ne quis putet eos homines fuisse”.
Per quanto riguarda Romolo–Quirino, è molto probabile che la fonte utilizzata da Lattanzio sia un passo dell’Aduersus nationes nel quale Arnobio fa riferimento alla divinizzazione di Romolo per polemizzare sull’uso romano di venerare gli uomini come dei: “Nonne ipsum Romulum patrem senatorum manibus
dilaceratum centum et Quirinum esse Martium dicitis et sacerdotibus et puluinaribus honoratis et in aedibus adoratis amplissimis et post haec omnia caelum ascendisse iuratis? Aut igitur ridendi et uos estis, qui homines grauissimis cruciatibus interemptos deos putatis et colitis, aut si certa est ratio cur id uobis faciendum putetis, et nobis permittite scire quibus istud causis rationibusque faciamus”206.
Lattanzio, successivamente, nomina Leda–Nemesi. Pur mantenendo il nome greco, la dea trova posto nel pantheon romano almeno a partire dal primo principato207. Poiché l’apologista la inserisce in una serie di divinità romane, è plausibile che egli la menzioni proprio in qualità di dea dei Romani.
Gli apologisti antecedenti a Lattanzio non parlano mai di Nemesi e l’autore delle
Institutiones deve aver letto di questa figura in fonti anteriori. Tra le fonti antiche
in lingua latina, la sola opera a mettere espressamente in relazione Leda e Nemesi – senza asserire, per altro, che in quest’ultima si deve vedere Leda divinizzata – è il De astronomia di Igino208. Si può pensare, allora, che Lattanzio fosse anche a conoscenza di fonti in lingua greca sulle due figure.
Come ha mostrato BELLUARDO (2009)209, la tradizione, tanto in greco quanto in latino, assegna ora a Leda, ora a Nemesi il ruolo di madre naturale di Elena e lo
206 ARNOB. nat. I.41.5–6.
207 Cf. PLIN. nat. XI.251 e XXVIII.22. Nei primi secoli dell’Impero, Nemesi appare come “dea della giustizia imperiale” MCCLINTOCK (2016, 304) ed è venerata “dalla Spagna al
Norico, dall’Africa alla Britannia”, con “un’evidente concentrazione delle attestazioni in Hispania e nelle province danubiane” LEGROTTAGLIE (2008, 146). Di questo culto,
comunque, resta traccia, più che nella letteratura, nell’epigrafia e nell’arte figurativa (cf. e.g. la statua di Nemesi ritratta come Faustina Maggiore, moglie di Antonino Pio, al quale si attribuisce l’istituto dei ‘serui poenae’).
208 Cf. HYG. astr. II.8.
stesso Igino, che opta per attribuire la maternità a Nemesi, ricorda che per altri la madre di Elena è, invece, Leda.
Considerato, dunque, che non disponiamo di fonti che avrebbero potuto tramandare a Lattanzio l’ identità fra Leda e Nemesi, potremmo ipotizzare, con tutta la cautela che il caso richiede, che Lattanzio sia arrivato a identificare le due figure a partire dal tratto ‘madre naturale di Elena’, assegnato dalla tradizione ora a Leda, ora a Nemesi.
A seguire, l’apologista afferma che Circe sarebbe stata venerata come Marica. Quest’ultima, stando alle fonti di cui disponiamo, sarebbe stata la ninfa che unitasi a Fauno generò Latino210 e avrebbe avuto un’area a lei sacra211 presso il fiume Liri, nella regione del golfo di Gaeta.
Sebbene la maggior parte delle testimonianze relative a Marica non la identifichi con Circe, Servio sostiene che in molti avrebbero identificato le due figure: “Latinus secundum Hesiodum […] Ulixis et Circae filius fuit, quam multi etiam
Maricam dicunt”212.
Il filone cui l’esegeta rimanda avrebbe potuto prendere corpo dall’accostamento di due tradizioni: una che raccontava di un Latino figlio di Circe e Ulisse213 e un’altra che riferiva di un Latino figlio di Marica e Fauno.
La geografia, del resto, offre un segnale ulteriore della sovrapposizione fra le due figure: il promontorio del Circeo, in effetti, è prossimo alle coste sacre a Marica214.
Lattanzio, d’altra parte, non si limita ad identificare Circe e Marica, ma afferma, in particolare, che Circe sarebbe stata divinizzata come Marica. Su questo aspetto, tuttavia, a causa della totale assenza di documentazione, non è possibile esprimersi.
Dopo Circe–Marica, Lattanzio si sofferma su Ino e Melicerte, entrambi divinizzati con un nome diverso in ambito greco e in ambito romano.
210 Cf. VERG. Aen. VII.46 e ss..
211 Un lucus (cf. LIV. XXVII.37), una silua (cf. MART. XIII.83.1) o dei querceta (cf. CLAUD. Ol. Prob. 253).
212 SERV. Aen. XII.164. 213 Cf. HES. Th. 1011–1013. 214 Cf. MART. X.30.4–5.
L’identificazione di Ino con Leucothea in ambito greco e con Mater Matuta in ambito romano è già documentata da Cicerone215, ma, con ogni probabilità, Lattanzio ha in mente una testimonianza che menziona al contempo Ino, Melicerte e le rispettive divinizzazioni nei contesti greco e romano216.
Considerato che i Fasti ovidiani sono ben noti all’autore delle Institutiones, è molto probabile che il riferimento a Ino e Melicerte (e, dunque, a Mater Matuta e Portunus) presupponga proprio Ov. fast. VI. 543 e ss.: “in uestris aliud sumite
nomen aquis:/Leucothea Grais, Matuta uocabere nostris;/in portus nato ius erit omne tuo,/quem nos Portunum, sua lingua Palaemona dicet”.
Resta da commentare, a questo punto, il riferimento a Cerere e Prosperpina che Lattanzio propone alla fine della sezione sui mortali divinizzati paragonando la ricerca della figlia Proserpina da parte della madre Cerere a quella di Osiride da parte di Iside.
Se interpretiamo correttamente il pensiero dell’apologista, il rapporto madre– figlia svelerebbe, come nel caso di Iside e Osiride, la natura mortale di Proserpina e sua madre217.
Per quel che riguarda la fonte adoperata in questo caso da Lattanzio, MONAT (1986) segnala il seguente passo delle Verrinae: “Quam cum inuestigare et
conquirere Ceres uellet, dicitur inflammasse taedas iis ignibus qui ex Aetnae uertice erumpunt. Quas sibi cum ipsa praeferret, orbem omnem peragrasse terrarum”218.
L’apologista, in particolare, sembra riprendere da Cicerone gli elementi indicati di seguito:
• il sintagma “ex Aetnae uertice”;
• la forma verbale ‘dicitur’, il cui soggetto è Ceres tanto in Lattanzio quanto nell’orazione ciceroniana;
215 Cf. CIC. nat. deor. III.48 e Tusc. I.12.28.
216 Cf. e.g. HYG. fab. 2.5, 125.17 e 224.2, OV. fast. VI.543 e ss. e SERV. Aen. I.437 e V.241.
217 Cf. LACT. inst. I.21.21 su Iside e Osiride: “Refertur ergo in sacris imago rei, quae uere gesta est, quae profecto, si quid sapimus, declarat mortalem mulierem fuisse, ac pene orbam, nisi unicum reperisset”.
• l’immagine “ardentium taedarum” rifatta sull’espressione “inflammasse